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mercoledì 25 novembre 2015

PARIGI

Il dibattito aperto sulla prima pagina di “Odissea” all’indomani
dai gravi fatti di Parigi, continua con questi due riflessioni
di Russo e Piscitello. Scritti che ci invitano alla prudenza e alla vigilanza: 
la posta in gioco, come sappiamo, è altissima. 
Altri interventi seguiranno e ne daremo conto volta a volta.

GUERRA E TERRORISMO, LE DUE FACCE DELLA STESSA 
MEDAGLIA.
di Cataldo Russo

Parlare di terrorismo non è facile. È uno di quegli argomenti che dovrebbe metterci in subbuglio le viscere e farci riflettere sulle nostre fragilità e, forse, anche sulle nostre colpe. C’è sempre stata una correlazione fra guerra e terrorismo. Anzi, credo proprio che siano le due facce della stessa medaglia, soprattutto quando si capisce che c’è una grande disproporzione, sia per quel che concerne gli armamenti sia il numero dei soldati, fra chi, in nome di un diritto (quale?) pretende di imporre agli altri il silenzio e l’obbedienza e chi non è disposto ad accettare ingerenze, ma non ha mezzi idonei per contrastarle. Mi sorprende sentire con quanta disinvoltura, forse anche incoscienza, si parli dell’argomento.  Non c’è stato canale televisivo e radiofonico che non abbia organizzato ore e ore di talk show sull’argomento, con centinaia di pseudo esperti, per lo più tuttologi, che si sono affannati, con un pensiero così corto che non andava oltre il loro naso, a spiegare il fenomeno e a suggerire la soluzione, la più rapida e la più radicale possibile.  Anche sulla carta stampata e sulla rete se n’ è parlato tanto. E anche in questo caso si sono sprecate le ricette fatte in casa su come affrontare e risolvere il problema alla radice.
In verità, quello che ho ascoltato non si è distinto un granché dalle normali discussioni che si fanno sul calcio il giorno dopo la partita, quando tutti si scoprono allenatori e dicono che si sarebbe dovuto fare così o colà. Solo che la posta in gioco questa volta non era una partita di calcio ma vite umane, stroncate senza un motivo in un venerdì novembrino; un venerdì che  doveva essere scandito da una cena, una pizza, una passeggiata, una partita di calcio internazionale, una performance teatrale, un concerto, un ballo. Insomma, le cose che di solito si fanno un venerdì sera, quando non si vede l’ora di togliersi gli indumenti di lavoro per tuffarsi nella vita sociale e ludica.
Otto terroristi, nati e cresciuti in Francia e in Belgio -questo a mio avviso è il nocciolo vero della questione, capire perché la serpe ci è nata nel seno- hanno sparato con fredda determinazione uccidendo persone la cui colpa era di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Condoleezza  Rise, 66° Segretario di Stato degli Stati Uniti sotto l’amministrazione del guerrafondaio George W. Bush, ha affermato  in una intervista: “Ci troviamo in un mondo in cui la possibilità del terrorismo, unita alla tecnologia, potrebbe farci pentire di aver agito”. Sono parole pronunciate non da una persona qualsiasi, ma da un Segretario di Stato di quel Presidente Bush che, pur di bombardare l’Iraq, non esitò un istante a costruire prove false per giustificare la guerra che aveva pianificato in ogni dettaglio. Peccato che alle parole della Rice non siano seguiti i fatti, ma la guerra.
Persino Bettino Craxi, parlando del terrorismo degli anni di piombo e dello stragismo, disse: “È nostra profonda convinzione che nessun sistema di prevenzione o di repressione del terrorismo potrà assicurarci la vita libera e pacifica alla quale aspiriamo, se esso non sarà combattuto con l’azione politica e diplomatica là dove esso nasce”. 


Il rigurgito terroristico che si sta manifestando a macchia di leopardo, se non proprio farci pentire per quello che abbiamo fatto in Afghanistan, Iraq, Libia, Tunisia, e in molti stati africani, dovrebbe, quanto meno, indurci a ripensare sul nostro modo di agire. Dovrebbe farci chiedere se la nostra strategia di voler esportare la democrazia con le armi, non crei poi quel substrato che determina rancore, odio, voglia di vendetta. Questi terroristi sono ragazzi, come ho detto, nati e cresciuti nell’Europa delle diseguaglianze, della disoccupazione, delle discriminazioni. Sono ragazzi che non si accontentano del poco, dei piccoli passi, del risalire la china lentamente, ma vogliono tutto e subito. Per loro vale molto di più vivere un giorno da leone che non 100 anni da pecore.
Da trent’anni a oggi una parte dell’Occidente, con l’America in prima fila, ha creduto che con le guerre lampo, le azioni chirurgiche, le bombe intelligenti si potessero insediare in stati considerati strategici, governi fantoccio.  Non è stato così e non lo sarà in futuro, perché le guerre, qualunque siano le giustificazioni, determinano quel substrato di odio che permette al terrorismo di attecchire. 
La storia ci ha abituati a fronteggiare situazioni riconducibili alle guerre convenzionali, dove eserciti mossi da interessi e motivazioni diverse, si fronteggiano secondo tattiche ormai cristallizzate sui manuali di guerra. Il terrorismo invece sfugge a qualsiasi logica, ci coglie di sorpresa, gioca sull’impreparazione, sul nostro senso di sicurezza.
In questi giorni gli specchi infidi dei nostri sensi di colpa e della paura vedono terroristi dappertutto. Basta una busta dimenticata perché scatti l’allarme, perché inizino le perquisizioni e le limitazioni delle nostre libertà. Il terrorismo è si guerra, ma guerra di nervi. È questo che i terroristi vogliono: logorarci. Se fossimo un po’ più avveduti e meno spavaldi e sicuri, dovremmo capire che tutte le volte che mandiamo missioni militari a interferire nelle situazioni interne di certi paesi  non facciamo altro che “svegliare il cosiddetto cane che dorme”, cioè il terrorismo.
In tutta questa storia ho sentito poche persone che si sono chieste perché un giovane o una giovane di vent’anni dovrebbe, a un certo momento della propria vita, scegliere di immolarsi? Qual è il meccanismo perverso che si inceppa nella testa? Lo fa solo per far piacere a un Dio, cui diamo i nostri sentimenti e la nostra sete di sangue, o per risentimenti e rancori verso una società che sembra avviarsi sempre di più verso l’esclusione anziché verso l’inclusione? 
La vera tragedia di oggi è costatare che un giovane di soli vent’anni  possa arrivare all’assurdo di  azionare il congegno che lo farà esplodere in mille pezzi convinto che sta compiendo una missione salvifica del gruppo e della religione di appartenenza.
La tragedia di Parigi, quindi, evidenzia i prodromi di una follia, una follia che è insita nelle sette religiose, che poi altro non sono che l’estremizzazione ad uso e consumo delle religioni. L’Isis agisce in nome e per conto dell’Islam perché non riesce ad elaborare un progetto politico serio e credibile. L’Isis uccide gratuitamente e terrorizza perché è un substrato di violenza e slogan, di malsana concezione religiosa e di assenza di un progetto politico e di cultura democratica.
Il terrorismo è uno stato patologico dell’uomo di fronte all’ingiustizia o a ciò che viene percepita tale. Dategli un ago a un terrorista e con quello farà la sua guerra. Dategli una ragnatela e con quella si costruirà il cappio.
Non sono le missioni degli eserciti, né le guerre lampo o le bombe intelligenti che possono favorire il seme della tolleranza e della democrazia, ma un risveglio delle coscienze in senso laico. Solo una sana rivoluzione laica, illuminista, non mossa dal rancore e dal desiderio di decapitare teste coronate, può effettivamente  controbilanciare il fanatismo religioso che toglie ai giovani, con la promessa di falsi paradisi, il diritto vero ad autodeterminarsi, emanciparsi e di urlare forte: libertè, fraternitè, egalitè.
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