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martedì 21 luglio 2015

EUROPA ED IMMIGRAZIONE
di Fulvio Papi

Qualche giorno fa ho letto un gradevole e documentato libro di Beda Romano (“Misto Europa. Immigrati e nuove società: un viaggio nel Vecchio Continente, Longanesi) sulle emigrazioni in Europa. L’opera è stata pubblicata nel 2008, e, nonostante siano passati pochi anni, il lavoro per molti aspetti è inevitabilmente invecchiato nei confronti della situazione attuale. A livello di un pubblico generico, minoritario, ma attento alle vicende contemporanee la conoscenza dei fatti è molto vaga. A livello di politica è stata adottata faticosamente una linea di condotta simile a quella dei signori medioevali che, alla voce della diffusione della peste, chiudevano le porte dei loro castelli. Quanto alle forme di comunicazione più diffuse, salvo rare eccezioni, il pubblico può fruire di discorsi superficiali e generici che alimentano più pregiudizi che conoscenze. Ora, a livello europeo pare ora questa distinzione: siamo obbligati a ospitare i rifugiati politici per ragioni umanitarie, gli altri emigrati per “ragioni economiche” vanno respinti. La distinzione è così difficile da apparire pressoché impossibile, non solo per accertamenti seri, ma per il modo stesso in cui vengono presentate le due specie diverse. Chi è un rifugiato politico, e chi è uno che cerca di sfuggire a una situazione di vita che è al margine o al rischio della sopravvivenza? Adoperare parole differenti è facile e, forse anche, considerate le reazioni delle popolazioni europee, consolatorio, ma, come quasi tutti hanno imparato la celebre espressione di Nicolai Hartmann, diremo che, questa sicurezza semantica (purtroppo) si infrange contro la “durezza del reale”.
L’immigrato “economico”, quello che cerca in Europa un posto di lavoro, pare una lingua in declino, dato che sono certamente diffuse notizie sulla scarsità di lavoro che credo endemica per le trasformazioni della produzione e i rapporti di circolazione e di scambio delle merci nel marcato mondiale. Le notizie di tutti i giorni ci dicono che il “viaggio” dei migranti è, contemporaneamente, costoso per le loro risorse misere, e molto pericoloso per i mezzi di trasporto navali del tutto inadatte. Il Mediterraneo è diventato così un sepolcro per migliaia di persone che il giudizio morale (escludiamo i razzisti da strapaese) dice “uguali a noi”. In realtà sono assolutamente diversi, perché “noi”, male che vada e per ora, abbiamo a che fare con modeste contrazioni dei consumi, essi invece devono affrontare il rischio della vita che deriva da una paura superiore al rischio medesimo.
Non sottovaluterei questa componente psicologica della paura che, se è difficile da decifrare analiticamente, è certamente il sentimento dominante che sarebbe necessario eliminare o almeno ridurre. La speranza che non ha futuro ed è tutta conclusa nel presente, diviene solo speranza di salvezza della vita. La paura ha forti indici di adattabilità (Hobbes ha scritto pagine a questo riguardo) ma anche, talora, mostra una forza imprevista. Senza voler forzare paragoni, per lo più molto approssimativi, non è forse quasi luogo ricordare che le grandi emigrazioni guerresche dall’Asia verso l’Europa avevano all’origine l’esaurimento nel proprio territorio delle risorse necessarie per la propria riproduzione.
La paura e il senso di totale insicurezza, per lo meno per quanto riguarda il Nord Africa, erano obiettivi che era necessario avere chiari e porvi, possibilmente rimedio, senza interpretare la situazione con un pensiero politico e militare tipicamente occidentali ma già noto per i suoi fallimenti in altri luoghi del mondo.  
La paura dei migranti che temo in aumento, se non si trovano soluzioni valide in loco, ha provocato una parallela paura nei paesi europei che la razionalizzazione dell’accoglienza non riesce a quietare perché viene interpretata come una misura contingente che non toglie i timori per il futuro. Gli europei temono di essere nelle condizioni di perdere lo “status” di esistenza materiale e simbolica (qui non ne discuto il senso) che è stato selezionato dalla loro storia. Dire che tra non molti anni i musulmani in Europa potranno essere oltre i trenta milioni è una forte ragione di ansia che si converte in aggressività. Non sarebbe affatto al stessa cosa se si dicesse che i trenta milioni saranno valdesi o ortodossi. L’Islam è un continente religioso molto forte, ma anche relativamente disomogeneo, spesso rigido nella conservazione delle proprie credenze e dei propri culti, ma con margini di compatibilità (la tolleranza illuminista), in altri casi è aggressivo e criminale: oggi con una forza militare che si avvale di un embrionale sistema statale e di cellule terroristiche autonome disperse nei vari paesi. L’Occidente che ha sbagliato, su pregiudizi ideologici incredibili a livello di una media cultura, e con interessi economici molto contingenti, tutta la sua politica mediorientale da decenni non ha saputo evitare si creasse la situazione che oggi ci investe. Probabilmente non era facile, ma come rischio è veramente e tragicamente reale rispetto alle volgari menzogne sull’armamento atomico di Saddam Hussein. L’Europa, nel suo insieme, pare invece estranea a un evento straordinario che ornai ha in casa propria. Come si fa a difendersi?  È questa la domanda cui gli Europei non hanno mai saputo rispondere, concependosi come un mercato, e non come una confederazione politica. In politica (come nella vita) non c’è sbaglio che alla lunga non abbia il suo costo. Vedremo quale, purtroppo, dovrà essere. Anche a voler evitare il triste ruolo di Cassandra, è bene cercare di leggere nel futuro, e non meravigliarsi troppo tardi della propria opulenta pigrizia con retoriche un poco infantili. Del resto l’infantilizzazione egoista delle nostre società, spesso provocata dalle stesse microtecnologie, non è affatto una novità, con i suoi spiriti individualistici e proprietari. Sulla vicenda dell’emigrazione e dei rapporti con gli “altri” abbiamo già una storia. Quando Putnam disse che dobbiamo costruirci un altro “noi” e Le Goff  sostenne che il secolo XXI sarà il secolo del meticciato (l’Ottocento quello della nazione-stato, il Novecento quello della guerra) i due grandi intellettuali adoperavano categorie di alto livello che tuttavia dovevano scontare le difficoltà e le numerose varianti della empiria storica.
Ricordo il tempo in cui si sosteneva (giustamente) che il lavoro dell’emigrazione avrebbe sostenuto la possibilità di future pensioni, il problema religioso-urbanistico dei luoghi di culto, i problemi pedagogici delle classi scolastiche con molti bambini emigrati. C’erano sempre i razzisti “economici” (più che del sangue), ma il fenomeno sembrava mostrare indici fattuali e culturali di assorbimento se pure con molti problemi. Si discuteva, allora, se il sistema multiculturale dell’Inghilterra o quello dell’assimilazione della Francia, fosse il migliore. Entrambi mostravano invece guasti molto simili. Invece in Germania la forte presenza turca non dava problemi particolari: si puntava persino a pensare al superamento di una Leitkultur. Persino la finanza islamica aveva trovato artifici che aggiravano la proibizione del Corano di usufruire di interessi. La situazione riguardo all’Islam non è più questa e costringe i paesi europei a decisioni molto più complicate in equilibrio tra la sua tradizione e la necessaria difesa. Ma l’interrogazione dovrebbe investire l’Africa nel suo insieme. Nel Sud Africa la fine dell’apartheid ha garantito alla popolazione nera diritti civili, ma ha ripetuto, dal punto di vista economico la tradizionale differenza sociale. Sappiamo in Africa di borghesie locali, spesso militari, con alti profitti, alleate alle multinazionali, mentre iniziative umanitarie chiedono a noi 9 euro al mese per evitare a molti bambini la tragedia della fame. E il petrolio venduto alla Cina? E le monoculture nell’agricoltura che hanno dissestato equilibri secolari di esistenza sociale che si potevano incrementare? Cerchiamo almeno i nomi corretti per spiegare l’insieme dei fenomeni che abbiamo descritto, senza pigrizie intellettuali o morali. Il tempo “quo ante” temo sia un’illusione. L’Europa, dopo i riusciti suicidi della sua storia possibile del 1914 e del 1939, è ora a una prova che la sua cultura per lo più sublimava ad altri livelli del sapere. Ora è un’altra esperienza.