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martedì 5 maggio 2015

LODI. IL MUSEO DELLA STAMPA
di Angelo Gaccione

Da Gutenberg al computer, una splendida collezione ricca di storia e di cultura.  

Una veduta della Sala Stampa Tipografica
Sono stato, nel corso degli anni, numerose volte a Lodi. Vi sono stato quando non era stata ancora elevata a città, e vi sono stato molte volte in seguito. Spesso in piena estate e con la città semideserta. L’ho girata, come faccio d’abitudine, in lungo e in largo e sempre mi ha affascinato e ne ho riportato un’impressione positiva. Associo spesso i luoghi che ho visitato agli odori olfattivi che ne ho percepito, e se penso a Lodi, immediatamente mi torna prepotente il suo meraviglioso stordente profumo di tigli. Quanto sia armonica, suggestiva e ricca di architetture, anche il visitatore più distratto e frettoloso può verificarlo. Avendo in età molto giovane ricevuto anche un premio legato alla memoria di Ada Negri, era scontato e doveroso che ne andassi a scovare nella sua città, la casa dove era nata e vissuta. Vi sono tornato anche di recente su invito di Renato Cassamagnaghi, vice presidente del “Museo della Stampa e Stampa d’Arte”, voluto dallo scomparso ingegnere Andrea Schiavi che lo realizzò nel 2008 e ora a lui dedicato. Musei come questi possono nascere solo se chi li realizza ha lavorato nel ramo e ne capisce a fondo il fascino e la complessità (del lavoro e delle macchine); o da una passione accesa verso tutto ciò che è stampa e scrittura, giustamente definite forme d’arte. Quanto a me, ho sempre considerato i torchi e i macchinari delle tipografie che ho avuto modo di visitare, delle vere e proprie sculture, e l’intera officina che le completa, come un luogo magico ma fatto altresì di rigore, precisione geometrica, ordine, inventiva, cura del gusto e del bello. Lo stesso mi accade davanti a certi macchinari e manufatti industriali dalle forme più bizzarre, e che si presentano visivamente come totem scultorei di intensa suggestione, oltre che ingegneristicamente elaborati e complessi.
Torchio
Tutto ciò che ha a che fare con la stampa e la scrittura mi provoca sempre un piacere intenso. Ho provato le stesse emozioni visitando la Casa degli stampatori ebrei di Soncino che il Gabinetto Vieusseux di Firenze. Le stesse emozioni davanti ad un codice miniato a mano medievale come davanti ad incunabolo a stampa. I caratteri nelle sue varie forme e tipologie mi incantano come i  variegati alfabeti; come i diversi processi di stampa: che sia una calcografia o una xilografia, una serigrafia o una litografia poco importa. C’è qualcosa di misterico nella combinazione dei caratteri mobili, come c’è qualcosa di misterico nella fusione di essi. Possiedo un libro prezioso e bellissimo: “La scrittura memoria degli uomini” ricchissimo di segni e di immagini; percorre la fascinosa avventura della scrittura dalle origini all’invenzione dell’alfabeto; dal lavoro meticoloso ed elegante degli amanuensi fino all’invenzione della stampa e dei primi torchi. Da ragazzino mi divertivo a trasferire il rilievo con la spiga di grano delle 10 lire di alluminio, posizionando la moneta sotto un foglio di carta e strofinandovi sopra la pasta di un colore a cera o la punta di una matita grassa. Rimanevo piacevolmente sorpreso del risultato. Ho avuto anche la fortuna di veder realizzati alcuni miei librini di aforismi (tirati in pochi esemplari da Alberto Casiraghi di Osnago) con un piccolo torchio a mano. 
Il logo del Museo

L’invito a visitare il Museo di Lodi, è stato per me un vero piacere: nei 2000 metri quadrati dei locali di via della Costa n. 4, e che un tempo ospitava l’ex tipografia Lodigraf, c’è una quantità davvero sorprendente di macchine a stampa prodotte in vari paesi europei tra l’Ottocento e il Novecento, dai costruttori più rinomati. E poi torchi (calcografici e litografici) realizzati dal XVI secolo in poi; stampatrici di ogni tipo; presse… Insomma una vera meraviglia che non è possibile raccontare con la scrittura e che dovete direttamente vedere. Come raccontarvi i torchi di Stanhope e Albion che facevano parte dell’attività del fonditore ed incisore Claudio Wilmant, fra i più noti nell’area milanese e lodigiana dell’Ottocento, o il torchio “Columbian” nato dall’invenzione dell’americano George Clymer e che fu materialmente realizzato a Londra nel 1817? Magnificamente arricchito da varie decorazioni, sormontato da un’aquila ad ali spiegate, questo torchio è il solo esemplare che si può vedere in Italia. Considerate che si tratta di macchinari pesantissimi e che per essere portati qui hanno dovuto essere smontati pezzo per pezzo e rimontati. Spesso si è dovuto ristrutturarli per conferirgli l’antico splendore, e la ricerca di essi ha comportato viaggi, fatiche, studio. Cassamagnaghi, che mi ha guidato con diligenza e rara competenza in questa esplorazione, conosce per filo e per segno uso, storia e vicende di ogni cimelio presente nel Museo, la cui ricchezza è costituita da migliaia di materiali magnificamente custoditi e conservati.

Il torchio "Columbian" di George Clymer
Appassionati, studenti o semplici curiosi, troveranno in questo luogo un’atmosfera irripetibile. Potranno vedere la fabbricazione della carta a partire dalla macerazione della cellulosa fino alla filigrana: dalla semplice elementare poltiglia alla forma densa della carta, alla sua asciugatura. A me ne è stato regalato un esemplare realizzato sotto i miei occhi e su cui ho scritto a mano un testo poetico: l’effetto vi assicuro è bellissimo, e non ha niente a che vedere con una stampata dal computer. Il Museo possiede delle stampanti tuttora funzionanti e il signor Franco ha dato una piccola dimostrazione di come si possono creare file di scrittura a caldo con l’assemblaggio dei caratteri mobili della linotype su metallo. Ma è tutto il processo, dalla fotocomposizione alla stampa e alla cucitura a filo, all’incisione sulla copertina, al taglio, che qui è possibile seguire.

Una delle numerose macchine di stampa del Museo
La città di Lodi e le sue istituzioni, pubbliche e private, dovrebbero essere orgogliose di questa singolare collezione. Dovrebbero unire le forze e far fronte comune perché essa divenga a tutti gli effetti patrimonio collettivo, e non resti relegata in un ambito strettamente privato e volontaristico, com’è finora avvenuto. Sarebbe una grave perdita culturale, un’omissione imperdonabile.