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mercoledì 24 giugno 2015

Stava. Il crimine dei colletti bianchi
di Giovanni Bianchi


Trent'anni dopo
Sono passati trent'anni dalla tragedia di Stava, quando alle ore 12.22 del 19 luglio 1985 i bacini di decantazione della miniera di Prestavel ruppero gli argini scaricando 160.000 m³ di fango sull'abitato di Stava, piccola frazione del comune di Tesero, provocando la morte di 268 persone. Una delle più grandi tragedie che abbiano colpito il Trentino in epoca moderna. 268 morti, di cui 28 bambini con meno di 10 anni, 31 ragazzi con meno di 18 anni, 89 uomini e 120 donne. I corpi di 13 persone non vennero mai ritrovati.
Il numero esatto dei morti del disastro di Stava fu accertato solo un anno dopo la catastrofe. Molte salme infatti non poterono essere riconosciute e fu quindi necessario ricorrere alle dichiarazioni di morte presunta.
La dinamica della tragedia è stata esattamente ricostruita. Alle 12.22 del 19 luglio 1985 l'argine del bacino superiore dei due invasi costruiti sopra il paese cedette e crollò sul bacino inferiore, che cedette a sua volta. La massa fangosa composta di sabbia, limi e acqua scese a valle a una velocità di quasi 90 km/h spazzando via persone, alberi, abitazioni e tutto quanto incontrò fino a che non raggiunse la confluenza con il torrente Avisio.
All'opera di soccorso parteciparono oltre 18.000 uomini, di cui oltre 8000 vigili del fuoco volontari del Trentino e 4000 militari del Quarto Corpo d'Armata Alpino. Primi ad accorrere furono i vigili del fuoco volontari di Tesero e della Valle di Fiemme.
Presso il municipio di Tesero fu quindi istituito un quartiere generale della Protezione Civile dal quale coordinò i soccorsi lo stesso ministro per la Protezione Civile Giuseppe Zamberletti. La maggior parte delle vittime fu recuperata nelle prime ore, ma la ricerca si protrasse per tre settimane.

La fatalità non esiste
Fatalità? Anche in questo caso la fatalità non esiste e non può essere invocata. In oltre vent'anni quelle discariche non furono mai sottoposte a serie verifiche di stabilità da parte delle società concessionarie o a controlli da parte degli uffici pubblici cui compete l'obbligo del controllo a garanzia della sicurezza delle lavorazioni minerarie e dei terzi.
Anzi, nel 1974 il Comune di Tesero chiese conferme sulla sicurezza della discarica. Il distretto minerario della provincia autonoma di Trento incaricò della verifica di stabilità la stessa società concessionaria (la Fluormine, appartenente allora ai gruppi Montedison ed Egam), che la effettuò nel 1975.
Pur trascurando una serie di indagini indispensabili, la verifica permise di accertare che la pendenza dell'argine del bacino superiore era "eccezionale" e che la stabilità era "al limite". Nella sua prima relazione il tecnico incaricato della verifica sembra in sostanza affermare: "Strano che non sia già caduto".
La commissione ministeriale d'inchiesta e i periti nominati dal Tribunale di Trento accertarono in seguito che "tutto l'impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata. L'impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l'esistenza di intere comunità umane. L'argine superiore in particolare non poteva che crollare alla minima modifica delle sue precarie condizioni di equilibrio".
Fin qui la ricostruzione che il lettore può anche ritrovare nelle righe cronachistiche e distaccate di Google.
Domanda: ma esiste una logica diversa dal rimando alla fatalità in questa incredibile tragedia tutto sommato dei giorni nostri?

Il libro e le associazioni
Me ne sto occupando a seguito di due circostanze. La prima è la pubblicazione di un libro scritto per i tipi della Fondazione Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi da Daria Dovera, allora giovane ricercatrice dell'équipe degli esperti incaricata di procedere alle perizie. La seconda è che nel 1985 ricoprivo il ruolo di presidente regionale delle Acli della Lombardia e che uno degli edifici travolti dall'esondazione era una Casa per Ferie delle Acli milanesi. Nacque in seguito alla tragedia – come sovente accade in circostanze analoghe – una associazione dei parenti delle vittime che faceva capo e si radunava nel salone milanese di via della Signora  appartenente alle Acli provinciali di Milano, allora rette da un leader sindacale e cattolico del calibro di Lorenzo Cantù.
Qui si apre una riflessione di carattere nazionale e addirittura “epocale”. Perché l'Italia è da tempo abitata dalla figura collettiva di associazioni che attraversano con un fardello civico doloroso le nostre recenti stagioni politiche?
Proviamo a fare un elenco limitato ed approssimativo: i parenti delle vittime di Stava, del Cermis, della Moby Prince, di Ustica, di piazza Fontana, di Piazza della Loggia, della Stazione di Bologna, di Linate, dell'Italicum... Sono davvero toppe, e testimoniano di un dolore che attraversa come un fiume carsico la Nazione, che parla di problemi sempre messi all'ordine del giorno e mai risolti, della latitanza colpevole di una classe dirigente.
I sottotitoli del libro prezioso di Daria Dovera hanno la forza di una denuncia. Eccoli: incultura, imperizia, negligenza, imprudenza. Una accusa senza mezzi termini e circostanziata contro l'assuefazione alle tragedie e ai responsabili delle tragedie.
Contro quell'inerzia che fa sì che le immagini ripetute svolgano un "effetto Mitridate" su una platea di cittadini che si comportano sempre più da consumatori. E da consumatori di banalità pubblicitarie. Le prefazioni al testo non a caso parlano di "vergogna" del Paese.


Quale Paese?
Quel Paese appunto nel quale sono sorte nei decenni troppe associazioni di parenti delle vittime. Perché indubbiamente il ricordo della tragedia è doveroso e può sortire effetti catartici e di cambiamento, purché risulti un'efficace e brusco invito alla responsabilità in un’Italia abituata a rimuovere e a insabbiare. A passar sopra a pesanti responsabilità.
E invece scopriamo con l'autrice che a gestire lo sfruttamento delle risorse minerarie della valle si era cominciato nel XVI secolo, per la produzione di galena argentifera. Nel 1934 si era passati all'estrazione della fluorite. Dopo la seconda guerra mondiale troviamo a gestire l'invaso un colosso delle imprese italiane che risponde al nome di Montecatini, cui subentrarono fino al 1978 società del gruppo Montedison e quindi Egam ed Eni.
Soltanto nel 1980 si affaccia come gestore Prealpi Mineraria; ossia dopo i giganti blasonati della grande industria arrivano i Brambilla.
La logica a tutti comune è quella di spremere i territori come se vivessimo in un'Italia virtuale, che è invece ancora quella della famosa inchiesta dello Jacini (1884), delle tragedie del Gleno e del Vajont. Come dimostrano ampiamente gli atti dell'inchiesta giudiziaria, il fato dunque non c'entra; c'entra invece un "approccio esclusivamente speculativo". È questa la ragione profonda di tante vite stroncate e di molte più vite ancora di parenti e sopravvissuti drammaticamente segnate per un'intera esistenza.
È tempo di mettere a tema questo rapporto tra vittime e memoria che segna la nostra vicenda storica quotidiana. Più attenti di noi sembrano in materia i francesi e i tedeschi. Anche se in altri paesi europei non sono mancati né i crolli né i segni premonitori inascoltati.

Un dramma antropologico
Quel che emerge a tutto tondo è ancora una volta il dramma antropologico del nostro Paese. Siamo ancora a Massimo d'Azeglio che invitava a fare gli italiani dopo l'Italia, e al citatissimo (da me) Giacomo Leopardi del 1824: gli italiani mancano di dimensione morale e classe dirigente. Sono dunque queste che vanno ricostruite.  
E il libro di Daria Dovera e il supporto all'opera del Consiglio Nazionale dei Geologi vanno in questa direzione, ossia propongono esplicitamente l'esigenza di un salto culturale. L'operazione in corso è seria e fondata dal momento che si propone un'operazione di stampo weberiano: lavorare perché le professioni -nel caso specifico quella dei geologi, e i più giovani in particolare- diano il loro contributo alla crescita di un'etica di cittadinanza. Senza una responsabilità generalizzata in tal senso continueremo a imbatterci in amministrazioni locali che non avevano mai compiuto serie verifiche di stabilità, peggio, le avevano messe in burla per bypassarle. Vale la pena ripetere che non si tratta soltanto della latitanza della politica: questo è un difetto palese di classe dirigente a tutti i livelli e che attraversa le diverse competenze e professionalità.  Coglieranno perfettamente il problema il professor Federico Stella, docente di diritto penale all’Università Cattolica di Milano, e il professor Floriano Villa, coordinatore degli esperti e presidente di Italia Nostra, quando nelle aule trentine del processo individueranno le responsabilità e inviteranno a compararle con gli studi e le indagini compiuti in materia negli anni Trenta negli Stati Uniti d'America. Vi sono inchieste e riflessioni oltreoceano che hanno condotto alla individuazione di un white-collar crime: crimine dei colletti bianchi. Con una casistica che calza a pennello con la tragedia di Stava e una conclusione degli esperti e dei giuristi americani che approda a un principio estremamente semplice e popolare: non si devono costruire invasi sopra i paesi e sopra le teste degli abitanti.


Leggere la sentenza
È sufficiente a questo punto leggere alcuni brani della sentenza dei giudici della Corte d'Appello di Trento, Sezione penale Sentenza n. 789/89:
"Tanto gli uomini della Montedison e della Fluormine quanto quelli del Distretto Minerario non si sono curati delle regole chiare e precise dell'arte e quindi dell'elevato rischio di rottura degli impianti, mostrando massima noncuranza e colpa". Di maniera che "il patto originario tra l'uomo e l'universo è stato violato perché la logica del profitto è prevalsa su quella del vero e del giusto".
Sempre nelle conclusioni della sentenza viene evocata la parola prudenza, come il luogo nel quale possono congiungersi professionalità e coscienza umana, e quindi anche civica e politica. Viene pure citato il don Abbondio che si schermisce dalla rampogna del cardinale Federigo osservando che uno il coraggio non se lo può dare. Indubbiamente vero, soprattutto se ad essere messo in discussione è il coraggio necessario a non impostare tutta la vita come devozione all'idolo dell’avidità e della carriera. Andare nella direzione contraria sarebbe un primo passo verso una società civile un po' meno liquida è un po' più umana, perché consapevole che senza elementi di comunità e di fraternità il civile si dissolve, trascinando nella deriva le stesse istituzioni. E indubbiamente mette qualche brivido ricordare come Montedison fosse la più grande industria chimica di quegli anni. Ma il percorso della storia nazionale non è solo costellato di tragedie e fuga dalle responsabilità. Non è esagerazione né paradosso notare come la battaglia condotta dentro e fuori le aule del tribunale Trentino da Villa e Stella sia oggi condotta nientemeno che dal vescovo di Roma.
Papa Francesco ha speso un'intera enciclica per invitare pressantemente a una coscienza e a una responsabilità ecologica. Già in precedenza aveva ricordato, come ammonimento epocale, che Dio perdona sempre, gli uomini talvolta, mentre la natura non perdona mai.
Stava costituisce un esempio paradigmatico.