SCHIAVI MODERNI ED ECATOMBE
Evitare che il
Mediterraneo divenga un cimitero,
miniera di arricchimento
per esseri disumani:
Non ostante, si può
fare.
di Paolo Maria Di
Stefano
Fino a qualche
giorno fa, una compagnia di navigazione -navi da crociera- offriva in via
promozionale una settimana nel Mediterraneo ad un costo inferiore ai
quattrocento euro, se ben ricordo. Non mi intendo di crociere: non mi piace
rinchiudermi in quello che considero un piccolissimo mondo affollato di
cacciatori ed utilizzatori di simboli di stato e di futilità più o meno
eccitanti, e in più credo di soffrire il
mal di mare, ragioni per le quali non ho approfondito.
Ho solo aggiunto l’informazione a quello che è ormai un
pensiero fisso.
Questo.
I professionisti dell’informazione non perdono occasione per
segnalare come ogni persona imbarcata paghi attorno a millecinquecento euro per
essere torturata fino al momento della liberazione ad opera di una delle tante
unità della Marina militare italiana. Una liberazione, tra l’altro, precaria in
vista di un futuro senza dubbio migliore del passato nei barconi, ma da non
augurarsi neppure al nostro peggior nemico.
Sempre che, nel frattempo, non si muoia in mare per il
rovesciamento dell’imbarcazione o per l’opera di compagni di avventura (e di
sventura) incattiviti dalla situazione o anche speranzosi di guadagnare il
paradiso promesso dal loro Dio e dai Suoi profeti liberando il mondo dagli
infedeli.
Perché, neppure di fronte a tragedie quali quella
verificatasi due o tre giorni fa, nessuno pensa di organizzare i trasferimenti
utilizzando le navi da crociera?
A pagamento, ovviamente, vista la carenza morale della
nostra economia che ammette solo la creazione di profitto e la sua
massimizzazione.
Con cinquecento euro a passeggero, per un giorno e una notte
cento di più di quanto richiesto per una settimana di crociera, sempre a
passeggero, e quindi con notevole utile, quelle navi porterebbero in porti prestabiliti
uomini donne e bambini con un nome (riduzione dei rischi derivanti
dall’anonimato e possibilità di una migliore distribuzione e organizzazione dei
centri di accoglienza); con una storia per quanto sommaria (riduzione dei
rischi di imbarco di delinquenti più o meno abituali e di terroristi, più o
meno dilettanti); con legami familiari noti (costi minori per il
ricongiungimento familiare); con rischi per la salute assolutamente ridotti (e
quindi costi inferiori per le cure mediche e per eventuali epidemie da contagio);
utilizzando mezzi di trasporto assolutamente sicuri, salvo inopinati inchini
nelle vicinanze della costa (enorme risparmio sui costi della ricerca e del
recupero dei dispersi in mare); sostituendosi ai trasportatori (lotta efficace
alle mafie e alle associazioni per delinquere che oggi si occupano dei
trasferimenti); scegliendo porti di imbarco che possano comportare la scelta di itinerari alternativi a quelli
dell’attraversamento dei deserti;…
Che la mia sia la voce di uno che grida nel deserto pare
confermato. I nostri politici – che sono poi coloro che dovrebbero prendersi
cura del fenomeno – ad organizzare diversamente le cose non ci pensano neppure.
Meglio: a parole, tutti dicono che occorre fare qualche cosa, ma nessuno sembra
avere un’idea concreta e concretamente realizzabile. Sempre se si eccettua la
creatività di chi propone il pattugliamento armato delle coste “vicine e
lontane”, che significa sparare a qualsiasi cosa si muova dalle coste africane
verso le nostre. E quindi minacciare di morte e di eseguire la sentenza. E
forse anche di coloro che hanno una sola idea, pure confusa: la terra è mia,
guai a chi me la tocca, che può essere espressa anche così: il lavoro è mio, e
anche se io non ho voglia di farlo, guai a chi cerca di farlo al mio posto.
Concetti, tra l’altro, ampiamente utilizzati a fini
elettorali.
Per il resto, la solita risposta: non si può fare. Che non è
il risultato di una analisi accurata, ma soltanto quello di una pigrizia
intellettuale assolutamente spaventosa.
Probabilmente, l’obiezione più valida potrebbe essere
costituita dall’essere -l’imbarco- il momento finale di un viaggio che parte da
molto più lontano e che dovrebbe essere bloccato o regolato fin dall’inizio, ed
anche lungo tutto il tragitto, e dunque con interventi a monte dell’imbarco.
Nessuno sembra averla sollevata, però, se non in termini di “bisognerebbe intervenire nei Paesi dai quali
i profughi scappano”, accuratamente evitando di dire il “come” l’intervento
potrebbe essere attuato, non solo, ma anche limitandosi a mettere in evidenza la
difficoltà (peraltro, reale) di trovare interlocutori validi. O addirittura di
reperire un qualsiasi interlocutore: in Libia, per esempio, sembra non esistere uno Stato, e non è che negli
altri Paesi – dove pure lo Stato esiste – la situazione sembra migliore.
E, naturalmente, non c’è da aspettarsi che l’organizzazione
di delinquenti che oggi si occupano del fenomeno accetti senza reagire: le
caratteristiche della probabile reazione andrebbero a loro volta studiate a
fondo e prevenute per quanto possibile, cominciando dall’accertare come e chi
anche in Italia e in Europa si muove per
lucrare sui disperati.
Non c’è alcuna possibilità, allora?
Forse vale la pena di citare testualmente una
“testimonianza” da “Sulle strade dell’esodo” del gennaio- febbraio di questo
anno. E’ quanto scrive Mariella Guidotti di Alganesh Fessaha, italo-eritrea
residente da oltre quaranta anni a Milano, “il cui profilo” -cito testualmente-
“sta in alcune cifre: 3.800 migranti liberati dalle prigioni egiziane, 750
strappati ai trafficanti beduini, innumerevoli morti raccolti nel deserto,
1.550 bambini ospitati e sfamati. La sua terra d’origine, l’Eritrea, è da
trenta anni sotto una dittatura che ne fa una prigione a cielo aperto ed anche,
si potrebbe dire, una caserma. Vige infatti l’obbligo del servizio militare per
tutti, uomini e donne, dall’ultimo anno delle scuole fino ai cinquanta anni:
lavori forzati, paghe scarse, un’unica settimana di permesso all’anno. (omissis) Per questo i giovani scappano
(si calcola tremila al mese) anche se sanno del terribile viaggio che li
aspetta. Gli itinerari sono quelli dei deserti: il Sinai e il Sahara. Il Sinai
in particolare è terra di beduini, tribù nomadi senza una configurazione
politica, apolidi da sempre dediti al commercio lungo le vie carovaniere. La
mancanza di una organizzazione statale
(l’Egitto, cui il Sinai appartiene, non si è mai curato di quelle
popolazioni) ne fa un popolo che vive secondo usanze proprie. (omissis)
Con le migrazioni dai paesi al Sud del Sahara (Sudan, Senegal, Nigeria,
Mali, Costa d’Avorio…) e dal Corno d’Africa sono diventati trafficanti di
uomini e non solo di merci. Chi vuole attraversare il deserto deve affidarsi a
loro per un prezzo che mediamente si aggira attorno ai mille/duemila dollari,
per essere poi venduto ad una seconda tribù, poi ad una terza, ad una quarta,
fino a cinque passaggi, ed ogni volta il prezzo sale. Passati così di mano in
mano, i migranti diventano ostaggi veri e propri, tenuti incatenati, nascosti
in grotte sotterranee, sottoposti a sevizie ed abusi di ogni genere. Per la
loro liberazione, viene chiesto un riscatto che può arrivare anche a
trenta-quaranta mila dollari o più. Con i telefoni satellitari, i trafficanti
si mettono in contatto con i familiari, e perché la richiesta di danaro risulti
più convincente, li torturano facendo colare plastica fusa sulla schiena; le
ragazze vengono stuprate. Le immagini che Alganesh ci mostra sono sconvolgenti:
corpi ustionati, piagati, scheletrici, cadaveri sfigurati cui sono stati
prelevati gli organi. (…) Molti cadaveri nel deserto presentano segni
inequivocabili di queste operazioni, ma può accadere che anche ai vivi, se non
possono pagare, venga tolto un rene. Quando è venuta a conoscenza di queste
situazioni, Alganesh ha chiesto aiuto ad un beduino del Sinai, lo sceicco
Mohammad Ali Hassan Hawad, mufti salafita, appartenente alla corrente più
ortodossa dell’Islam. (omissis)
Per liberare gli ostaggi, hanno sviluppato una strategia. Alga finge di
voler pagare il riscatto e, quando può parlare con i prigionieri, chiede loro
di fornire qualche indicazione del luogo in cui si trovano: la vicinanza di una
moschea, la presenza di molti cammelli fermi, altri segni. Sheikh Mohammad, che
conosce la zona, individua al luogo e si presenta al capo, dicendo di aver
saputo che nasconde una trentina di prigionieri. Questi nega, e allora Sheikh,
che è anche un capo religioso molto rispettato, gli chiede di provare le sue
affermazioni giurando sul Corano. A quel punto comincia una sequela di scuse,
di mezze ammissioni, fino a che almeno una parte dei prigionieri viene
consegnata. Se questa tattica non funziona, scatta una strategia armata, una
sorta di rapimento che spesso finisce in un conflitto a fuoco, fortunatamente
fino ad ora senza vittime.
Dopo la liberazione, Alga si occupa di ottenere documenti
con l’aiuto dell’UNHCR e di portare queste persone in Egitto. Nel deserto si
muove indossando un burqa per non essere riconosciuta. E’ stata ed è infatti
oggetto di minacce, di avvertimenti espliciti. Più volte è stata picchiata, le
hanno rotto un braccio e alcune costole.
Ha detto queste cose al governo? Perché nessuno le fa
finire? -chiede uno studente. Ho
denunciato questo traffico all’ONU, all’Unione Europea e all’Unione Africana,
ma nessuno è intervenuto, tutto è rimasto come prima. Perché? Non lo so, ma è
certo che dietro tutto questo ci sono interessi enormi. I soldi dei riscatti,
del traffico di esseri umani, della vendita di organi dove vanno a finire? (omissis).”
Tanto per segnalare una cosa ancora: nell’estate del 2014 è
stato pubblicato un libro fotografico “Occhi nel deserto” dall’editrice SUI
Sviluppi Umani Immaginati. Se è vero che un’immagine vale più di mille parole,
allora…
Ma forse non per i nostri Politici, i quali continueranno a
fare orecchio da mercante (speriamo, almeno, non di esseri umani e di organi) e
non soltanto ad ignorare il problema, quanto soprattutto a nascondersi dietro
una conclamata e comoda impossibilità di
intervento, oltre che di un altrettanto conclamato e comodo scaricabarile.
Ancora una volta nella mia qualità di uno che grida nel
deserto, vorrei richiamare l’attenzione di chi ha letto fin qui sulla
circostanza che su ognuno degli elementi di questa storia si può intervenire.
E lo si può fare, appunto, forse proprio cominciando a
predisporre mezzi ed itinerari, magari dopo aver esaminato e svolto a fondo i
temi proposti.MARE NOSTRUM
Scorre il tempo
e non ha tregua
tra filari di vite
abbandonati
in acque saline
il terrore non ha
più occhi
ma fosse
bagnate di sangue!
Laura Margherita VolanteNON CI SONO LACRIME...
Non ci sono lacrime a
colmare il dolore di vite
sospese nel vuoto
Non ci sono lacrime a
tergere il vento secco
di vite sbattute nel deserto
Non ci sono lacrime a
spegnere il fuoco di vite
incenerite nell'indifferenza
Non ci sono lacrime a
bagnare la terra di vite
vissute nella fame
e morte nel silenzio
freddo della guerra.
Laura Margherita
Volante