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sabato 30 maggio 2015

Si direbbe importante
di Giovanni Bianchi


La sorpresa
Sembrava che gli alieni dovessero sbarcare sulla terra da un momento all'altro… È un'espressione di Chilenito che troviamo a chiusura di pagina 149 del libro Ragazzi Cattivi, edito da Giunti, a cura di don Claudio Burgio con Domenico Zingaro. Un libro che sarei tentato di definire "importante", se questo aggettivo non fosse inflazionato in tutti i sensi dal linguaggio corrente: è importante un goal o un fallo da espulsione nel derby, come è importante un provvedimento di Palazzo Chigi, o sono importanti gli effetti collaterali di una grave malattia o di un'operazione chirurgica.
Il consumismo onnivoro non risparmia proprio nulla: neppure le parole. Le svuota di significato, le manda in giro come laminati d'importazione e alla fin fine ce le riconsegna sputtanate… E invece questo libro è importante perché si ricollega a una grande tradizione della letteratura italiana che ha visto nel dopoguerra, dopo i fasti della scapigliatura, le Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi, le storie di vita di Sesto San Giovanni, città delle fabbriche e Stalingrado d'Italia, di Franco Crespi e Franco Alasia, fino all'alta letteratura del Pasolini di Ragazzi di vita, Una vita violenta, Il sogno di una cosa
Non mancano i luoghi dove la scrittura dei ragazzi cattivi riesce a impressionare per la sua forza rappresentativa ed evocativa. Come quando Massimiliano descrive gli occhi della mamma al momento del suo arresto: La mattina che i carabinieri mi hanno portato via, non li dimenticherò mai. Sembravano spaccati in mezzo, lontani eppure vivi, come appena rotti, uno specchio lucido in cui non volevo riflettermi. Sono Massimiliano, vengo da Pavia, e a quattordici anni ho trovato lavoro: facevo lo spacciatore(p. 157).

Raccontare per capire
Raccontare per capire. Soprattutto raccontare bene. Questo lo si evince dalla riflessione conclusiva di don Claudio Burgio. 
Accogliere è più che raccontare. Vi è una forma di ospitalità che è insieme il meglio di sé e dell'altro. Ospitarsi è diventata l'occasione della stagione che attraversiamo. L'esatto contrario del concentrarsi connessi, a casa, per strada, in metropolitana, ovunque.
Non sappiamo più cosa sia vivere perché la rappresentazione si è sostituita al posto della nuda vita e l’ha sloggiata. È la società liquida, bellezza! E le sue conseguenze sono lì davanti a noi in queste pagine intense. Anzi, meglio dell'espressione di Bauman, funziona un passo del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria.
A riprendere il passo come titolo di un proprio saggio -probabilmente il più tempestivo e importante sulla crisi che stiamo attraversando- è un newyorkese di nome Marshall Berman, che dedica il primo capitolo del proprio testo nientemeno che al Faust di Goethe.
C'è di mezzo, come in tutte le cose che ci andiamo dicendo in questi ultimi anni, il congedo dal Novecento. Perché il Novecento sognava nei suoi grandi e terribili leaders, sognava nei grandi capitani d'industria, sognava nelle ostinate ideologie, sognava nei grandi soggetti collettivi.
Il consumismo ha tolto di mezzo qualsiasi eroismo e ha messo i sogni in scatola sugli scaffali dei centri commerciali. Il sogno, anzi il delirio, è alla portata di tutti, basta avere i soldi necessari per comprarlo. C'è una cosa che colpisce nelle storie di questi ragazzi cattivi di don Claudio: sognano tutti e trasgrediscono in cento maniere diverse. Eppure c'è un canone al quale nessuno si sottrae: l'imperativo a consumare.
Il furto è per consumare, almeno alla pari degli altri, e meglio ancora se più degli altri, in una frenesia che non conosce limiti. Allo stesso modo funziona lo spaccio, con la professionalità di questi ragazzi che si astengono dallo sballo per essere più lucidi nella gestione di un commercio che presenta rischi da calcolare attentamente, e dove la disattenzione porta dritto in questura. I soldi dovrebbero consentire la pluralità delle scelte e quindi la loro libertà. Ma non è così. Arriva l'arresto, la galera, il Beccaria, la comunità. E alla fine il coraggio di rientrare in se stessi. La regola del mondo consumistico prima li ha ingannati e poi li ha rinchiusi. Ancora infinitamente giovani, provano a cambiare strada e la loro fortuna è trovare qualcuno che gliela indichi senza paternale e senza tornaconto. Come a dire che dalla schiavitù del consumo e del denaro che lo consente e lo promette, si esce con la gratuità dei rapporti veri.
Non è una Montessori al maschile don Claudio Burgio, ma un compagno di strada che ha scelto di mettersi sulla loro strada. Dopo averti ingannato con tanti fortunati testimonials, proprio questo mondo del consumo deve ospitare suo malgrado testimoni imprevedibili.

La funzione della scrittura
Non so se la scrittura guarisca, se fare in qualche modo outing sulla pagina migliori la situazione. Quel che è certo è che scrivere e confidarsi è un modo per rientrare in se stessi, quantomeno per sentirsi meno soli. Una virtù che gareggia con quella del prete e dello psicologo. Dal momento che vocazione e professione viaggiano da tempo appaiate.
Il ragazzo che racconta la propria storia prende le distanze dalla propria cattiveria nel momento in cui la descrive. E chi legge è quantomeno sollecitato a scoprire la propria di cattiveria e a provare a prenderne a sua volta le distanze. Forse è per questa ragione che il libro non muore e che il vero editore è quello che stampa libri che corrono il rischio di non essere un best seller. Perché non solo il consumo ha stravolto il rapporto con le cose, ma anche con le parole e la letteratura. Non ottieni audience e pubblicità e ascolto perché sei autentico e provi a fare un discorso duro ma bello, ma il tuo libro viene messo perfino sugli scaffali del supermercato, insieme al grana e al culatello, perché la tua fama comunque ottenuta è garanzia di successo e di vendite. Probabilmente un altro genere di spaccio, pulito e senza rischi...
Quel che voglio dire è che dietro questo testo ci deve essere un'operazione non soltanto commerciale e non soltanto editoriale: provare strade nuove è un coraggio che funziona nella prospettiva della vita, della letteratura e di una cittadinanza democratica.
Direbbe papa Francesco: non esiste la "ricaduta favorevole"; è invece necessario "uscire" e provare per tentativi, perché "l'eccesso diagnostico" è l'anticamera di una morte ben spiegata ma sicura.

I passi che avvincono
Ci sono scene che il lettore faticherà a dimenticare. Non poche quelle che fugacemente presentano una tranche de vie di famiglia a pezzi.
Antonino, di Palermo, che doveva fermarsi una settimana nella comunità e ci resta oramai da cinque anni, la dice così: Ogni sera a me e ai  miei fratelli toccava lo spettacolo angosciante della lite tra mamma e papà: erano sempre urla, spinte, percosse, insulti devastanti (p. 19).
David: Ho messo le mie cose in uno zaino e sono uscito di casa, con la sicurezza che non sarei tornato, lasciando la finestra aperta come unica incompleta spiegazione per mio padre (p. 33).
La realtà delle bande latinoamericane. Con le altre bande le risse erano sempre più frequenti, in Duomo, in discoteca, una volta ce n'è stata una a Lotto, alla stazione della metro. In queste risse usavamo i coltelli e se ti prendevano andava male… Io all'inizio giravo con uno spiedo. Poi è arrivato il machete (p. 43).
Constatazioni e consigli: A Quarto Oggiaro la risposta a ogni problema è sempre stata una: rubare (p. 59). Le rapine non si fanno mai vicino a casa (p. 61).
La durezza della Colombia nel ricordo di Jaysi: Quante volte avevo pensato a quel momento, ma la sensazione che ti dà avere un'arma tra le mani va oltre ogni immaginazione. Soprattutto se sei un bambino di undici anni(p. 77). E ancora: Dopo la lama sono passato al tirapugni, e tutti hanno iniziato a chiamarmi Mano di ferro (p. 89).
La precoce saggezza di Anas, il marocchino: Ecco come sono iniziati i miei guai. E i guai, di solito, hanno sempre a che fare con i soldi (p. 103).
Le malizie e i trucchi del mestiere: Poi abbiamo preso i portafogli di quei tizi – un piccolo compenso per il nostro disturbo – e ce ne siamo andati senza dire neppure una parola. Prima, però, abbiamo bucato le gomme della loro macchina (p. 113).
Non mancano i principi e i giudizi perentori. Scrive Chilenito: E io non sopporto chi vende droga... Uno spacciatore è una specie di ladro all'ennesima potenza, uno che ruba l'unica cosa che non può essere ricomprata: la vita (p. 138).
Gli attacchi di panico, conseguenza dell'assunzione di sostanze, angustiano invece Massimiliano in una discoteca di Pavia: Mi ritrovavo tutto sudato, con il cuore che sembrava esplodere e le gambe che formicolavano. Non riuscivo a capire come da fuori nessuno si accorgesse di niente, io ero lì, circondato solo dal frastuono dei battiti che mi esplodevano nel petto, e la vita intorno continuava (p. 161).
E la pazzia del fratello sfigurato dai farmaci in una clinica: Quel giorno d'estate non me lo dimenticherò mai, mi sono trovato davanti questo estraneo di almeno novanta chili che sembrava vagamente mio fratello ma come gonfiato, sembrava l'avessero svuotato dell'anima e poi riempito d'acqua (p. 171).
E allora perfino il tatuaggio diventa una modalità del ricordo e una scrittura per non dimenticare: Ho dovuto incidermi sul corpo la mia famiglia, perché già l'ho dimenticata una volta e non voglio scordarla più (p. 174).

Dire il dolore
Don Claudio è un prete ambrosiano a tutti gli effetti; l'aspetto amichevole e a suo modo manageriale, e anche antropologicamente parlando. Frequenta abitualmente il Duomo e si occupa del coro. Mi pongo a questo punto una domanda un poco insidiosa e forse plebea: dove è finito il civismo di questa Milano sempre ansiosa di essere la capitale di qualcosa, se tocca alla grande tradizione di Ambrogio e del Borromeo rimboccarsi le maniche sui guasti delle nuove fragilità? C'è qualcosa che va oltre il privato nelle vicende e nel significato di queste minute storie di vita, che per interni ed esterni evocano la scrittura di Testori (o magari Scerbanenco), le canzoni di Jannacci e la sublime macchina da presa di Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli?
Inquieta soltanto me questo quotidiano e capillare delirio del consumo, che non si astiene dal diventare malavitoso, che dalla sfera privata tende a sconfinare e a dilatarsi in quella pubblica, che strapazza la nostra cittadinanza quotidiana? Tutto ciò ha un suo statuto e delle regole non scritte ma inflessibili anche per chi lavora ai margini.
Chilenito ci offre addirittura la sintesi di un codice di comportamento, quasi la regola di una cittadinanza altra: perché anche l'emarginazione e la disperazione tendono a organizzarsi, ai margini, alle periferie del civile, alle "periferie esistenziali", ma comunque a darsi delle regole: Eravamo agili, veloci e spregiudicati: i ragazzini sono sempre i ladri migliori. Ho imparato ben presto che rubare è un lavoro come un altro. Ci vuole tecnica, impegno e disciplina. Se si vuole sopravvivere con furti e borseggi bisogna alzarsi presto la mattina e passare l'intera giornata a zonzo per le strade della città, con lo sguardo vigile, sempre all'erta. E bisogna farlo tutti i giorni: non si può sgarrare (p. 128).
Non sono ammesse pause di riflessione, né ai giovani protagonisti né a noi, né a nessuno. Dicono le studiose americane che i postmoderni surfano (come sulle onde dell'oceano, con la tavoletta) problemi e difficoltà della stagione del capitalismo finanziario e consumistico. Anche i ragazzi cattivi ci hanno provato.
Ma noi abbiamo ancora voglia di bagni e magari – i più robusti – di attraversare a nuoto lo Stretto, visto che è tramontato il sogno del megaponte concepito dal primo e oramai vecchio grande piazzista della scena italiana.  
Insciallah, ragazzi. Voi tentate di superare fragilità che non sono soltanto vostre. Non vuole esserci nessun buonismo e nessuna consolazione in questa osservazione. Nessun ottimismo. Perché, contrariamente alla moda, l'ottimismo in questi casi non serve. Serve la speranza: quella che mi ha insegnato il mio maestro David-Maria Turoldo. Il resto sono patacche.
C'è infatti una frase, forse addirittura una sentenza di sapore martiniano, a p. 182: E’ la fragilità che ricrea l'uomo e lo restituisce alla Verità. Tutto il contrario delle esibizioni muscolari che sono tipiche dei ragazzi cattivi come del divismo che si considera vincente.
E neppure è un caso che accanto a don Claudio ci sia Domenico Zingaro, creativo regista, che si è messo in testa di dimostrare che perfino la tv è in grado di aiutare ed educare. Perfino una tv oramai periferica e che rischia di chiudere i battenti.
A rendere le fragilità e il dolore dicibili non è dunque la riserva di caccia di un prete che sembra tirato fuori di botto da una riflessione di Weber del 1919: Non si riuscirebbe a fare quel poco che già oggi è possibile, se non si ritentasse ogni volta l'impossibile
Educare è questo. Un mestiere non diverso da quello dell'amicizia.