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giovedì 13 agosto 2015

EXPOLIAZIONE…
di Angelo Gaccione


Andando a visitare l’Esposizione Universale in quel di Rho, non è che mi aspettassi granché. Le fiere si assomigliano tutte, e mal sopporto anche quelle dedicate al libro e alle opere d’arte. Trovo che manifestazioni come queste potevano avere una giustificazione tra l’Ottocento e i primi del Novecento, non oggi, nell’era delle comunicazioni telematiche. A ciascuno di noi basta entrare in Rete, digitare il nome di una città, di un museo o di quant’altro ci interessa, per vedere in tempo reale luoghi, monumenti, opere, e così via, senza muoverci da casa. Le nazioni partecipanti a questa esposizione completamente inutile, se volevano far vedere i loro prodotti o le loro eccellenze, bastava organizzassero una loro agorà (o padiglione) attrezzata di tutto punto e metterla in Rete. Quanto agli incontri fra delegazioni commerciali, esponenti governativi e capi di Stato, se ne fanno a iosa -e in ogni periodo dell’anno- sugli argomenti più diversi, nei rispettivi paesi e dentro gli sfarzosi palazzi istituzionali. Ovviamente non se ne fa alcuno sotto il sole agostano dentro un campo di pomodori, dove i pascià dell’industria agroalimentare, multinazionali della terra saccheggiata, agricoltori senza scrupoli e caporali delinquenti, sfruttano dannati e miserabili per pochi euro costringendoli a sgobbare fino a 16 ore al giorno, e tenendoli segregati dentro luoghi indegni, spesso privi di luce, di latrine, di acqua da bere. Non se ne fa alcuno lì, sui luoghi dove il cibo si produce, quel cibo che dovrebbe nutrire il pianeta, secondo la retorica truffaldina degli organizzatori, e dei pubblicitari (la peggiore genìa che la modernità abbia prodotto). Perché nei luoghi dove il cibo si produce, quel cibo è fatto di fatica, sudore e sangue, e dunque lor signori se ne tengono alla larga. Non vogliono vederli quei luoghi, e tanto meno gli uomini e le donne che concretamente su quei luoghi faticano perché il frutto di quelle fatiche possa arrivare sulle loro mense.
Avevo in mente le terre sottratte ai contadini da parte delle società straniere, le monoculture imposte con la forza e che costringono alla fuga dai loro paesi milioni di uomini rimasti senza la base primaria della loro sopravvivenza, gli ulivi secolari falcidiati, il monopolio delle sementi, l’immorale distribuzione del cibo, l’uso dei cereali per ricavarne energia, tutto questo e altro ancora avevo in mente, prima di immettermi su quello che stucchevolmente e senza una punta di ridicolo, è stato battezzato Decumano.
Avevo in mente la rapina di Cina e India, di Europa ed America, divenute proprietarie di buona parte delle terre del continente africano. Avevo in mente la cifra astronomica che ogni anno gli stati spendono per le spese militari, e come il denaro speso per questa fiera avrebbe potuto creare pozzi d’acqua, sementi, bonifiche, mezzi agricoli da consegnare a chi non li possiede, a chi il cibo è negato.
Non mi aspettavo granché neppure dal punto di vista delle strutture architettoniche. Ero rimasto profondamente deluso dal modo come Milano aveva trattato i padiglioni dell’Esposizione Universale del 1906, abbattendo stupidamente le magnifiche realizzazioni liberty, che ne avrebbero fatto la capitale mondiale di quello stile così brioso. Avevo avuto modo di vedere quelle realizzazioni, nelle foto e in un video installati per il pubblico nella sede dell’Urban Center in Galleria, in occasione della presentazione di una nuova edizione del mio libro: “Milano città narrata”, e ne ero rimasto affascinato come il resto dei presenti. E sapevo che a Rho si trattava di realizzazioni effimere, provvisorie, destinate al loro smantellamento appena la kermesse si sarebbe conclusa.
Perché ci sono andato, dunque? Perché volevo verificare con i miei occhi come era stata trasformata l’area profumatamente pagata (ottimo suolo agricolo) su cui sono sorti i padiglioni. Per inciso, noi guastafeste di “Odissea” ci eravamo permessi di segnalare una marea di strutture pubbliche già esistenti che riadattate avrebbero consentito di decentrare l’esposizione e occupare a macchia di leopardo aree diverse della città e dintorni. Quelle strutture avrebbero, dopo l’esposizione, potuto servire per le funzioni più diverse e conservare la loro utilità. Valga per tutte la vasta area dell’ex mercato dei fiori, del mercato del pesce e del macello pubblico, da anni abbandonata; magnifica dal punto di vista architettonico, centrale e servita persino dal passante ferroviario, sarebbe stata anche un’ottima occasione per bonificarla dall’amianto e mettere così al sicuro una parte affollata di città e che ha attorno a sé ortomercato, deposito Atm, scuole, asili e persino sedi dell’Usl e dei vigili del fuoco. Ma torniamo a Rho. Alcune cascine recuperate al meglio e senza stravolgimenti di sorta; una piccola collina piantumata (gli alberi sono di per sé la forma più gentile e armoniosa di arredo urbano); la fontana dove si erge “L’albero della vita” che però è una natura morta meccanica; non le tanto contestate vie d’acqua poi travolte dagli scandali, ma qualche piccola oasi acquatica che compare qua e là, tuttavia per me la cosa migliore. Dove scorre dell’acqua si crea immediatamente un angolo magico. E padiglioni di ogni tipo e foggia in cui si è sbizzarrita la fantasia dei loro realizzatori.  

                       
Dal punto di vista della coerenza due mi sono sembrati i padiglioni degni di nota, quello del Vaticano incentrato sul pane e tutte le simbologie e sacralità che vi sono connesse, compreso il significato della fatica, dello spreco, dello scarto e della penuria (tutta roba che ci riguarda da vicino), e quello dell’Austria che ha concentrato l’attenzione sul bene primario per eccellenza: l’aria. A questo riguardo, è stato realizzato un vero e proprio bosco con 60 alberi e più di 12 mila fra piante ed arbusti, in grado di produrre più di 60 kg di ossigeno ogni ora, e di assimilare 92 kg  di anidride carbonica al giorno. Saggiamente su un pannello esplicativo è stato riprodotto questo efficacissimo ammonimento: “Puoi sopravvivere 5 settimane senza cibo, 5 giorni senza acqua, ma non 5 minuti senza aria”. Ne prendano nota i farabutti che ogni anno, in questa stagione, bruciano e devastano ettari ed ettari di boschi, assassinando il più prezioso ed umano degli esseri: l’albero, e mandando in cenere la materia prima più importante della terra: l’aria.                                                           
Quanto al padiglione più apertamente critico, uno c’è: è quello della Caritas. È un padiglione piccolo e spartano composto dalla carcassa di una Cadillac oramai priva splendori, circondata da una miriade di autentici filoni di pane. L’idea di questa installazione-performance si deve all’artista tedesco Wolf Vostell, che l’ha realizzata nel lontano 1973 e che si trova in permanenza al museo Malpartida in Spagna. Inequivocabile nei suoi significati, questa installazione non ha bisogno di ulteriori commenti. Mancano solo coloro che il cibo lo producono, in questa Esposizione, i contadini: ma questo è solo un dettaglio.