L'Europa
esausta
di Giovanni Bianchi
La difficoltà a sperare
Ibam forte via sacra… ossia mi stavo recando a Roma sul
Frecciarossa quando un amico, grande economista, mi ha bloccato per, come si
dice, attaccare bottone. Tema: ho scritto (l'ha scritto l'amico economista) un
libro su Italia, Francia, Germania e Spagna.
"È
difficile che riusciamo (noi italiani) a cavarcela".
Lo
spettro della Grecia comunque ci interessa. Là chiudono le farmacie e la gente
è alla fame. Che fare? L'amico economista non ha avuto il tempo di chiarirmelo
per la vicinanza di Stazione Termini. Quindi, non essendo io in grado di
ipotizzare una soluzione con le mie forze, continuo a sperare (mi rifiuto di
gufare ma anche di fare l'ottimista) e richiamo la simpatica giaculatoria di Giulio
Andreotti: "Che Dio ce la mandi buona".
C'è
tuttavia un pezzo di Grecia, in tutti i sensi, in questo Paese. E quindi a
maggior ragione nella Magna Grecia. "E
loro non lo sanno".
Fonzie
che ci azzecca con Telemaco? E per questo lo slogan più bello, ma inventato
solo per il marketing, è quello che è durato meno. Trovo anche gli avversari di
Renzi oramai totalmente clericali, ossia immersi programmaticamente nel
clericalismo del potere. E Matteo Renzi e le sue valchirie totalmente pagani:
quel cantare tutta la vita in coro il Tannhȁuser come fosse un canto di vittoria tribale. Tsipras è un
nazionalista. E la cosa sulla quale riflettere è che il nazionalismo nella
globalizzazione può trovarsi "a sinistra", dalla parte della
"povera gente": la liquidità che liquida i soggetti produce dunque
sorprese non tutte negative.
In
una grande fabbrica sestese, la Breda, l'operaio Pampuri, comunista e tutto
interno al Pci nella Lotta di Liberazione, scrive a un certo punto che gli operai hanno una patria. In un senso
completamente rovesciato rispetto alle affermazioni similari di Benito
Mussolini diventato interventista durante la prima grande guerra. Non avendo
compreso questo "ritorno", la sinistra dei Balcani Occidentali che
aveva combattuto una resistenza ritenuta paradigmatica, la migliore in Europa,
ha lasciato passare l'orrore della oramai, per tutti, ex Jugoslavia.
I
passi fuori dalla via sono purtroppo molteplici e talvolta inattesi.
Panebianco
ha proposto sul "Corriere" dei giorni scorsi un assetto europeo
analogo a quello anseatico del tardo medioevo. Ma l’Hansa Alemanna
rappresenterebbe, anche solo come modello, molti passi indietro rispetto agli
assetti acquisiti nel tempo -perfino per evoluzione- da questa Europa che c’è, e
soprattutto dopo Maastricht.
La memoria e il museo delle
cere
Non
a caso Michele Salvati è ritornato a valutare il contributo di Max Weber in un
saggio recente dal titolo Sviluppo e
forme del capitalismo moderno. Capitalismo, liberalismo e democrazia. Weber
infatti è un liberale cresciuto nella Germania guglielmina e chiamato a
stendere una costituzione di impronta liberale. E quando le cose non tornano e
l'orientamento si fa problematico lo sguardo torna ai grandi maestri e ai
documenti che hanno fatto epoca.
Con
una prima costante: sempre nei cambiamenti d'epoca la carta costituzionale
viene evocata come bussola di orientamento. E non è neppure casuale ricordare
la presenza a Weimar dei cattolici del Deutsche Zentrumspartei, noto anche semplicemente come Zentrum.
Tutto il quadro politico europeo
appare allora in fermento preparando le condizioni per le quali decenni più
tardi i conservatori produrranno una rivoluzione liberale, così come Gaetano
Mosca vota nel Parlamento italiano contro le "leggi fascistissime"
del 1926. Insomma, detto più che telegraficamente, il problema della forma
partito attraversa tutte le nazioni europee e pone da subito il significato
della professione politica. Con schermaglie e approfondimenti che ci riguardano
molto da vicino se già Michels amava ripetere che le minoranze accusano normalmente
le maggioranze di prevaricazione. Non stupisce dunque che nell'era del
turbocapitalismo questa democrazia necessariamente deluda i popoli del mondo
nel loro faticoso cammino verso forme di governo che interessano oramai 7
miliardi di persone. Sembrano anche nuovamente prevalere le teorie elitiste:
una tendenza che non riesce ad esorcizzare l'arcinoto detto di Churchill che
vuole la democrazia come il peggiore dei sistemi possibili, salvo tutti gli
altri.
La qualità delle democrazie
La qualità delle democrazie
discende infatti dall'indole e dell'antropologia dei popoli, mentre un certo
tasso di magistero esercitato dalla classe dirigente non è toglibile dalla
democrazia e dal suo uso. L'obiettivo non facilmente raggiungibile resta sempre
quello di un buon governo e di una partecipazione critica, tenendo conto della
ineliminabile aspirazione di un uomo politico, e maggiormente ancora di un
capo, alla presa del potere. Si possono anche tentare delle ironie, come quelle
che erano abituali in Vittorio Rieser: Credete
in Marx e sarete Salvati...
Ma torniamo a Max Weber,
grandissimo personaggio e studioso, morto a soli 54 anni per un'epidemia di
"spagnola". Anzitutto per Max Weber il capitalismo è una forma della
modernità, che contiene in sé il grande vantaggio che l'inefficienza viene
respinta dalla concorrenza.
Dall'altro lato dell'impianto
societario weberiano lo Stato si basa invece sulla burocrazia. In tal modo la
burocrazia viene a trovarsi alla base sia del capitalismo come dello Stato. In
questa visione il burocrate non deve avere anima. L'anima -il carisma- lo deve
possedere il politico.
Spetta in seguito a Schumpeter il
compito di secolarizzare Max Weber.
In Schumpeter la democrazia è il
mercato dove il leader presenta se stesso come merce al pubblico democratico:
una tendenza giunta a compimento nella nostra stagione politica, nella quale la
pubblicità ha sostituito la propaganda, mentre il capitalismo internazionale fa
giungere ovunque da sopra e da fuori i propri ordini. Quel che viene sottoposto
in tale modo a tensione è il contrasto perenne e perennemente evidente tra
ricchezza e democrazia. Non esiste un capitalismo che non produca ricchezza: è
questo il suo compito; ma la ricchezza sottopone inevitabilmente a tensione i rapporti
democratici. Tre palle restano continuamente in aria in questo capitalismo: il
mercato, lo Stato democratico, il benessere popolare. E il gioco complessivo
non può prescinderne. Con aggiustamenti e sbandamenti che ricollocano
continuamente i rapporti tra i tre elementi costitutivi dell'attuale assetto. Sono
andati in questa direzione -e cioè piuttosto nel senso delle tensioni- gli
interventi dei decenni scorsi di Friedman e Signora intorno alla pubblicazione,
che è anche un mantra, di Liberi di
scegliere.
Nella visione di Friedman il
benessere popolare discende dal trickle
down: il procedimento sconfessato da papa Francesco nella Evangelii gaudium.
Secondo la diagnosi di Salvati,
il secondo trentennio del secolo, guardato dall'Europa, vede le conquiste
popolari limate e ridotte, mentre nel resto del mondo si assiste ad una
crescita complessiva. La Cina, patria dei bassi salari, sforna un milione di
nuovi ingegneri ogni anno. Mentre la scena mondiale vede il "dittatore
benevolo" degli Usa progressivamente messo in difficoltà. Un tema
affrontato da Clinton prima che da George W. Bush. Si parla con una qualche
faciloneria di situazione complessivamente multipolare, mentre il mostro
biblico che meglio può sintetizzare la condizione presente è Behemoth, che evoca l'anarchia, in certo
senso richiamando Leviathan, che
esprime la dittatura. E la possibilità che riemergano dalle caverne della
storia gli antichi mostri biblici deve essere considerata tutt'altro che
un'ipotesi di scuola. La speranza non può quindi essere confusa con
l'ottimismo, ma comporta perfino l'obbligo di documentarsi. Tenendo conto della
circostanza che il capitalismo non ha cessato di evolvere e mutare forma dopo
la morte di Weber, quasi un secolo fa. Ha ragione dunque Michele Salvati quando
osserva, con sintesi opportuna, che è tempo di concentrarsi sul percorso
capitalistico successivo ai disastri economici, alle turbolenze sociali, alle
rivoluzioni politiche e alle tragedie delle due guerre mondiali dei vent'anni
intermedi, successivo anche all'egemonia americana e alle due diverse fasi
nelle quali essa si è esercitata: la fase dei trent'anni postbellici e dei trente glorieuses, come la chiamano i
francesi.
È tempo cioè di fare i conti fino
in fondo con una stagione storica a impronta più nettamente liberista, nella
quale tuttora viviamo. Insomma, è importante aver chiaro che il confronto è
assai più con il "capitalismo contemporaneo" che con il capitalismo
moderno. (Ci tornerò in seguito.)
Il quadro europeo
Torniamo
allora, non fiaccati dalla disperazione, a riflettere sul quadro europeo.
Il
Pse è nato il 9 novembre 1992, e tra i firmatari dell'atto di fondazione
troviamo Achille Occhetto. Ci sarà pure un rapporto tra Tony Blair che
costruisce il mitico New Labour e
Schroeder che costruisce la Neue Mitte
e le scelte dell'uno per un incarico milionario alla Banca Morgan, e dell'altro
per un incarico, sempre milionario, a Gazprom?
Pruderie
moralistica? O forse il problema etico odierno è come essere avidi senza
sentirsi in colpa, perché il mercato lo vuole? Fin dagli inizi il mercato è un
messaggio ambiguo che la destra declina come il riconoscimento per chi si
arricchisce e fa carriera. Siamo forse rimasti irrimediabilmente indietro? Fa
pure parte del pensiero unico un'idea di passato come blocco indistinto dal
quale prendere le distanze e rinascere, che equivale a un rifiuto di pensare
alla storia. Del resto il giovanilismo nasce e rinasce ovunque così, e dovunque
ha avuto fin qui l'abitudine di indirizzarsi a sbocchi autoritari. A
caratterizzarlo è l'assenza di una reale dialettica dei processi storici.
Ritorna fuori l'antico Gramsci: l'essere "contemporaneo" è un titolo
buono solo per le barzellette... A meno che la storicità non significhi
soltanto caducità.
Riecco
Niklas Luhmann: nessun soggetto è in grado di interpretare questo mondo
complesso, e tantomeno di cambiarlo. (Torneremo anche su questo.)
A
questo punto è dato capire perché si assiste alla generalizzazione globale di
una tendenza al dominio anziché verso la libertà, a dispetto della crescita in
generale e dello sviluppo delle tecnologie in particolare. Non v'è dubbio che
l'antistatalismo esasperato sia stato rimesso a nuovo grazie all'avanzata
strepitosa del monetarismo. Un'avanzata anche strepitosamente ideologica. In
tal modo la Costituzione ci appare grazie a Dio non solo come un documento, ma
un fatto formale fondamentale e fondante, da analizzare fino in fondo.
Il ritorno di Amartya
Non
è un eterno ritorno nietzschiano, ma insistente sì: come per continuare un
discorso appena lasciato interrotto, con la semplicità accattivante dell'ultimo
maestro. Sto parlando dell'opuscolo di Amartya Sen, La libertà individuale come impegno sociale, edizione gratuita di
Laterza, che l'ultimo libraio militante di Milano, il Guido Duiella di via Tadino,
mi ha offerto insieme agli ultimi testi che avevo ordinato sul tema del 25
Aprile.
Sen
prende questa volta le mosse da Isaiah Berlin e dalla sua distinzione fra
concezioni "negative" e "positive" della libertà. Dove per
libertà in senso positivo (la libertà di)
si intende ciò che, "tenuto conto di tutto, una persona può o meno
conseguire"(p.11).
Viceversa,
la concezione negativa della libertà (la
libertà da) "si concentrerà precisamente sull'assenza di una serie di
limitazioni che una persona può imporre a un'altra" (p.12).
Dopo
avere osservato che si è andata affermando la tendenza a prestare attenzione
prevalente alla concezione "negativa" della libertà, Sen sostiene -coerentemente
con tutta una lunga serie di saggi da lui pubblicati- che è la libertà positiva
che ci interessa, dal momento che riteniamo di grande importanza l'essere "liberi
di scegliere" (p. 13). È qui, al netto di tutte le distinzioni, che
Amartya Sen riprende quello che mi pare il fulcro di tutte le sue recenti prese
di posizione.
Quel
che positivamente sorprende il lettore sono gli esempi che anche questa volta
Amartya Sen ha scelto per esplicitare il proprio ragionamento, tanto più
intriganti perché questi sono anche i giorni e i mesi dell'Expo milanese 2015,
il cui mantra suona: "Nutrire il
Pianeta".
Il
tema proposto alla riflessione e gli esempi addotti da Sen riguardano il
rapporto tra carestie e libertà.
Dopo
avere osservato che la carestia del Bengala del 1943 ebbe luogo senza che la
disponibilità di cibo fosse eccezionalmente bassa, Amartya Sen non si trattiene
dall'osservare che alcune carestie sono avvenute quando la disponibilità di
cibo era al suo livello massimo. E adduce il caso della carestia del Bangladesh
del 1974 (p. 18).
Sostiene
inoltre Sen che nello spiegare le carestie non si deve guardare tanto alla
disponibilità totale di cibo, ma al possesso di "titoli" da parte dei
gruppi vulnerabili, "ovvero ai diritti di proprietà sul cibo che tali
gruppi sono in grado di farsi riconoscere" (p.18).
Ne
consegue che non deve sorprendere la circostanza che una politica di
integrazione dei redditi (ad esempio offrendo impiego pubblico o pagando un
salario alle persone indigenti in cerca di lavoro) "possa costituire uno
dei modi più efficaci di prevenire le carestie" (p.19).
Mai
l'economia è risultata così palesemente economia politica, e va pure osservato
che l'analisi e la prospettiva di Sen indicano la centralità basilare del
rapporto solidarietà-democrazia, fino ad indicare la stessa democrazia come un
"bene comune" della stagione politica in questa fase storica. L'affermazione
risulta a questo punto perentoria: "Questo è in effetti il modo in cui le
carestie sono state sistematicamente prevenute in India dopo
l'indipendenza"(p. 19). Perché l'eliminazione delle carestie in India è
stata in massima parte il risultato di sistematici interventi pubblici. E a
fondamento della propria posizione Sen aggiunge che "ciò che ha
determinato il cambiamento della situazione è stata la natura pluralistica e
democratica dell'India dopo l'indipendenza"(p. 20).
Il
fatto che le carestie abbiano potuto dilagare in molti paesi dell'Africa
sub-sahariana discende dalla circostanza
che i governi di quei paesi non si devono preoccupare troppo della
minaccia dei partiti all’opposizione, proprio a seguito di una carenza di
controllo e di solidità delle rispettive democrazie. I territori, i campi, le
foreste sono sempre più nelle mani di un sistema economico le cui decisioni
mutano senso ed efficacia a seconda del tasso di democrazia che li governa. Secondo
Sen, "nella terribile storia delle carestie mondiali è difficile trovare
un caso in cui si sia verificata una carestia in un paese con una stampa libera
e un'opposizione attiva entro un quadro istituzionale democratico"(p. 22).
È
tempo di criticare allora una diffusa tradizione utilitarista, la quale
sottolinea non tanto "la libertà di raggiungere risultati, quanto
piuttosto i risultati conseguiti" (p.23).
Va
da sé che "la libertà come tale non costituisce un valore nel calcolo
utilitaristico"(pp. 24-25). Bisogna spingere lo sguardo nelle pieghe del
tessuto sociale, nell'apparato dei media, nell'educazione di massa. Fino a
osservare che l'intensità della privazione del lavoratore precario, del
disoccupato cronico e della moglie completamente succube hanno condotto costoro
a imparare "a tenere sotto controllo i propri desideri e a trarre il
massimo piacere da gratificazioni minime"(p.26). Verrebbe da dire: ridotti
nel desiderio ed educati alla parsimonia dalla miseria. Infatti è bene ribadire
che è la politica che educa i popoli, che non esistono come entità naturali
all'interno di un orizzonte bio-politico, ma sono realtà politiche educate
storicamente ad acquisire identità. Osserva ancora Sen: "Sfruttamento e
disuguaglianza persistenti spesso prosperano creandosi alleati passivi proprio
in coloro che vengono bistrattati e sfruttati" (p.29). Da segnare sul
taccuino degli appunti il termine "alleati passivi".
Il paradosso delle
disuguaglianze
Qui
il discorso accenna al paradosso delle disuguaglianze e osserva che a partire
dall'indipendenza del 1947 "l'India ha compiuto notevoli progressi
nell'istruzione superiore, ma pochissimi in quella elementare"(p. 29). È
il caso di rammentare un passo dell'esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium, dove si sconfessa il
mito liberista della "ricaduta favorevole", mai storicamente provata,
che traduce l'espressione inglese di Stiglitz, là dove il premio Nobel parla
dell'inesistenza del trickle-down.
Riaffermata
con Rawls l'importanza politica ed etica della libertà individuale, Sen
focalizza l'attenzione sugli effetti e i tipi di vita che le persone possono
scegliere di condurre e che concernono diversi aspetti del "funzionamento
umano" (p. 34). Secondo Sen, "la libertà di condurre diversi tipi di
vita si riflette nell'insieme delle combinazioni alternative di functionings tra le quali una persona
può scegliere"(p.35). Questa può essere definita la "capacità"
di una persona. Dunque, "aumentare le capacità umane deve rappresentare
una parte importante della promozione della libertà individuale"(p. 36).
L'ultima
parte della riflessione di Amartya Sen riguarda quella che potremmo definire la
condizione materiale delle diverse democrazie. Sen osserva le discrepanze di
reddito e l'handicap che in termini non soltanto finanziari può costituire
l'essere malato in maniera tale da dover richiedere cure continue di dialisi
renale. "La necessità di tener conto di differenze nella abilità di
trasformare redditi e beni primari in capacità e libertà è veramente centrale
nello studio dei livelli di vita in generale, e della povertà in
particolare"(p. 38).
Non
omette di notare che le strutture sociali per l'assistenza sanitaria negli
Stati Uniti sono più deficitarie di quelle di altri paesi molto più poveri, al
punto che all’incirca la metà dell'eccesso di mortalità dei neri americani può
essere spiegato sulla base di differenze di reddito. "Gli uomini hanno
meno probabilità di raggiungere i quarant’anni nei sobborghi neri di Harlem a
New York che nell'affamato Bangladesh"(p. 40).
Secondo
Sen, "il mercato può effettivamente essere un grande alleato della libertà
individuale in molti campi, ma la libertà di vivere a lungo senza soccombere a
una malattia che può essere prevenuta richiede una gamma più ampia di strumenti
sociali"(p. 41). Come a dire che non si dà democrazia senza welfare. E
dunque "l'attribuzione di priorità alla libertà individuale, nel senso più
ampio del termine, si fonda sul rifiuto dell'affermazione esclusiva dell'importanza dell'utile, della ricchezza, della sola
libertà positiva, sebbene queste variabili ricevano anch’esse attenzione, fra
le altre, nella ricerca della libertà"(p. 45).
Si
tratta di proporre e realizzare un approccio all'etica sociale che ponga
l'accento sulla libertà individuale come impegno sociale, condizione che non
esclude la necessità di affrontare problemi di conflittualità fra gruppi e fra
individui. E infatti "i principi distributivi affrontano tali conflitti, piuttosto che eliminarli"(pp. 48-49). La questione più urgente "resta
però l'esigenza di riesaminare i problemi dell'efficienza sociale e dell'equità
spostando l'attenzione sulle libertà individuali"(p. 52). Il passo è tale
che obbliga tutti a ripensare l'economia dal punto di vista delle politiche
democratiche. Dire che la democrazia è diventata oramai un diritto non
cartolare e un bene comune non è raccontare una barzelletta solidale e neppure
una giaculatoria illuministica. Ecco comunque -secondo Amartya Sen- il menù
della dieta democratica per nutrire il pianeta globalizzato.
Persona e comunità
È
in questo orizzonte disteso sopra una terra di nessuno che il cattolicesimo
democratico residuo è chiamato a interrogarsi su due pilastri teorico-pratici:
persona e comunità. Da recuperare come concetti e da rideterminare in cospetto
del nuovo mondo. Due pilastri certamente non risparmiati dal nuovo corso. La
governabilità renziana antepone ovunque il governo al Parlamento: il decidere
al discutere. Disboscando non solo i doppioni (il Senato nell'Italia avviata al
monocameralismo), ma tutti gli enti intermedi: capisaldi del popolarismo
sturziano e della dottrina sociale della Chiesa. Arriva nelle scuole con la
assolutizzazione del ruolo del preside. Non si tratta di andare oltre la
democrazia discutidora. Si tratta di
affermare ovunque -e quindi anche nell'ente locale- il primato del governo. La
rappresentanza seguirà in qualche modo, come le salmerie. La persona
costituisce in effetti l'ultimo pezzo di idem sentire di questi italiani, e il
personalismo costituzionale dossettiano ne rappresenta tuttora la grammatica.
Quanto
alla comunità, non c'è società senza elementi di comunità. Non c'è bisogno di
scomodare Tönnies. Va anche detto che la comunità c'è
soltanto quando viene vissuta nelle sue molteplici relazioni “calde”. Qui la
rappresentazione non basta.