EXPOLIAZIONE…
di Angelo Gaccione
Andando
a visitare l’Esposizione Universale in quel di Rho, non è che mi aspettassi
granché. Le fiere si assomigliano tutte, e mal sopporto anche quelle dedicate
al libro e alle opere d’arte. Trovo che manifestazioni come queste potevano
avere una giustificazione tra l’Ottocento e i primi del Novecento, non oggi,
nell’era delle comunicazioni telematiche. A ciascuno di noi basta entrare in
Rete, digitare il nome di una città, di un museo o di quant’altro ci interessa,
per vedere in tempo reale luoghi, monumenti, opere, e così via, senza muoverci
da casa. Le nazioni partecipanti a questa esposizione completamente inutile, se
volevano far vedere i loro prodotti o le loro eccellenze, bastava
organizzassero una loro agorà (o padiglione) attrezzata di tutto punto e
metterla in Rete. Quanto agli incontri fra delegazioni commerciali, esponenti
governativi e capi di Stato, se ne fanno a iosa -e in ogni periodo dell’anno-
sugli argomenti più diversi, nei rispettivi paesi e dentro gli sfarzosi palazzi
istituzionali. Ovviamente non se ne fa alcuno sotto il sole agostano dentro un
campo di pomodori, dove i pascià dell’industria agroalimentare, multinazionali
della terra saccheggiata, agricoltori senza scrupoli e caporali delinquenti,
sfruttano dannati e miserabili per pochi euro costringendoli a sgobbare fino a
16 ore al giorno, e tenendoli segregati dentro luoghi indegni, spesso privi di
luce, di latrine, di acqua da bere. Non se ne fa alcuno lì, sui luoghi dove il
cibo si produce, quel cibo che dovrebbe nutrire
il pianeta, secondo la retorica truffaldina degli organizzatori, e dei
pubblicitari (la peggiore genìa che la modernità abbia prodotto). Perché nei
luoghi dove il cibo si produce, quel cibo è fatto di fatica, sudore e sangue, e
dunque lor signori se ne tengono alla larga. Non vogliono vederli quei luoghi,
e tanto meno gli uomini e le donne che concretamente su quei luoghi faticano
perché il frutto di quelle fatiche possa arrivare sulle loro mense.
Avevo in mente le terre
sottratte ai contadini da parte delle società straniere, le monoculture imposte
con la forza e che costringono alla fuga dai loro paesi milioni di uomini
rimasti senza la base primaria della loro sopravvivenza, gli ulivi secolari
falcidiati, il monopolio delle sementi, l’immorale distribuzione del cibo,
l’uso dei cereali per ricavarne energia, tutto questo e altro ancora avevo in
mente, prima di immettermi su quello che stucchevolmente e senza una punta di
ridicolo, è stato battezzato Decumano.
Avevo in mente la rapina
di Cina e India, di Europa ed America, divenute proprietarie di buona parte
delle terre del continente africano. Avevo in mente la cifra astronomica che
ogni anno gli stati spendono per le spese militari, e come il denaro speso per
questa fiera avrebbe potuto creare pozzi d’acqua, sementi, bonifiche, mezzi
agricoli da consegnare a chi non li possiede, a chi il cibo è negato.
Non mi aspettavo granché
neppure dal punto di vista delle strutture architettoniche. Ero rimasto
profondamente deluso dal modo come Milano aveva trattato i padiglioni
dell’Esposizione Universale del 1906, abbattendo stupidamente le magnifiche
realizzazioni liberty, che ne avrebbero fatto la capitale mondiale di quello
stile così brioso. Avevo avuto modo di vedere quelle realizzazioni, nelle foto
e in un video installati per il pubblico nella sede dell’Urban Center in
Galleria, in occasione della presentazione di una nuova edizione del mio libro:
“Milano città narrata”, e ne ero
rimasto affascinato come il resto dei presenti. E sapevo che a Rho si trattava
di realizzazioni effimere, provvisorie, destinate al loro smantellamento appena
la kermesse si sarebbe conclusa.
Perché ci sono andato,
dunque? Perché volevo verificare con i miei occhi come era stata trasformata
l’area profumatamente pagata (ottimo suolo agricolo) su cui sono sorti i
padiglioni. Per inciso, noi guastafeste di “Odissea” ci eravamo permessi di
segnalare una marea di strutture pubbliche già esistenti che riadattate
avrebbero consentito di decentrare l’esposizione e occupare a macchia di
leopardo aree diverse della città e dintorni. Quelle strutture avrebbero, dopo
l’esposizione, potuto servire per le funzioni più diverse e conservare la loro
utilità. Valga per tutte la vasta area dell’ex mercato dei fiori, del mercato
del pesce e del macello pubblico, da anni abbandonata; magnifica dal punto di
vista architettonico, centrale e servita persino dal passante ferroviario,
sarebbe stata anche un’ottima occasione per bonificarla dall’amianto e mettere
così al sicuro una parte affollata di città e che ha attorno a sé ortomercato,
deposito Atm, scuole, asili e persino sedi dell’Usl e dei vigili del fuoco. Ma
torniamo a Rho. Alcune cascine recuperate al meglio e senza stravolgimenti di
sorta; una piccola collina piantumata (gli alberi sono di per sé la forma più
gentile e armoniosa di arredo urbano); la fontana dove si erge “L’albero della vita” che però è una
natura morta meccanica; non le tanto contestate vie d’acqua poi travolte dagli
scandali, ma qualche piccola oasi acquatica che compare qua e là, tuttavia per
me la cosa migliore. Dove scorre dell’acqua si crea immediatamente un angolo
magico. E padiglioni di ogni tipo e foggia in cui si è sbizzarrita la fantasia
dei loro realizzatori.
Dal punto di vista della
coerenza due mi sono sembrati i padiglioni degni di nota, quello del Vaticano
incentrato sul pane e tutte le simbologie e sacralità che vi sono connesse,
compreso il significato della fatica, dello spreco, dello scarto e della
penuria (tutta roba che ci riguarda da vicino), e quello dell’Austria che ha
concentrato l’attenzione sul bene primario per eccellenza: l’aria. A questo
riguardo, è stato realizzato un vero e proprio bosco con 60 alberi e più di 12
mila fra piante ed arbusti, in grado di produrre più di 60 kg di ossigeno ogni
ora, e di assimilare 92 kg di anidride
carbonica al giorno. Saggiamente su un pannello esplicativo è stato riprodotto
questo efficacissimo ammonimento: “Puoi
sopravvivere 5 settimane senza cibo, 5
giorni senza acqua, ma non 5 minuti
senza aria”. Ne prendano nota i farabutti che ogni anno, in questa
stagione, bruciano e devastano ettari ed ettari di boschi, assassinando il più
prezioso ed umano degli esseri: l’albero,
e mandando in cenere la materia prima più importante della terra: l’aria.
Quanto al padiglione più apertamente critico, uno c’è: è quello della
Caritas. È un padiglione piccolo e
spartano composto dalla carcassa di una Cadillac oramai priva splendori,
circondata da una miriade di autentici filoni di pane. L’idea di questa
installazione-performance si deve all’artista tedesco Wolf Vostell, che l’ha
realizzata nel lontano 1973 e che si trova in permanenza al museo Malpartida in
Spagna. Inequivocabile nei suoi significati, questa installazione non ha
bisogno di ulteriori commenti. Mancano solo coloro che il cibo lo
producono, in questa Esposizione, i contadini: ma questo è solo un dettaglio.