LODI. IL MUSEO DELLA STAMPA
di Angelo Gaccione
Da Gutenberg al
computer, una splendida collezione ricca di storia e di cultura.
Una veduta della Sala Stampa Tipografica |
Sono stato, nel
corso degli anni, numerose volte a Lodi. Vi sono stato quando non era stata
ancora elevata a città, e vi sono stato molte volte in seguito. Spesso in piena
estate e con la città semideserta. L’ho girata, come faccio d’abitudine, in
lungo e in largo e sempre mi ha affascinato e ne ho riportato un’impressione
positiva. Associo spesso i luoghi che ho visitato agli odori olfattivi che ne
ho percepito, e se penso a Lodi, immediatamente mi torna prepotente il suo
meraviglioso stordente profumo di tigli. Quanto sia armonica, suggestiva e
ricca di architetture, anche il visitatore più distratto e frettoloso può verificarlo.
Avendo in età molto giovane ricevuto anche un premio legato alla memoria di Ada
Negri, era scontato e doveroso che ne andassi a scovare nella sua città, la
casa dove era nata e vissuta. Vi sono tornato anche di recente su invito di
Renato Cassamagnaghi, vice presidente del “Museo della Stampa e Stampa d’Arte”,
voluto dallo scomparso ingegnere Andrea Schiavi che lo realizzò nel 2008 e ora
a lui dedicato. Musei come questi possono nascere solo se chi li realizza ha
lavorato nel ramo e ne capisce a fondo il fascino e la complessità (del lavoro
e delle macchine); o da una passione accesa verso tutto ciò che è stampa e
scrittura, giustamente definite forme d’arte. Quanto a me, ho sempre
considerato i torchi e i macchinari delle tipografie che ho avuto modo di
visitare, delle vere e proprie sculture, e l’intera officina che le completa,
come un luogo magico ma fatto altresì di rigore, precisione geometrica, ordine,
inventiva, cura del gusto e del bello. Lo stesso mi accade davanti a certi
macchinari e manufatti industriali dalle forme più bizzarre, e che si
presentano visivamente come totem scultorei di intensa suggestione, oltre che
ingegneristicamente elaborati e complessi.
Torchio |
Tutto ciò che ha
a che fare con la stampa e la scrittura mi provoca sempre un piacere intenso.
Ho provato le stesse emozioni visitando la Casa degli stampatori ebrei di
Soncino che il Gabinetto Vieusseux di Firenze. Le stesse emozioni davanti ad un
codice miniato a mano medievale come davanti ad incunabolo a stampa. I
caratteri nelle sue varie forme e tipologie mi incantano come i variegati alfabeti; come i diversi processi di
stampa: che sia una calcografia o una xilografia, una serigrafia o una
litografia poco importa. C’è qualcosa di misterico nella combinazione dei
caratteri mobili, come c’è qualcosa di misterico nella fusione di essi.
Possiedo un libro prezioso e bellissimo: “La
scrittura memoria degli uomini” ricchissimo di segni e di immagini;
percorre la fascinosa avventura della scrittura dalle origini all’invenzione
dell’alfabeto; dal lavoro meticoloso ed elegante degli amanuensi fino
all’invenzione della stampa e dei primi torchi. Da ragazzino mi divertivo a
trasferire il rilievo con la spiga di grano delle 10 lire di alluminio,
posizionando la moneta sotto un foglio di carta e strofinandovi sopra la pasta
di un colore a cera o la punta di una matita grassa. Rimanevo piacevolmente
sorpreso del risultato. Ho avuto anche la fortuna di veder realizzati alcuni
miei librini di aforismi (tirati in pochi esemplari da Alberto Casiraghi di
Osnago) con un piccolo torchio a mano.
Il logo del Museo |
L’invito a
visitare il Museo di Lodi, è stato per me un vero piacere: nei 2000 metri
quadrati dei locali di via della Costa n. 4, e che un tempo ospitava l’ex
tipografia Lodigraf, c’è una quantità davvero sorprendente di macchine a stampa
prodotte in vari paesi europei tra l’Ottocento e il Novecento, dai costruttori
più rinomati. E poi torchi (calcografici e litografici) realizzati dal XVI
secolo in poi; stampatrici di ogni tipo; presse… Insomma una vera meraviglia
che non è possibile raccontare con la scrittura e che dovete direttamente
vedere. Come raccontarvi i torchi di Stanhope e Albion che facevano parte
dell’attività del fonditore ed incisore Claudio Wilmant, fra i più noti
nell’area milanese e lodigiana dell’Ottocento, o il torchio “Columbian” nato
dall’invenzione dell’americano George Clymer e che fu materialmente realizzato
a Londra nel 1817? Magnificamente arricchito da varie decorazioni, sormontato
da un’aquila ad ali spiegate, questo torchio è il solo esemplare che si può
vedere in Italia. Considerate che si tratta di macchinari pesantissimi e che
per essere portati qui hanno dovuto essere smontati pezzo per pezzo e
rimontati. Spesso si è dovuto ristrutturarli per conferirgli l’antico
splendore, e la ricerca di essi ha comportato viaggi, fatiche, studio.
Cassamagnaghi, che mi ha guidato con diligenza e rara competenza in questa
esplorazione, conosce per filo e per segno uso, storia e vicende di ogni
cimelio presente nel Museo, la cui ricchezza è costituita da migliaia di
materiali magnificamente custoditi e conservati.
Il torchio "Columbian" di George Clymer |
Appassionati,
studenti o semplici curiosi, troveranno in questo luogo un’atmosfera
irripetibile. Potranno vedere la fabbricazione della carta a partire dalla
macerazione della cellulosa fino alla filigrana: dalla semplice elementare
poltiglia alla forma densa della carta, alla sua asciugatura. A me ne è stato
regalato un esemplare realizzato sotto i miei occhi e su cui ho scritto a mano
un testo poetico: l’effetto vi assicuro è bellissimo, e non ha niente a che
vedere con una stampata dal computer. Il Museo possiede delle stampanti tuttora
funzionanti e il signor Franco ha dato una piccola dimostrazione di come si
possono creare file di scrittura a caldo con l’assemblaggio dei caratteri mobili
della linotype su metallo. Ma è tutto il processo, dalla fotocomposizione alla
stampa e alla cucitura a filo, all’incisione sulla copertina, al taglio, che
qui è possibile seguire.
Una delle numerose macchine di stampa del Museo |
La città di Lodi
e le sue istituzioni, pubbliche e private, dovrebbero essere orgogliose di
questa singolare collezione. Dovrebbero unire le forze e far fronte comune
perché essa divenga a tutti gli effetti patrimonio collettivo, e non resti
relegata in un ambito strettamente privato e volontaristico, com’è finora
avvenuto. Sarebbe una grave perdita culturale, un’omissione imperdonabile.