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mercoledì 24 giugno 2015

L'Europa esausta
di Giovanni Bianchi

La difficoltà a sperare
Ibam forte via sacra… ossia mi stavo recando a Roma sul Frecciarossa quando un amico, grande economista, mi ha bloccato per, come si dice, attaccare bottone. Tema: ho scritto (l'ha scritto l'amico economista) un libro su Italia, Francia, Germania e Spagna.
"È difficile che riusciamo (noi italiani) a cavarcela".
Lo spettro della Grecia comunque ci interessa. Là chiudono le farmacie e la gente è alla fame. Che fare? L'amico economista non ha avuto il tempo di chiarirmelo per la vicinanza di Stazione Termini. Quindi, non essendo io in grado di ipotizzare una soluzione con le mie forze, continuo a sperare (mi rifiuto di gufare ma anche di fare l'ottimista) e richiamo la simpatica giaculatoria di Giulio Andreotti: "Che Dio ce la mandi buona".
C'è tuttavia un pezzo di Grecia, in tutti i sensi, in questo Paese. E quindi a maggior ragione nella Magna Grecia.  "E loro non lo sanno".
Fonzie che ci azzecca con Telemaco? E per questo lo slogan più bello, ma inventato solo per il marketing, è quello che è durato meno. Trovo anche gli avversari di Renzi oramai totalmente clericali, ossia immersi programmaticamente nel clericalismo del potere. E Matteo Renzi e le sue valchirie totalmente pagani: quel cantare tutta la vita in coro il Tannhȁuser come fosse un canto di vittoria tribale. Tsipras è un nazionalista. E la cosa sulla quale riflettere è che il nazionalismo nella globalizzazione può trovarsi "a sinistra", dalla parte della "povera gente": la liquidità che liquida i soggetti produce dunque sorprese non tutte negative.
In una grande fabbrica sestese, la Breda, l'operaio Pampuri, comunista e tutto interno al Pci nella Lotta di Liberazione, scrive a un certo punto che gli operai hanno una patria. In un senso completamente rovesciato rispetto alle affermazioni similari di Benito Mussolini diventato interventista durante la prima grande guerra. Non avendo compreso questo "ritorno", la sinistra dei Balcani Occidentali che aveva combattuto una resistenza ritenuta paradigmatica, la migliore in Europa, ha lasciato passare l'orrore della oramai, per tutti, ex Jugoslavia.
I passi fuori dalla via sono purtroppo molteplici e talvolta inattesi.
Panebianco ha proposto sul "Corriere" dei giorni scorsi un assetto europeo analogo a quello anseatico del tardo medioevo. Ma l’Hansa Alemanna rappresenterebbe, anche solo come modello, molti passi indietro rispetto agli assetti acquisiti nel tempo -perfino per evoluzione- da questa Europa che c’è, e soprattutto dopo Maastricht.

La memoria e il museo delle cere
Non a caso Michele Salvati è ritornato a valutare il contributo di Max Weber in un saggio recente dal titolo Sviluppo e forme del capitalismo moderno. Capitalismo, liberalismo e democrazia. Weber infatti è un liberale cresciuto nella Germania guglielmina e chiamato a stendere una costituzione di impronta liberale. E quando le cose non tornano e l'orientamento si fa problematico lo sguardo torna ai grandi maestri e ai documenti che hanno fatto epoca.
Con una prima costante: sempre nei cambiamenti d'epoca la carta costituzionale viene evocata come bussola di orientamento. E non è neppure casuale ricordare la presenza a Weimar dei cattolici del Deutsche Zentrumspartei, noto anche semplicemente come Zentrum.
Tutto il quadro politico europeo appare allora in fermento preparando le condizioni per le quali decenni più tardi i conservatori produrranno una rivoluzione liberale, così come Gaetano Mosca vota nel Parlamento italiano contro le "leggi fascistissime" del 1926. Insomma, detto più che telegraficamente, il problema della forma partito attraversa tutte le nazioni europee e pone da subito il significato della professione politica. Con schermaglie e approfondimenti che ci riguardano molto da vicino se già Michels amava ripetere che le minoranze accusano normalmente le maggioranze di prevaricazione. Non stupisce dunque che nell'era del turbocapitalismo questa democrazia necessariamente deluda i popoli del mondo nel loro faticoso cammino verso forme di governo che interessano oramai 7 miliardi di persone. Sembrano anche nuovamente prevalere le teorie elitiste: una tendenza che non riesce ad esorcizzare l'arcinoto detto di Churchill che vuole la democrazia come il peggiore dei sistemi possibili, salvo tutti gli altri.


La qualità delle democrazie
La qualità delle democrazie discende infatti dall'indole e dell'antropologia dei popoli, mentre un certo tasso di magistero esercitato dalla classe dirigente non è toglibile dalla democrazia e dal suo uso. L'obiettivo non facilmente raggiungibile resta sempre quello di un buon governo e di una partecipazione critica, tenendo conto della ineliminabile aspirazione di un uomo politico, e maggiormente ancora di un capo, alla presa del potere. Si possono anche tentare delle ironie, come quelle che erano abituali in Vittorio Rieser: Credete in Marx e sarete Salvati...
Ma torniamo a Max Weber, grandissimo personaggio e studioso, morto a soli 54 anni per un'epidemia di "spagnola". Anzitutto per Max Weber il capitalismo è una forma della modernità, che contiene in sé il grande vantaggio che l'inefficienza viene respinta dalla concorrenza.
Dall'altro lato dell'impianto societario weberiano lo Stato si basa invece sulla burocrazia. In tal modo la burocrazia viene a trovarsi alla base sia del capitalismo come dello Stato. In questa visione il burocrate non deve avere anima. L'anima -il carisma- lo deve possedere il politico.
Spetta in seguito a Schumpeter il compito di secolarizzare Max Weber.
In Schumpeter la democrazia è il mercato dove il leader presenta se stesso come merce al pubblico democratico: una tendenza giunta a compimento nella nostra stagione politica, nella quale la pubblicità ha sostituito la propaganda, mentre il capitalismo internazionale fa giungere ovunque da sopra e da fuori i propri ordini. Quel che viene sottoposto in tale modo a tensione è il contrasto perenne e perennemente evidente tra ricchezza e democrazia. Non esiste un capitalismo che non produca ricchezza: è questo il suo compito; ma la ricchezza sottopone inevitabilmente a tensione i rapporti democratici. Tre palle restano continuamente in aria in questo capitalismo: il mercato, lo Stato democratico, il benessere popolare. E il gioco complessivo non può prescinderne. Con aggiustamenti e sbandamenti che ricollocano continuamente i rapporti tra i tre elementi costitutivi dell'attuale assetto. Sono andati in questa direzione -e cioè piuttosto nel senso delle tensioni- gli interventi dei decenni scorsi di Friedman e Signora intorno alla pubblicazione, che è anche un mantra, di Liberi di scegliere.
Nella visione di Friedman il benessere popolare discende dal trickle down: il procedimento sconfessato da papa Francesco nella Evangelii gaudium.
Secondo la diagnosi di Salvati, il secondo trentennio del secolo, guardato dall'Europa, vede le conquiste popolari limate e ridotte, mentre nel resto del mondo si assiste ad una crescita complessiva. La Cina, patria dei bassi salari, sforna un milione di nuovi ingegneri ogni anno. Mentre la scena mondiale vede il "dittatore benevolo" degli Usa progressivamente messo in difficoltà. Un tema affrontato da Clinton prima che da George W. Bush. Si parla con una qualche faciloneria di situazione complessivamente multipolare, mentre il mostro biblico che meglio può sintetizzare la condizione presente è Behemoth, che evoca l'anarchia, in certo senso richiamando Leviathan, che esprime la dittatura. E la possibilità che riemergano dalle caverne della storia gli antichi mostri biblici deve essere considerata tutt'altro che un'ipotesi di scuola. La speranza non può quindi essere confusa con l'ottimismo, ma comporta perfino l'obbligo di documentarsi. Tenendo conto della circostanza che il capitalismo non ha cessato di evolvere e mutare forma dopo la morte di Weber, quasi un secolo fa. Ha ragione dunque Michele Salvati quando osserva, con sintesi opportuna, che è tempo di concentrarsi sul percorso capitalistico successivo ai disastri economici, alle turbolenze sociali, alle rivoluzioni politiche e alle tragedie delle due guerre mondiali dei vent'anni intermedi, successivo anche all'egemonia americana e alle due diverse fasi nelle quali essa si è esercitata: la fase dei trent'anni postbellici e dei trente glorieuses, come la chiamano i francesi.
È tempo cioè di fare i conti fino in fondo con una stagione storica a impronta più nettamente liberista, nella quale tuttora viviamo. Insomma, è importante aver chiaro che il confronto è assai più con il "capitalismo contemporaneo" che con il capitalismo moderno. (Ci tornerò in seguito.)

Il quadro europeo
Torniamo allora, non fiaccati dalla disperazione, a riflettere sul quadro europeo.
Il Pse è nato il 9 novembre 1992, e tra i firmatari dell'atto di fondazione troviamo Achille Occhetto. Ci sarà pure un rapporto tra Tony Blair che costruisce il mitico New Labour e Schroeder che costruisce la Neue Mitte e le scelte dell'uno per un incarico milionario alla Banca Morgan, e dell'altro per un incarico, sempre milionario, a Gazprom?
Pruderie moralistica? O forse il problema etico odierno è come essere avidi senza sentirsi in colpa, perché il mercato lo vuole? Fin dagli inizi il mercato è un messaggio ambiguo che la destra declina come il riconoscimento per chi si arricchisce e fa carriera. Siamo forse rimasti irrimediabilmente indietro? Fa pure parte del pensiero unico un'idea di passato come blocco indistinto dal quale prendere le distanze e rinascere, che equivale a un rifiuto di pensare alla storia. Del resto il giovanilismo nasce e rinasce ovunque così, e dovunque ha avuto fin qui l'abitudine di indirizzarsi a sbocchi autoritari. A caratterizzarlo è l'assenza di una reale dialettica dei processi storici. Ritorna fuori l'antico Gramsci: l'essere "contemporaneo" è un titolo buono solo per le barzellette... A meno che la storicità non significhi soltanto caducità.
Riecco Niklas Luhmann: nessun soggetto è in grado di interpretare questo mondo complesso, e tantomeno di cambiarlo. (Torneremo anche su questo.)
A questo punto è dato capire perché si assiste alla generalizzazione globale di una tendenza al dominio anziché verso la libertà, a dispetto della crescita in generale e dello sviluppo delle tecnologie in particolare. Non v'è dubbio che l'antistatalismo esasperato sia stato rimesso a nuovo grazie all'avanzata strepitosa del monetarismo. Un'avanzata anche strepitosamente ideologica. In tal modo la Costituzione ci appare grazie a Dio non solo come un documento, ma un fatto formale fondamentale e fondante, da analizzare fino in fondo.


Il ritorno di Amartya
Non è un eterno ritorno nietzschiano, ma insistente sì: come per continuare un discorso appena lasciato interrotto, con la semplicità accattivante dell'ultimo maestro. Sto parlando dell'opuscolo di Amartya Sen, La libertà individuale come impegno sociale, edizione gratuita di Laterza, che l'ultimo libraio militante di Milano, il Guido Duiella di via Tadino, mi ha offerto insieme agli ultimi testi che avevo ordinato sul tema del 25 Aprile.
Sen prende questa volta le mosse da Isaiah Berlin e dalla sua distinzione fra concezioni "negative" e "positive" della libertà. Dove per libertà in senso positivo (la libertà di) si intende ciò che, "tenuto conto di tutto, una persona può o meno conseguire"(p.11).
Viceversa, la concezione negativa della libertà (la libertà da) "si concentrerà precisamente sull'assenza di una serie di limitazioni che una persona può imporre a un'altra" (p.12).
Dopo avere osservato che si è andata affermando la tendenza a prestare attenzione prevalente alla concezione "negativa" della libertà, Sen sostiene -coerentemente con tutta una lunga serie di saggi da lui pubblicati- che è la libertà positiva che ci interessa, dal momento che riteniamo di grande importanza l'essere "liberi di scegliere" (p. 13). È qui, al netto di tutte le distinzioni, che Amartya Sen riprende quello che mi pare il fulcro di tutte le sue recenti prese di posizione.
Quel che positivamente sorprende il lettore sono gli esempi che anche questa volta Amartya Sen ha scelto per esplicitare il proprio ragionamento, tanto più intriganti perché questi sono anche i giorni e i mesi dell'Expo milanese 2015, il cui mantra suona: "Nutrire il Pianeta".
Il tema proposto alla riflessione e gli esempi addotti da Sen riguardano il rapporto tra carestie e libertà.
Dopo avere osservato che la carestia del Bengala del 1943 ebbe luogo senza che la disponibilità di cibo fosse eccezionalmente bassa, Amartya Sen non si trattiene dall'osservare che alcune carestie sono avvenute quando la disponibilità di cibo era al suo livello massimo. E adduce il caso della carestia del Bangladesh del 1974 (p. 18).
Sostiene inoltre Sen che nello spiegare le carestie non si deve guardare tanto alla disponibilità totale di cibo, ma al possesso di "titoli" da parte dei gruppi vulnerabili, "ovvero ai diritti di proprietà sul cibo che tali gruppi sono in grado di farsi riconoscere" (p.18).
Ne consegue che non deve sorprendere la circostanza che una politica di integrazione dei redditi (ad esempio offrendo impiego pubblico o pagando un salario alle persone indigenti in cerca di lavoro) "possa costituire uno dei modi più efficaci di prevenire le carestie" (p.19).
Mai l'economia è risultata così palesemente economia politica, e va pure osservato che l'analisi e la prospettiva di Sen indicano la centralità basilare del rapporto solidarietà-democrazia, fino ad indicare la stessa democrazia come un "bene comune" della stagione politica in questa fase storica. L'affermazione risulta a questo punto perentoria: "Questo è in effetti il modo in cui le carestie sono state sistematicamente prevenute in India dopo l'indipendenza"(p. 19). Perché l'eliminazione delle carestie in India è stata in massima parte il risultato di sistematici interventi pubblici. E a fondamento della propria posizione Sen aggiunge che "ciò che ha determinato il cambiamento della situazione è stata la natura pluralistica e democratica dell'India dopo l'indipendenza"(p. 20).
Il fatto che le carestie abbiano potuto dilagare in molti paesi dell'Africa sub-sahariana discende dalla circostanza  che i governi di quei paesi non si devono preoccupare troppo della minaccia dei partiti all’opposizione, proprio a seguito di una carenza di controllo e di solidità delle rispettive democrazie. I territori, i campi, le foreste sono sempre più nelle mani di un sistema economico le cui decisioni mutano senso ed efficacia a seconda del tasso di democrazia che li governa. Secondo Sen, "nella terribile storia delle carestie mondiali è difficile trovare un caso in cui si sia verificata una carestia in un paese con una stampa libera e un'opposizione attiva entro un quadro istituzionale democratico"(p. 22).
È tempo di criticare allora una diffusa tradizione utilitarista, la quale sottolinea non tanto "la libertà di raggiungere risultati, quanto piuttosto i risultati conseguiti" (p.23).
Va da sé che "la libertà come tale non costituisce un valore nel calcolo utilitaristico"(pp. 24-25). Bisogna spingere lo sguardo nelle pieghe del tessuto sociale, nell'apparato dei media, nell'educazione di massa. Fino a osservare che l'intensità della privazione del lavoratore precario, del disoccupato cronico e della moglie completamente succube hanno condotto costoro a imparare "a tenere sotto controllo i propri desideri e a trarre il massimo piacere da gratificazioni minime"(p.26). Verrebbe da dire: ridotti nel desiderio ed educati alla parsimonia dalla miseria. Infatti è bene ribadire che è la politica che educa i popoli, che non esistono come entità naturali all'interno di un orizzonte bio-politico, ma sono realtà politiche educate storicamente ad acquisire identità. Osserva ancora Sen: "Sfruttamento e disuguaglianza persistenti spesso prosperano creandosi alleati passivi proprio in coloro che vengono bistrattati e sfruttati" (p.29). Da segnare sul taccuino degli appunti il termine "alleati passivi".

Il paradosso delle disuguaglianze
Qui il discorso accenna al paradosso delle disuguaglianze e osserva che a partire dall'indipendenza del 1947 "l'India ha compiuto notevoli progressi nell'istruzione superiore, ma pochissimi in quella elementare"(p. 29). È il caso di rammentare un passo dell'esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium, dove si sconfessa il mito liberista della "ricaduta favorevole", mai storicamente provata, che traduce l'espressione inglese di Stiglitz, là dove il premio Nobel parla dell'inesistenza del trickle-down.
Riaffermata con Rawls l'importanza politica ed etica della libertà individuale, Sen focalizza l'attenzione sugli effetti e i tipi di vita che le persone possono scegliere di condurre e che concernono diversi aspetti del "funzionamento umano" (p. 34). Secondo Sen, "la libertà di condurre diversi tipi di vita si riflette nell'insieme delle combinazioni alternative di functionings tra le quali una persona può scegliere"(p.35). Questa può essere definita la "capacità" di una persona. Dunque, "aumentare le capacità umane deve rappresentare una parte importante della promozione della libertà individuale"(p. 36).
L'ultima parte della riflessione di Amartya Sen riguarda quella che potremmo definire la condizione materiale delle diverse democrazie. Sen osserva le discrepanze di reddito e l'handicap che in termini non soltanto finanziari può costituire l'essere malato in maniera tale da dover richiedere cure continue di dialisi renale. "La necessità di tener conto di differenze nella abilità di trasformare redditi e beni primari in capacità e libertà è veramente centrale nello studio dei livelli di vita in generale, e della povertà in particolare"(p. 38).
Non omette di notare che le strutture sociali per l'assistenza sanitaria negli Stati Uniti sono più deficitarie di quelle di altri paesi molto più poveri, al punto che all’incirca la metà dell'eccesso di mortalità dei neri americani può essere spiegato sulla base di differenze di reddito. "Gli uomini hanno meno probabilità di raggiungere i quarant’anni nei sobborghi neri di Harlem a New York che nell'affamato Bangladesh"(p. 40).
Secondo Sen, "il mercato può effettivamente essere un grande alleato della libertà individuale in molti campi, ma la libertà di vivere a lungo senza soccombere a una malattia che può essere prevenuta richiede una gamma più ampia di strumenti sociali"(p. 41). Come a dire che non si dà democrazia senza welfare. E dunque "l'attribuzione di priorità alla libertà individuale, nel senso più ampio del termine, si fonda sul rifiuto dell'affermazione esclusiva dell'importanza dell'utile, della ricchezza, della sola libertà positiva, sebbene queste variabili ricevano anch’esse attenzione, fra le altre, nella ricerca della libertà"(p. 45).
Si tratta di proporre e realizzare un approccio all'etica sociale che ponga l'accento sulla libertà individuale come impegno sociale, condizione che non esclude la necessità di affrontare problemi di conflittualità fra gruppi e fra individui. E infatti "i principi distributivi affrontano tali conflitti, piuttosto che eliminarli"(pp. 48-49). La questione più urgente "resta però l'esigenza di riesaminare i problemi dell'efficienza sociale e dell'equità spostando l'attenzione sulle libertà individuali"(p. 52). Il passo è tale che obbliga tutti a ripensare l'economia dal punto di vista delle politiche democratiche. Dire che la democrazia è diventata oramai un diritto non cartolare e un bene comune non è raccontare una barzelletta solidale e neppure una giaculatoria illuministica. Ecco comunque -secondo Amartya Sen- il menù della dieta democratica per nutrire il pianeta globalizzato.


Persona e comunità
È in questo orizzonte disteso sopra una terra di nessuno che il cattolicesimo democratico residuo è chiamato a interrogarsi su due pilastri teorico-pratici: persona e comunità. Da recuperare come concetti e da rideterminare in cospetto del nuovo mondo. Due pilastri certamente non risparmiati dal nuovo corso. La governabilità renziana antepone ovunque il governo al Parlamento: il decidere al discutere. Disboscando non solo i doppioni (il Senato nell'Italia avviata al monocameralismo), ma tutti gli enti intermedi: capisaldi del popolarismo sturziano e della dottrina sociale della Chiesa. Arriva nelle scuole con la assolutizzazione del ruolo del preside. Non si tratta di andare oltre la democrazia discutidora. Si tratta di affermare ovunque -e quindi anche nell'ente locale- il primato del governo. La rappresentanza seguirà in qualche modo, come le salmerie. La persona costituisce in effetti l'ultimo pezzo di idem sentire di questi italiani, e il personalismo costituzionale dossettiano ne rappresenta tuttora la grammatica.
Quanto alla comunità, non c'è società senza elementi di comunità. Non c'è bisogno di scomodare Tönnies. Va anche detto che la comunità c'è soltanto quando viene vissuta nelle sue molteplici relazioni “calde”. Qui la rappresentazione non basta.