EUROPA ED IMMIGRAZIONE
di Fulvio Papi
Qualche giorno fa ho letto un gradevole e
documentato libro di Beda Romano (“Misto
Europa. Immigrati e nuove società: un viaggio nel Vecchio Continente,
Longanesi) sulle emigrazioni in Europa. L’opera è stata pubblicata nel 2008, e,
nonostante siano passati pochi anni, il lavoro per molti aspetti è
inevitabilmente invecchiato nei confronti della situazione attuale. A livello
di un pubblico generico, minoritario, ma attento alle vicende contemporanee la
conoscenza dei fatti è molto vaga. A livello di politica è stata adottata
faticosamente una linea di condotta simile a quella dei signori medioevali che,
alla voce della diffusione della peste, chiudevano le porte dei loro castelli.
Quanto alle forme di comunicazione più diffuse, salvo rare eccezioni, il
pubblico può fruire di discorsi superficiali e generici che alimentano più
pregiudizi che conoscenze. Ora, a livello europeo pare ora questa distinzione:
siamo obbligati a ospitare i rifugiati politici per ragioni umanitarie, gli
altri emigrati per “ragioni economiche” vanno respinti. La distinzione è così
difficile da apparire pressoché impossibile, non solo per accertamenti seri, ma
per il modo stesso in cui vengono presentate le due specie diverse. Chi è un
rifugiato politico, e chi è uno che cerca di sfuggire a una situazione di vita
che è al margine o al rischio della sopravvivenza? Adoperare parole differenti
è facile e, forse anche, considerate le reazioni delle popolazioni europee,
consolatorio, ma, come quasi tutti hanno imparato la celebre espressione di
Nicolai Hartmann, diremo che, questa sicurezza semantica (purtroppo) si
infrange contro la “durezza del reale”.
L’immigrato “economico”, quello che cerca in Europa un
posto di lavoro, pare una lingua in declino, dato che sono certamente diffuse
notizie sulla scarsità di lavoro che credo endemica per le trasformazioni della
produzione e i rapporti di circolazione e di scambio delle merci nel marcato
mondiale. Le notizie di tutti i giorni ci dicono che il “viaggio” dei migranti
è, contemporaneamente, costoso per le loro risorse misere, e molto pericoloso
per i mezzi di trasporto navali del tutto inadatte. Il Mediterraneo è diventato
così un sepolcro per migliaia di persone che il giudizio morale (escludiamo i
razzisti da strapaese) dice “uguali a noi”. In realtà sono assolutamente
diversi, perché “noi”, male che vada e per ora, abbiamo a che fare con modeste
contrazioni dei consumi, essi invece devono affrontare il rischio della vita
che deriva da una paura superiore al rischio medesimo.
Non sottovaluterei questa componente psicologica della
paura che, se è difficile da decifrare analiticamente, è certamente il
sentimento dominante che sarebbe necessario eliminare o almeno ridurre. La
speranza che non ha futuro ed è tutta conclusa nel presente, diviene solo
speranza di salvezza della vita. La paura ha forti indici di adattabilità
(Hobbes ha scritto pagine a questo riguardo) ma anche, talora, mostra una forza
imprevista. Senza voler forzare paragoni, per lo più molto approssimativi, non
è forse quasi luogo ricordare che le grandi emigrazioni guerresche dall’Asia
verso l’Europa avevano all’origine l’esaurimento nel proprio territorio delle
risorse necessarie per la propria riproduzione.
La paura e il senso di totale insicurezza, per lo meno
per quanto riguarda il Nord Africa, erano obiettivi che era necessario avere
chiari e porvi, possibilmente rimedio, senza interpretare la situazione con un
pensiero politico e militare tipicamente occidentali ma già noto per i suoi
fallimenti in altri luoghi del mondo.
La paura dei migranti che temo in aumento, se non si
trovano soluzioni valide in loco, ha
provocato una parallela paura nei paesi europei che la razionalizzazione
dell’accoglienza non riesce a quietare perché viene interpretata come una
misura contingente che non toglie i timori per il futuro. Gli europei temono di
essere nelle condizioni di perdere lo “status” di esistenza materiale e
simbolica (qui non ne discuto il senso) che è stato selezionato dalla loro
storia. Dire che tra non molti anni i musulmani in Europa potranno essere oltre
i trenta milioni è una forte ragione di ansia che si converte in aggressività.
Non sarebbe affatto al stessa cosa se si dicesse che i trenta milioni saranno
valdesi o ortodossi. L’Islam è un continente religioso molto forte, ma anche
relativamente disomogeneo, spesso rigido nella conservazione delle proprie
credenze e dei propri culti, ma con margini di compatibilità (la tolleranza
illuminista), in altri casi è aggressivo e criminale: oggi con una forza
militare che si avvale di un embrionale sistema statale e di cellule
terroristiche autonome disperse nei vari paesi. L’Occidente che ha sbagliato,
su pregiudizi ideologici incredibili a livello di una media cultura, e con
interessi economici molto contingenti, tutta la sua politica mediorientale da
decenni non ha saputo evitare si creasse la situazione che oggi ci investe.
Probabilmente non era facile, ma come rischio è veramente e tragicamente reale
rispetto alle volgari menzogne sull’armamento atomico di Saddam Hussein.
L’Europa, nel suo insieme, pare invece estranea a un evento straordinario che
ornai ha in casa propria. Come si fa a difendersi? È questa la domanda cui gli Europei non hanno
mai saputo rispondere, concependosi come un mercato, e non come una
confederazione politica. In politica (come nella vita) non c’è sbaglio che alla
lunga non abbia il suo costo. Vedremo quale, purtroppo, dovrà essere. Anche a
voler evitare il triste ruolo di Cassandra, è bene cercare di leggere nel
futuro, e non meravigliarsi troppo tardi della propria opulenta pigrizia con
retoriche un poco infantili. Del resto l’infantilizzazione egoista delle nostre
società, spesso provocata dalle stesse microtecnologie, non è affatto una
novità, con i suoi spiriti individualistici e proprietari. Sulla vicenda
dell’emigrazione e dei rapporti con gli “altri” abbiamo già una storia. Quando
Putnam disse che dobbiamo costruirci un altro “noi” e Le Goff sostenne che il secolo XXI sarà il secolo del
meticciato (l’Ottocento quello della nazione-stato, il Novecento quello della
guerra) i due grandi intellettuali adoperavano categorie di alto livello che
tuttavia dovevano scontare le difficoltà e le numerose varianti della empiria
storica.
Ricordo il tempo in cui si sosteneva (giustamente) che il
lavoro dell’emigrazione avrebbe sostenuto la possibilità di future pensioni, il
problema religioso-urbanistico dei luoghi di culto, i problemi pedagogici delle
classi scolastiche con molti bambini emigrati. C’erano sempre i razzisti
“economici” (più che del sangue), ma il fenomeno sembrava mostrare indici
fattuali e culturali di assorbimento se pure con molti problemi. Si discuteva,
allora, se il sistema multiculturale dell’Inghilterra o quello
dell’assimilazione della Francia, fosse il migliore. Entrambi mostravano invece
guasti molto simili. Invece in Germania la forte presenza turca non dava
problemi particolari: si puntava persino a pensare al superamento di una
Leitkultur. Persino la finanza islamica aveva trovato artifici che aggiravano la
proibizione del Corano di usufruire
di interessi. La situazione riguardo all’Islam non è più questa e costringe i
paesi europei a decisioni molto più complicate in equilibrio tra la sua
tradizione e la necessaria difesa. Ma l’interrogazione dovrebbe investire
l’Africa nel suo insieme. Nel Sud Africa la fine dell’apartheid ha garantito
alla popolazione nera diritti civili, ma ha ripetuto, dal punto di vista
economico la tradizionale differenza sociale. Sappiamo in Africa di borghesie
locali, spesso militari, con alti profitti, alleate alle multinazionali, mentre
iniziative umanitarie chiedono a noi 9 euro al mese per evitare a molti bambini
la tragedia della fame. E il petrolio venduto alla Cina? E le monoculture
nell’agricoltura che hanno dissestato equilibri secolari di esistenza sociale
che si potevano incrementare? Cerchiamo almeno i nomi corretti per spiegare l’insieme
dei fenomeni che abbiamo descritto, senza pigrizie intellettuali o morali. Il
tempo “quo ante” temo sia un’illusione. L’Europa, dopo i riusciti suicidi della
sua storia possibile del 1914 e del 1939, è ora a una prova che la sua cultura
per lo più sublimava ad altri livelli del sapere. Ora è un’altra esperienza.