L’ARCHITETTURA TRADITA
C’è un comandamento non espresso nelle tavole delle
dieci parole di Mosè (cf. Es. 20,1-21; Dt. 5,1-22) ma che si potrebbe dedurre
da ognuna di esse, ne potrebbe essere la sintesi o anche il preambolo alla loro
osservanza. Da anni io lo formulo così: “Amerai
la terra come te stesso”. (Enzo Bianchi)
Amerai la terra come te stesso, lo rivedo nella mani segnate di mia nonna, nel suo
atteggiamento mesto e silenzioso, mentre si avvolge il foulard per andare in
campagna sotto il sole intenso. Lo immagino nel lavoro di mio nonno, mentre
scava il pozzo vicino a casa. La terra è sempre stato un fattore costante della
mia vita, un’emozione positiva, le ciliegie a giugno, negativa quando
tirannicamente si assorbiva tutte le mie vacanze estive. Alle volte l’ho pure odiata, con un
risentimento adolescenziale di chi deve affrontare una fatica troppo grande.
Poi ho compreso. La ribellione si è placata, o quanto meno si è trasformata.
Per quante definizioni si possano trovare e analizzare, rimane sempre una
questione di fondo, la terra richiede dedizione, passione e sforzo. Per quanto
tormentata, offesa, denigrata, straziata, divorata, impoverita e consumata, è
la materia che noi cerchiamo, quando la vita ce lo permette. Oltre le quinte di
cemento, oltre il rumore dello spazio costruito, oltre i muri e le barriere
antropiche, esiste ancora un bosco, una vigna, un frutteto, un albero secolare,
un rio, oltre a questo esiste la malattia per la terra.
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Langa, paesaggio del vino in inverno (foto B. Murialdo) |
Quella che ti imbriglia
l’anima, le braccia, la vita. Non sono concetti facili da comprendere.
Spaventano. Nella Langa riportano spesso a un passato contadino di fatica, di
povertà e di sacrificio, di rinuncia. Camminare ora tra le strade del pregiato
Barolo, è come essere avvolti dalla cipria del perfetto marketing effetto cerone,
del rossetto brillante e dell’ombretto vistoso. Si sono coperte le rughe, perché
oggi, a differenza del passato, si è sotto i riflettori. Al giorno d’oggi la gente sa il
prezzo di tutto e non conosce il valore di niente. È l’era del fondotinta ai siliconi. Benvenuto
progresso. Cambiare tutto per non
cambiare niente? No, no, abbiamo cambiato, deviato il corso dei fiumi,
costruito la dove il buon senso dell’ignoranza non universitaria mai avrebbe consentito
di fare, abbandonato ed abbattuto. È il progresso. È ’edilizia. È l’architettura? Compare un punto interrogativo, che
mi proietta di nuovo nelle Langhe, tra le vigne del Barolo. Ho fatto un segno
su una cartina, il punto di arrivo del mio viaggio solitario. Ho fatto tanti
chilometri mentali per giungere lì, nella rinomata zona del Barolo. Ho dato
un’occhiata su internet, e presa dal desiderio irrefrenabile di farmi avvolgere
dalle linee sinuose delle colline ammaliatrici, ho viaggiato con il pensiero
senza riserva. Strano questo posto. Dopo aver superato molti edifici
ingombranti e fuori scala, lottato contro ogni sorta di villetta a schiera,
prefabbricato, condominio, officina, tettoia, magazzino e deposito, superata
l’ennesima colata di cemento, arrivo finalmente alla porta del “regno magico”.
Di fronte a me campeggia una scritta: “zona colpita da improvviso benessere”. Che
cosa significa? Varco la soglia. Inizio a capire. È il progresso. Curiosa interpretazione. Di certo non
si può pretendere che cada un placido sonno perenne su queste terre, ma possibile
che il genere umano non abbia saputo concepire altro?
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Langa Barolo (foto di Bruno Murialdo)
Quello che vedo è il
deserto dell’architettura, è l’arsura del pensiero, è l’infedeltà degli animi,
l’intransigenza delle contraddizioni. Architettura sei come una strana
mendicante, appassita e moribonda, sembri esserti persa nei sottotetti polverosi
ed imbarcati, nelle cantine sotterranee, nelle cascine abbandonate o nelle mura
di mattoni invase delle erbe. Architettura: insieme delle relazione tra l’anima
di un luogo, il pensiero umano, la ricerca, l’osservazione e l’elaborazione. Il “nulla
non può venir che dal nulla” diceva il Re Lear. In questa terra impregnata di tanta fatica, di sobrietà, di dedizione,
di silenzio, l’architettura pare essersi confusa e persa. Secondo le teorie di
molte antiche civiltà, noi essere umani apparteniamo alla Terra e non
viceversa. Amerai la terra come te stesso,
lo rivedo nella mani segnate di mia nonna. Bernardo di Chartres scriveva “Siamo
come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e
più lontane, non certo per l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo
sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.
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Barolo |
Il Barolo non sarebbe
il Barolo, senza le mani rovinate di questi giganti uomini e donne, senza i
mattoni e le pietre delle cantine scavate con la forza delle braccia, senza
l’intimo rapporto che il vignaiolo e la terra che lo nutre, senza questa alleanza
sacra, un’architettura di vita. Un’alleanza che si riscontra anche nel modo di costruire,
sobrio, pulito, perché costruire era fatica, i materiali donati dal luogo e
sapientemente utilizzati, erano espressione di quel patto di rispetto tra uomini
e ambiente. Patto di civiltà. Sostenibile. Ed invece no, l’arroganza umana ha
infierito sui giganti che ci avevano sorretto con le loro spalle, ed è stato un
pullulare di costruzioni disorganizzate, disarmoniche, urlatrici, vistosamente
truccate e fastidiosamente ingombranti. Complice l’assenza di un governo ragionevole
del territorio, ora ci ritroviamo nel pieno dell’era del fast building e nel
Wine marketing opera dell’homo oeconomicus, definibile come derivazione artificiale
ed insaziabile, dell’homo sapiens.
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Langa, paesaggi del vino (foto B. Murialdo) |
Ovunque il mio sguardo si posi, è rassegnato
di fronte a tanta bruttezza e a un’incessante perdita di dignità intellettuale.
Un territorio ferito, prosciugato dei suoi valori, come il corpo di Cristo di
Hans Holben, le cui carni appassite e fibrose, urlano mute la brutalità dell’essere
umano. Non confondiamo, però la brutalità dell’edilizia di questi ultimi
decenni, con l’architettura. L’architettura in questo frangente, ovvero quello contemporaneo,
può essere anch’essa portatrice di pensiero, di riflessione, certo dovrebbe
essere generata da architetti in grado di capire, che si ergono prima di tutto
dalle spalle di giganti. Non sarà la copia o il falso storico a salvarci, ma il
confronto, la comprensione, l’integrazione, l’umiltà. L’umiltà. L’architetto ha
un ruolo fondamentale come tessitore di relazioni, è un creatore del mondo, svolge
una funzione politica, intesa nell’accezione nobile del termine.
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Castello della Volta e la Morra |
Contribuisce
con il proprio lavoro intellettuale al divenire dei luoghi, alla trasmissione del
genio umano nei secoli. Il confine però, tra intelligenza creativa e prepotenza
espressiva è labile, nebuloso, non sempre facile da decifrare, e da questo che
si genera la confusione. Gli architetti non sono artisti, non sono realizzatori
di gesti più o meno riusciti, non materializzano sogni, eppure troppe volte
invasi da eccessiva autostima, rischiano di identificarsi come il principio, la
genesi, l’essenza della creazione. Dimenticavo, sono un architetto pure io. Forse
siamo integrati con una “ghiandola” dell’autostima eccessivamente
sviluppata. Scordiamo che la storia
architettonica di questo Paese non è un peso del quale liberarsi, un mutuo non
estinto, un debito ereditato, una rogna improvvisa, il semaforo sempre rosso,
la multa sull’auto o una carie ai denti… Ho un dubbio, che il genere umano
abbia davvero il gene dell’arroganza tendente all’obesità? Non ho una risposta,
ma nell’attesa che termini il turno degli architetti desiderosi dei famosi quindici
minuti di fama, mi sono seduta in un filare. Ascolto e guardo, l’architettura
tradita.
Silvana Pellerino
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MARIA
ELISABETTA MARELLI
ALL’AUDITORIUM
GABER
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