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martedì 29 settembre 2015

La democrazia nel tempo dei populismi
di Giovanni Bianchi


I populismi non sono una novità
Ovviamente anche nel tempo dei populismi la democrazia è a rischio. Del resto è impossibile dimenticare l’ammonimento sturziano per il quale la democrazia non è un guadagno fatto una volta per tutte. E allora, anche nel tempo del populismo mediatico, si tratta di ricostituire un punto di vista a partire dai populismi odierni, con l’intento perenne di far dialogare intorno ad essi le diverse generazioni portatrici di un approccio e di vocazioni giustamente diversificate.
Una grande tradizione populista è rintracciabile nella storia degli Stati Uniti d’America, nelle culture politiche, nei partiti i elettorali, negli stessi sindacati.
Ma indubbiamente l’interpretazione più estesa e consistente del populismo si ritrova nel continente latino-americano e in particolare in Argentina. L’epopea del peronismo è paradigmatica e non manca di nulla. Il generale, l’icona femminile, quasi sacra, di Evita Peron, le manifestazioni oceaniche di piazza, le strutture organizzative che vanno dalla destra sindacale, cui fu attento il gesuita Bergoglio, fino alla sinistra più estrema ed armata dei montoneros guidati da Eduardo Firmenich, ora professore universitario esule a Barcellona. Venature populiste si ritrovano dunque in diverse formazioni e perfino nel kennedismo nordamericano. Si pensi a quella che continuo a considerare la pagina più alta della retorica politica del Novecento, costituita dal celebre discorso sul Pil di Bob Kennedy alla Kansas University nel 1968: il Pil non misura il costo delle nostre carceri e delle manette, così come il tenore affettivo delle famiglie americane…
Ma da dove guardiamo oggi al fenomeno populista in Italia?
A far data dalla caduta del Muro di Berlino del 1989, bisogna ricordare che l’Italia è l’unico paese al mondo ad avere azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa. Non è successo in nessun altro paese d’Europa.
I partiti erano l’organizzazione di una cultura politica popolare, lo strumento per la selezione della classe dirigente sui territori e in ordine alle istituzioni nazionali, un’organizzazione diffusa della quotidianità popolare. E basterebbe pensare ai festival dell’unità per rendersi conto di quanto la politica si fosse mischiata alla vita della gente e di come a partire da lì fosse in grado di costituire la figura del “militante politico”, sulle cui gambe ha camminato nel dopoguerra, sotto tutte le bandiere, la democrazia reale del Paese.
È il crollo irreversibile di questo mondo (ha sempre ragione Toynbee a ricordarci che le culture e le civiltà non vengono uccise, ma si suicidano) che ha spalancato autostrade e praterie ai nuovi populismi mediatici italiani.
Ad interpretarli aiuta un’espressione sintetica delle giovani sociologhe americane le quali affermano che oggi le politiche e i giovani politici si occupano di surfare le situazioni e i  problemi, così come giovani atletici e coraggiosi cavalcano sulla tavoletta del surf le onde immense dell’oceano, senza chiedersi granché sulla natura delle onde.
E’ questa la ragione per la quale oggi tutti i populismi passano attraverso i media, sono mediatici e rappresentano l’interpretazione mediatica della “politica senza fondamenti”, sulla quale le riviste italiane degli anni Ottanta  dibattevano e facevano previsioni.
Interrogandomi a mia volta sul tema e sulla situazione sono riandato a studi che feci nel 2000 in un saggio dedicato alla quotidianità. Allora avevo scelto come pesce-guida dello scandaglio Walter Benjamin e i suoi studi sul dramma barocco tedesco.
Ma si tratta di cosa troppo seria e comunque superata dagli eventi in corso e dalle tecnologie che hanno profondamente mutato non soltanto il comportamento e la percezione dei politici: Benjamin si occupava del Settecento e dei sovrani; noi invece dobbiamo fare i conti soprattutto con una vasta fascia di classi medie impoverite e con il ceto politico che esse esprimono.

Cicciolina
I nostri populismi vengano meglio affrontati e intesi nell’origine se si ricorre a un saggio di Francesco Alberoni pubblicato negli anni Sessanta con il  titolo L’élite senza potere.
Un saggio utilissimo e tuttora importante perché opera la distinzione tra la leadership e il divismo. Il leader è dotato di autorità, di carisma, deputato a governare. Il divo domina l’immaginario, affabula, non governa, è circondato di enorme simpatia e gli viene consentita la trasgressione. Una distinzione evidentemente superata dai fatti. Gli idealtipi e i personaggi si sono mischiati, con nessun vantaggio né per il leader né per il divo. Il punto di svolta, o se si vuole la “frattura”, in Italia la produce Marco Pannella con la candidatura e l’elezione al Parlamento di Ilona Staller, in porno-arte Cicciolina. Anche in questo caso l’elezione della Staller farà tendenza e aprirà autostrade più impolitiche che politiche.
Non a caso avremo da allora una sempre maggiore presenza degli uomini di spettacolo in politica: sia con teatri e trasmissioni dedicate alle vicende nazionali correnti, sia con la presenza sul terreno della rappresentanza di attori e soprattutto comici.
E’ anche utile dire che non si tratta di un fenomeno soltanto italiano, enfaticamente rappresentato da Beppe Grillo, ma di una sorta di mania internazionale. Una imitatrice di Cicciolina interessò qualche anno fa le cronache politiche spagnole, mentre il caso più clamoroso è quello del “pagliaccio Tiririca” in Brasile, approdato al Parlamento di Brasilia con 1 milione e 750 mila voti di preferenza e con un programma molto sintetico: “Non so cosa facciano in Parlamento, ma se mi eleggerete ve lo spiegherò giorno per giorno”.
E’ anche per questa ragione che è esplosa, in particolare nel nostro Paese, la discussione intorno al rapporto tra politica e antipolitica, spesso dimenticando che il confine tra politica e antipolitica è un confine estremamente poroso, ossia percorribile nei due sensi.

Gli ingredienti
Vi sono infatti ingredienti costitutivi insieme della nuova politica e dell’antipolitica.
La velocità infatti sembra  il criterio principe delle nuove politiche, in grado di offrire governabilità là dove la democrazia tradizionale produce lentezze ed ostruzionismi. Il problema ovviamente non è campato per aria ed alcuni costituenti, come Giuseppe Dossetti, se lo ponevano già in allora: come adeguare i tempi dell’esecutivo a quelli di caduta assai più veloce dei modelli economici e tecnologici.
Così pure il vincere, non avere ragione, pare essere la missione dei nuovi politici. Al punto che il campo della politica sembra diventato un campo di basket, dove si ama distinguere tra vincenti e perdenti. Il basket è un grande sport, ma la politica è e dovrebbe restare un’altra cosa. I criteri di giudizio, la capacità di critica e di aggregazione, la stessa filia di un partito, non possono discendere da questi criteri. La democrazia soprattutto richiede tempi di studio e di discussione dei problemi che male si accordano con la fretta delle decisioni e la mutevolezza delle emozioni. Troppe volte infatti il bagaglio espressivo del populismo mediatico sembra alludere a un antico esperimento dannunziano: i 18 mesi della Repubblica del Carnaro, che videro la città di Fiume trasformata in laboratorio e  palcoscenico di una messa in scena di sentimenti, esagerazioni e provocazioni che finirono la propria esibizione sotto le granate volute da Giolitti. Perfino il marinettismo dovette sembrare più castigato…
E ancora un’osservazione che discende dai rapporti interni alle diverse componenti del PD e alle sceneggiate che di tempo in tempo vengono esibite. In questo caso, oltre al populismo, funzionano vecchi meccanismi e astuzie della politica riconducibili al relativismo dei giudizi.  Non va infatti mai dimenticato che la statura di un politico viene normalmente misurata dall’opinione pubblica attraverso il confronto con quella dei suoi seguaci e avversari. Vale la regola arcinota per la quale i friulani sono i più alti tra gli italiani, ma se si confrontano in Europa con gli olandesi non possono che apparire di media statura. Credo che questo relativismo sia la ragione per la quale Renzi non abbia nessun interesse ad  estromettere dal partito gli oppositori. Perché gli appaiono come la dimostrazione palmare di quanto lui sia più veloce e vincente. Così il confronto con i concorrenti  e gli avversari mette in secondo piano quello con la realtà e la durezza dei problemi che stanno dietro la rappresentazione della realtà. La politica che ha deciso di governare le emozioni risulta assai più forte nella rappresentazione e rischia di mostrare la corda e la sua debolezza proprio nel confronto con la durezza dei fatti. Per questo torna in campo il termine surfare: essere bravi nell’equilibrio sopra la tavoletta è altra cosa rispetto al confronto con i problemi.
Lo showman tiene inevitabilmente il campo, ma proprio la sua abilità vincente rischia di impedirgli di intraprendere il cammino dello statista. Si torna cioè alla considerazione, che riguarda quasi in toto la politica italiana: i populismi mediatici governano le emozioni degli elettori prima e più (o anche al posto) dei problemi.
Si può danzare benissimo l’estate, ma l’estate è soltanto una stagione dentro un anno politico più lungo, e non privo delle rigidità dell’inverno.


Anche le politiche nuove discriminano
Anche le rappresentazioni della nuova politica possono discriminare. È così che la “rete” di Grillo finisce di fatto per escludere più del censo che consentiva agli inizi dello Stato unitario la partecipazione al voto nel nostro Paese di appena il 2% della popolazione. Anche per una difficoltà tecnologica delle vecchie generazioni, le consultazioni di Grillo raggiungono una platea di qualche decina di migliaia di elettori. E il resto? È colpa dei vecchi essere vecchi? E perché l’età avanzata dovrebbe impedire l’esercizio del voto e della cittadinanza?
Un lungo discorso andrebbe ripreso sull’antropologia degli italiani e sul suo modo di attestarsi oggi dopo le celebri diagnosi di Leopardi, di Prezzolini e di Guido Dorso.
Resta il problema di rifare ancora una volta i conti con la sostituzione nell’ambito della cittadinanza reale operata dalle nuove classi medie impoverite rispetto al popolo del secondo dopoguerra. Non è un problema statistico né tantomeno soltanto sociologico. È un problema antropologico che attiene alla politica: è un problema di analisi e riguarda l’organizzazione culturale di massa. Siamo richiamati a fare i conti con quella che oramai universalmente viene riconosciuta come la “società liquida” (Bauman). Società liquida alla quale rischia di corrispondere sempre più una politica ciarliera e gassosa.
Si pensi a come il cibo -riconosciuto universalmente come food- sia diventato uno degli ingredienti dei nuovi populismi, dal quale nessuna nuova ideologia o predicazione riesce a prescindere. Anche Radio Popolare ha deciso infatti di dedicarvi più di una rubrica pur rivolgendosi a una platea di ascoltatori di irriducibili della politica tosta e sicuramente fondata. Lo stesso e più deve dirsi del calcio, in tutte le sue versioni: il calcio come spettacolo, il calcio come filosofia, il calcio come borsa dei calciatori e dei loro stipendi, il calcio come rito di massa, il calcio come colla e motivazione degli oltranzisti della curva dello stadio. Il food e il calcio sono diventati infatti elementi portanti del nuovo pensiero unico generalizzato dal capitalismo come narcisismo acquisitivo (straparlando di merito e professionalità), e del nuovo populismo di massa che assimila e uniforma i comportamenti.
È patetico lo spettacolo che tutte le mattine di bel tempo si offre ai miei occhi nella sottostante piazza Petazzi. Antichi sestesi che hanno lavorato nelle grandi fabbriche e condotto dure lotte appaiono impegnati in discussioni accalorate e dottissime sulla filosofia del calcio e la borsa del campionato, dimentichi della politica di un tempo, approfittano di qualche pausa per scambiarsi informazioni sulla prostata…
E al di là del sarcasmo e delle celie, inviterei a non sottovalutare questa pedagogia di massa del populismo. Perché il modello educativo risulta comunque centrale nei populismi nelle diverse fasi storiche. Basta riandare al ventennio fascista e al contrasto con la Chiesa cattolica, dove le condiscendenze nei confronti del regime trovarono un limite  e terminarono con le leggi razziali e per l’avversione al modello educativo rappresentato dal Balilla. Fu il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, a dire ad alta voce durante una cresima ai ragazzini stipati nelle navate del Duomo: “Macché Balilla, voi siete soldati di Cristo”.

Una versione americana
Una versione americana del rapporto tra democrazia e populismo la troviamo in Walter Lippmann, che distingueva tra “massa confusa” (spettatrice dell’azione e non partecipante ad  essa) e “classe specializzata”, che si occupa dell’opinione pubblica. Pensava infatti Lippmann che “gli interessi comuni si sottraggono interamente all’opinione pubblica”. Una visione indubbiamente attenta, e particolarmente attenta al ruolo dell’élite.
Una visione in certo modo approfondita e rafforzata da Reinhold Niebuhr, che osservava, sulla medesima lunghezza d’onda: “La razionalità è una capacità davvero assai limitata”.
Insomma, il populismo dilaga dove minore è l’informazione e affievolito lo spirito critico. Posizione diversa da quella dalla quale osservava il fenomeno Walter Benjamin, quando procedeva all’elaborazione luttuosa della leadership usando gli strumenti del dramma barocco tedesco. Quindi rovistando nella storia, a differenza della tragedia dei greci che scandagliarla il mito. Con l’intento comunque di rinvigorire la virtù degli spettatori. Tradotto nella vulgata corrente, si dovrebbe dire che Benjamin usa gli strumenti dei “gufi”, non quelli degli “ottimisti”. Un approccio da non dimenticare è quello di Harvey Cox (1964) che pone il problema a partire dalla morte di Dio. Osserva Kox che alla spietata visione materialista del marxismo si è sostituita un’altra visione altrettanto spietatamente materialista. E non ci vuole molto a intendere che qui affonda le sue radici la vulgata del pensiero unico.
E vale ancora la pena osservare come tutto -immagini e slogan- viaggi non all’interno dell’antica propaganda, ma si serva degli strumenti della nuova pubblicità. Vedrò di fare ancora un paio di esempi.

Icone della quotidianità
Il primo esempio mi è stato suggerito dalla copertina del fascicolo di “laRepubblica” di mercoledì 23 settembre 2015 dedicato alla moda. Prima pagina: “Dalle sfilate arrivano abiti, borse e gioielli dallo stile neutro. Per parlare alle nuove generazioni”. Più sotto, sempre a caratteri di scatola: “Moda. Il futuro è no-sex”.
Il messaggio subliminale non mi pare né criptico né esaltante. Ed è essenzialmente rivolto a quanti, presi dalla professione e dalla corsa del dopo in carriera, scelgono con più decisione lo status di single.(La famiglia e il carico dei figli consumano troppo tempo prezioso.) Infatti nella seconda pagina troviamo un titolo sibillino: “L’era del vestito plurale”. Quindi: “Fluidità é la parola chiave del post-contemporaneo. Siamo in un’epoca di metissage completo, figlio di una proliferazione culturale che vuole uscire dall’ “igenismo” minimalista dei designer”.
Non siamo evidentemente al top della spiegazione facile. E mi è venuto in mente che già altra volta mi era capitato di pensare che lo sguardo più acuto sul populismo americano e mediatico fosse quello di David Foster Wallace nella raccolta di saggi pubblicata da Einaudi nel 2006  con il titolo Considera l’aragosta. L’autore di Infinite Jest (1281 pagine, note ed errata corrige inclusi) si produce in Considera l’aragosta, nel primo capitolo, in una descrizione ed analisi del festival dei film porno tenuto a Las Vegas. Le chiavi interpretative che David Foster Wallace fornisce sono insieme acute ed esilaranti: un modo divertente e geniale per interpretare uno degli aspetti del populismo americano. Ovviamente Foster Wallace non era pagato per fare della pubblicità. Torniamo invece in Europa e torniamo in Italia e torniamo pure al quotidiano “laRepubblica” di giovedì 24 settembre 2015. Sfogliate fino a pagina 41 dove vi imbattete nel titolo: “Lezioni di sesso alla danese. Fate figli presto”. Più chiaro il soprattitolo: “Svolta nei corsi scolastici per arginare il crollo del tasso di natalità. Ora si insegna che è meglio non aspettare a procreare”. L’articolo-reportage è serio e firmato da Andrea Tarquini.
Si fa osservare che programmi e materiali si adeguano sin dalle elementari, in Danimarca, per salvare lo Stato sociale. Il reddito minimo per chi ha figli può arrivare a 1760 euro al mese. Ogni studente riceve, in nome del diritto allo studio, un assegno di 700 euro ogni mese. Insomma più che a vendere oggetti alla moda no-sex, i danesi risultano preoccupati della loro scarsa natalità, e quindi si ingegnano a incentivare, anche fra i giovanissimi, la voglia di fare figli, supportandola con i contributi finanziari. (Nella cattolicissima Italia si provvede invece ad organizzare il Family Day.)
Mi chiedo se il populismo quotidiano che attraversa queste società liquide non si abbeveri assai di più a questi provvedimenti piuttosto che ai riti – pure essi populisti – della politica mediatica vecchia e nuova. E se andate col pensiero a un’Italia lontana vi accadrà di scoprire quanto populismo propositivo (i populismi non sono soltanto malattia ed epidemia) vi fosse nella campagna di promozione dell’Autosole, inaugurata il 4 ottobre 1964: 700 km da Milano a Napoli, per unire il Bel Paese e una penisola troppo lunga e troppo bella…
Parrebbe dunque inevitabile questa fase di populismi: diversi, propositivi o allontananti, tutti comunque dilaganti a tutte le latitudini. Personalmente trovo aspetti di sano e virtuoso populismo in alcuni discorsi del mio grande amico sestese Gino Strada, che ha fondato Emergency per attraversare le guerre, sanando le ferite dei più deboli e sfortunati, e che sostiene, anche in televisione, che gli uomini possono eliminare la guerra, così come hanno saputo eliminare la schiavitù. (Una testimonianza da vero premio Nobel.)  
Il problema, ancora una volta, è dotarsi degli strumenti per interpretare prima i fatti degli avvenimenti. Per difendersi dalle sirene populiste e sapere usare gli strumenti a disposizione.  Insomma, l’eterno problema di studiare per costruire un punto di vista.
Con il gusto anche di scoprire e magari divertirsi, affermando praticamente che non tutte le democrazie debbono per forza essere di umore saturnino. E che vale la pena di capire i populismi perché a loro volta non sono poca cosa nella lunga e incerta partita che stiamo conducendo tra governabilità e democrazia.