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domenica 28 giugno 2015

L’Europa delle autonomie locali
di Giovanni Bianchi


Miliardi
In Italia, secondo una stima di Piero Fassino e dell’Anci, sono 17 i miliardi  pagati dai Comuni allo Stato dal 2010 ad oggi. Per un Paese che si interrogava su come rendere più federalista la propria Costituzione non può dirsi che non sia una imprevista curva a U. Disallineamento dunque tra le riforme e il ruolo (di pagatori) dei Comuni. Disallineamento dei territori rispetto al governo. Per questo un tema permanente, anche se sottaciuto, è quello che riguarda nelle riforme istituzionali il ruolo degli enti locali. E non dubito che la transizione infinita risulti da questo punto di vista semplicemente devastante. Con una assoluta incertezza circa le riforme amministrative e i loro tempi: a sincopi e singhiozzi. Così diventa sempre più difficile rispondere alla domanda sociale dei cittadini. Perché a livello amministrativo gli italiani si presentano come cittadini, mentre a livello nazionale si presentano come consumatori renitenti al voto. Per questa ragione il "tono" dei sindaci italiani si è fatto tutto rivendicativo, per non dire arrabbiato. Tornano allora in campo idee sagge e strampalate circa la riforma degli enti locali e dei consigli comunali sotto i 1000 abitanti. Un principio va comunque non dimenticato: le riforme sono partecipate e condivise, o non sono. La cosa incredibile della politica italiana degli ultimi decenni è che il movimento "vincente" dei sindaci abbia imboccato la prospettiva della centralizzazione. Come a dire che le spinte "epocali" la vincono sulle residue resistenze della democrazia. Che cioè è una spinta da sopra e da fuori del sistema a indurre un “comando” al quale anche le figure che dovrebbero risultare più attente alla partecipazione non sanno resistere.

Le elezioni
Eppure l'osservazione dei dati dovrebbe confortare una presa in carico del discorso delle autonomie. Nelle ultime elezioni amministrative infatti c'è stata più affluenza di elettori dove si votava anche per i Comuni oltre che per le Regioni. Mentre un cittadino su sei di quanti avevano votato alle precedenti regionali non si è presentato al seggio. Insomma, nel Bel Paese il glocale non l'ha ancora vinta sul locale. E udite! In Francia non si danno fusioni di comuni, ma associazionismo intercomunale che va avanti dagli anni Ottanta del secolo scorso. Al di là delle geometrie e delle formule ritorna anche su questi piani e in questa chiave il dilemma epocale: se il ceto politico ed amministrativo intenda governare il mondo, oppure la sua rappresentazione. Detto alle spicce: i problemi dei cittadini-consumatori, o le loro emozioni. Va anche detto che emerge soprattutto in Europa quanto sia stretto il legame tra democrazia e welfare, e quindi tra democrazia e riforma del welfare. Assistiamo invece da tempo a una fase di ritorno all'accentramento, come ai tempi nei quali si aveva l'abitudine napoleonica di misurare la distanza di una circoscrizione locale su una giornata a cavallo. Le comparazioni sono sempre di qualche utilità e quindi guardare alle cifre d'oltralpe può suggerire qualche prospettiva. In Francia ci sono 38.500 comuni, dei quali 34.000 sotto i 3500 abitanti. Questo dunque sul territorio il modello napoleonico. I fatti sono sempre più eloquenti delle ideologie e delle reminiscenze, che non hanno l'abitudine di confrontarsi con i fatti. Ma ecco il "fatto nuovo": la crisi economica. Bisogna talvolta partire, per risultare chiari e realistici, da qualche banalità. E la banalità che propongo è che non si possa considerare -anche per i non marxisti- la crisi un "fatto naturale". Osservazione che significa che per intenderne gli effetti anche la crisi va analizzata criticamente.

L’analisi critica
Non ci vuole soltanto l'analisi critica dei modelli amministrativi. Ci vuole anche l'analisi critica della crisi economico-sociale, delle sue cause dei suoi effetti. Questa critica, quando viene esercitata, è la causa della differenza di ruolo e udienza del Papa rispetto ai politici.
Il Papa assume l'aumento delle disuguaglianze come punto di vista. I politici italiani invece sembrano prendere le mosse dalla velocizzazione necessaria dei processi di governabilità, con l’intenzione di rispondere in tempo reale, si fa per dire, alla velocità di caduta delle tecnologie e della civiltà in generale. Quel che si dice preferire la governabilità alla democrazia e, se è il caso, "risparmiare democrazia" e i suoi tempi in nome della governabilità.
È per questo che un Papa, totalmente evangelico e impolitico, sembra essere più politicamente lucido dei politici e proporre e fare più politica di loro. Al confronto i politici sono piazzisti (ribadisco che il termine non è mio ma di Hannah Harendt) che si impegnano in uscite pubblicitarie. E invece basterebbe tener conto della circostanza che la crisi economico-sociale non è né il Vesuvio né il lago di Garda. Si è fatto drammatico il rapporto tra welfare (non solo municipale) ed enti locali. Questo processo influisce sul modello amministrativo più di quanto il modello amministrativo influisca sul welfare. Non basta dire che le crisi economiche (e sociali) lasciano una traccia. Devi decidere se guardare alla crisi del welfare dal punto di vista della crisi del modello amministrativo, o viceversa. Si sente dire: "Siamo messi di fronte a uno Stato più interventista"...
Perché, e a nome di chi? Non è pensabile lo Stato e in particolare lo Stato europeo a prescindere dal welfare. In nome di che cosa moltitudini di migranti sfidano il Mediterraneo e la morte se non per approdare in un continente dove le libertà della persona sono garantite dal welfare? La crisi infatti, si dice, "seleziona le domande".
Qui si apre il confronto tra le tesi e la visione di Klaus Offe e le tesi e la visione di Niklas Luhmann. Bisogna ancora una volta scegliere con che libro stare e da che parte stare. Offe versus Luhmann. Secondo il professor Pastori della Cattolica di Milano l'ente Regione doveva avere visione di governo di tutto l'ordinamento amministrativo. E Franco Bassanini si spinse a immaginare un federalismo amministrativo a Costituzione invariata.
Ma torniamo al confronto tra Offe e Luhmann. Perché stare con Offe? Perché così la pensa anche Amartya Sen. E perché altrimenti c'è il rischio paventato dal mio ineffabile compagno di banco al liceo Zucchi di Monza che, con buon senso strettamente brianzolo e immaginazione davvero metafisica, aveva l'abitudine di ripetere che il rischio è quello di "prendere la vacca dalla parte delle balle".

Un quesito aperto
Il quesito infatti resta aperto: è possibile pensare l'amministrazione  e le sue forme, pensare politiche e cittadinanza, e democrazia europea, a prescindere dal welfare? Vien proprio da dire, conclusivamente, che se l'Europa è esausta è perché è esausto il suo welfare.
A rincalzo e a rinforzo di questa ipotesi o tesi, non mi fossilizzo sul termine, arruolo al mio discorso l'ultimo libro di Giuseppe Berta. Un libro su La via del Nord. Libro strano, a detta di Michele Salvati, perché ripercorrendo le orme e i dati di un libro di sette anni fa, arriva questa volta a conclusioni affatto diverse e certamente non ottimistiche.
Cosa ha fatto cambiare la lettura e l’umore di Berta? Quel che mutato è evidentemente e anzitutto il punto di vista dello scrivente. Il Nord cioè appare dal punto di vista produttivo e sociale in una condizione di stallo. Sette anni fa nel libro si parlava di metamorfosi; oggi si parla di declino. Con il rinforzo di una presa di posizione sull'ultimo numero della rivista "il Mulino" dove Beppe Berta chiarisce le ragioni per le quali la politica non lo interessa più. Ed ha anche la buona grazia di osservare che preferisce la complessità ai modelli, e che non si astiene dal portare a supporto delle proprie posizioni anche materiali letterari.

Gli stimoli inadeguati della politica
È dalla politica che sarebbero dovuti venire gli stimoli. Quali ostacoli  che hanno indotto allo stallo presente? Berta sostiene che oltre alla psicologia politica è entrata in azione in lui una diversa valutazione delle cose e dei dati. La Milano che conosciamo ad esempio gli pare determinata dall'enorme e potente base del circuito che ha tenuto insieme edilizia, banche e assicurazioni. Come a dire che il dominus e il vero artefice di questo sistema milanese ha nome Salvatore Ligresti. Approfondendo ed estendendo il discorso si deve dunque dire che nel Bel Paese gli interessi esistenti paralizzano gli interessi in formazione. Si tratta di un celebre giudizio di Luigi Einaudi. Sostiene Berta che c'è da chiedersi come mai due valenti uomini politici torinesi come Fassino e Chiamparino non abbiano cambiato la lobby massonica nella città della Mole. Così pure per Berta le medie imprese risultano non avere nerbo perché dovrebbero saldarsi con le grandi imprese, mentre l'operazione si è fatta impossibile dal momento che le grandi imprese si sono trasferite all'estero. È come se gli italiani avessero sparato tutte le cartucce negli anni Sessanta, fino a restarne privi. Manca da noi il lungo respiro del capitalismo, quello che per esempio ha condotto al top i 49 milioni di abitanti della Corea del Sud, assoggettati a un regime certamente non democratico.
Secondo Giuseppe Berta la partita dell'Italia si è giocata e persa tra il 1975 e il 1985, tra politica e amministrazione. Come al solito, problema di classe dirigente. E problema del Mezzogiorno. Carlo Farini, appena sbarcato, in Sicilia scrive che il nostro Mezzogiorno è peggio dell'Africa... E adesso pover'uomo?  Adesso non è che non ci sia più il Nord: non c'è più l'Italia. Gli 80 euro in busta con i quali Renzi stravince le elezioni europee non sono un provvedimento socio-economico: sono Via col vento a reti unificate.
E invece le politiche industriali si declinano localmente, o non sono. E in Italia sono troppo pochi i sindaci che intendono fare il sindaco veramente e a lungo; è invalsa oramai l'abitudine di considerare ogni carica come un trampolino per quella successiva ritenuta più alta.
Si tratta di mettere di nuovo in contatto l'imprenditorialità con le sue fonti di finanziamento e con i progetti politici ed amministrativi. Un contatto che richiede che i progetti ci siano.
Per questo l'Europa senza welfare e senza partecipazione amministrativa (oltre che senza progetto politico) è un'Europa esausta.