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mercoledì 30 dicembre 2015

La provocazione dell’attualità
di Giovanni Bianchi

Il Quarto è stato
Schermaglie
Anche l'attualità è in grado di provocare. Figuriamoci il passato prossimo. Intorno alle nuove leadership si raduna una antropologia sempre più divisa e divisiva. Naufraghi dell'ideologia e del delirio narcisistico si aggrappano al ruolo come ad ultima tavola di salvezza. Nuove generazioni alla ricerca di un futuro non programmato e quindi introvabile.
Restano gli antichi giudizi sull'italica gente. Continuiamo a mancare di dimensione interiore e di classe dirigente. La corruzione è figlia della mancanza di dimensione interiore. Il ceto politico è figlio della mancanza di classe dirigente. La quale non può essere ridotta ai soli politici. Come non può essere riassunta in una leadership prestigiosa.
Se il problema centrale del Paese è per comune opinione il lavoro, perché non ci concentriamo sulla consistenza e la competenza degli imprenditori? Perché gli antichi padroni delle ferriere, i signori del fordismo, hanno deciso negli anni Ottanta di seppellirsi nel cimitero dorato dei finanzieri? Perché non mettiamo sotto la lente il sistema bancario -anche i banchieri sono classe dirigente-, le sue modalità di intervento in ordine allo sviluppo e al temperamento delle disuguaglianze?  Non sono una lobby di filantropi i banchieri tedeschi, ma il loro rapporto con le imprese sul territorio richiama molto da vicino la prassi che fu delle Casse Rurali ed Artigiane. Insomma le banche tedesche non si sono lasciate tutte risucchiare nell’universo finanziario e nella sua avidità, pur ovviamente avendo di mira, come tutte le banche del mondo, i profitti.
L’ultimo Raul Gardini aveva l’aria di ripetere: la chimica sono io. Se n’è andato tragicamente Gardini ed è sparita la chimica italiana, pur accreditata nelle previsioni di un ruolo preminente nella divisione del lavoro internazionale. C’è dunque un problema di rappresentanza che non riguarda soltanto le istituzioni democratiche. Una democrazia infatti cresce nelle sue rappresentanze civili prima di confrontarsi con la geometria delle istituzioni.  È questo il luogo dove è possibile discernere se ci si trova in presenza di un ceto politico, interessato a perpetuarsi, oppure di una classe dirigente decisa a mettersi in gioco.
Tanto più in uno Stato come il nostro dove, a far data dall’Ottantanove berlinese, è stato azzerato -unico Paese in Europa- tutto il precedente sistema dei partiti di massa.
In tal modo il cittadino italiano vive una condizione nella quale ad ogni tappa parlamentare si ricomincia tornando al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. E nel tempo medio-lungo il gioco è destinato ad annoiare e ad allontanare l'elettore. Mentre i residui paretiani delle culture politiche aprono cantieri che si rivelano il Luna Park delle nuove rappresentazioni mediatiche.
Quel che si è confuso è una distinzione proposta negli anni Sessanta da Francesco Alberoni, in un suo dimenticato libro dal titolo L’élite senza potere.[1] Un saggio tuttora utilissimo perché opera una distinzione preziosa tra la leadership politica e il divismo.
Il leader è dotato di autorità, di carisma, deputato a governare. Il divo domina l’immaginario, affabula, non governa, è circondato di enorme simpatia e gli viene consentita la trasgressione.
Una distinzione evidentemente superata dai fatti. Gli idealtipi e i personaggi si sono mischiati, con nessun vantaggio per il leader politico, chiamato a confrontarsi con competitori anomali su terreni per lo più impolitici.


Il punto di svolta, o se si vuole la “frattura”, in Italia la produce Marco Pannella con la candidatura e l’elezione al Parlamento nel 1987 di Ilona Staller, in porno-arte Cicciolina. Anche in questo caso l’elezione della Staller farà tendenza e aprirà autostrade più impolitiche che politiche. Non a caso avremo da allora una sempre maggiore presenza degli uomini di spettacolo in politica, sia con teatri e trasmissioni dedicate alle vicende nazionali correnti, sia con la presenza sul terreno della rappresentanza di attori e soprattutto comici.
È anche utile dire che non si tratta di un fenomeno soltanto italiano. Una imitatrice di Cicciolina interessò qualche anno fa le cronache politiche spagnole, mentre il caso più clamoroso è quello del “pagliaccio Tiririca” in Brasile, approdato al Parlamento di Brasilia con 1 milione e 750 mila voti di preferenza e con un programma molto sintetico: “Non so cosa facciano in Parlamento, ma se mi eleggerete ve lo spiegherò giorno per giorno”.
È anche per questa ragione che è esplosa, in particolare nel nostro Paese, la discussione intorno al rapporto tra politica e antipolitica, spesso dimenticando che il confine tra politica e antipolitica è un confine estremamente poroso, ossia percorribile nei due sensi.
Non solo le culture politiche si sono progressivamente sfarinate, ma appaiono inutili i volenterosi tentativi di ricostituirle. E un bilancio oramai doveroso pare dire che le perdite sono superiori ai guadagni.
L’incontenibile chiacchiera sulle regole non riesce infatti ad occultare il problema dei soggetti politici, che fu seriamente e tragicamente centrale in tutta la Lotta di Liberazione. Basterebbe a convincerci una rilettura veloce delle lezioni moscovite di Togliatti ai quadri dirigenti del Pci sugli strumenti del consenso messi in campo dal regime mussoliniano.
Usciamo da due decenni di ingegnerie istituzionali sulle regole ed è venuto il tempo probabilmente di occuparci con più attenzione dei soggetti politici chiamati a scendere in campo per giocare la partita. Le nuove leadership si collocano indubbiamente alla fine delle culture politiche e si presentano come emergenti da questa fine, non essendo certamente la causa della fine. Vincono lungo strade inedite, perché rompono con "l'eccesso diagnostico" (l'espressione è ancora di papa Francesco) e con la democrazia discutidora proponendo agli elettori il decisionismo dell'esecutivo.
Questo è il "bene" in nome del quale anche i più avveduti hanno scelto di rinunciare alle discussioni circa il "meglio". Un’apertura di credito che tuttavia non può durare a lungo soltanto con questa motivazione e che assomiglia sempre più al tifo sportivo: da una parte con Pierluigi Bersani i fans del Grande Torino, e dall'altra con l'ex sindaco di Firenze i fans della Nuova Fiorentina. Il problema che si pone è il solito: quale sia il luogo dal quale guardare alla fase attuale, alle tensioni che l'attraversano e agli esiti possibili. Avviare a soluzione questo problema non è un quesito astratto, perché ne discende insieme la sensatezza e l'efficacia del prendere posizione.


Il dilemma delle forme del politico
Tutto il discorso sulla Resistenza, sulla sua ampiezza, sulla capacità di coinvolgimento e sui soggetti, ma anche sui numeri, sulle classi, sui territori, sui ceti sociali, sui mondi regionali italiani come sul mondo cattolico, non può prescindere da alcuni concetti perfino elementari che il dibattito della politica politicante ha abbondantemente dimenticato.
Si tratta di ripetere che anche nella turboglobalizzazione non si entra come cittadini del mondo, ma con diverse e storiche identità nazionali. Se dunque non ci può essere patria senza popolo, ci può essere politica senza popolo?
C'è una crisi nelle forme del politico italiano della quale sembra doveroso preoccuparsi. È per questo che non si critica, non si prende posizione, ma ci si schiera come tifosi. Si può ad esempio lanciare l'idea di un "partito della nazione" senza interrogarsi su a che punto siamo in quanto italiani del 2015 con l'idea di nazione. Si può fare una politica popolare a prescindere da un qualche idem sentire in quanto popolo?
Dovrebbe oramai essere a tutti chiaro, dopo tante prove e tanti scacchi, che non è possibile fare politica soltanto a partire dalle regole. Il problema infatti restano comunque i soggetti. E pare oramai dimostrato che le regole in quanto tali non sono maieutiche dei soggetti.
Si è puntato sempre a cambiare le regole del gioco; i soggetti restano latitanti e quindi impossibilitati a giocare. Non è stata breve la stagione nella quale ci si è affaticati con l'ingegneria delle leggi elettorali a strutturare quello che un tempo veniva chiamato il quadro costituzionale e in generale tutto il campo delle presenze politiche lungo un viale che conducesse al bipolarismo.
Ci fu poi il tempo del partito "a vocazione maggioritaria", figlio di una teologia politica che ho sempre faticato ad intendere. E adesso la prua della politica italiana sembra dirigersi verso una formazione politica a vocazione egemonica, pensata come partito dalla nazione.
Ma anche qui torna comunque la domanda: ci può essere una nazione e un partito della nazione senza popolo? Non è necessario avere letto tutti i libri di Asor Rosa per essere inseguiti da un simile dubbio.
Chi lavora al popolo? I partiti non erano per Mortati, Capograssi, e anche per Togliatti il civile che si fa Stato? Era completamente fuori strada il leader del Pci quando sosteneva che quella italiana era una Repubblica fondata sui partiti, chiamati a surrogare una endemica debolezza dello Stato? Non erano in molti ad essere preoccupati della scarsa solidità delle nostre istituzioni, con la conseguenza del nostro tardo e lento farci nazione? Dove condurrà questo scialo di discorso politico disinteressato al senso storico e improntato a una sorta di marinettismo pubblicitario?


L'anniversario del 25 Aprile
Ha seminato perplessità la "leggerezza" del messaggio del governo e del parlamento sul settantesimo anniversario del 25 Aprile. Tutt'altro discorso dal Quirinale, quello antico e quello nuovo. Sergio Mattarella è risultato presente, puntuale, perfino didattico ed esauriente. Si è lasciato alle spalle una laconicità che pareva fare da contrappeso alle esasperate eccedenze del dibattito politico. L'intervista al direttore di "la Repubblica" è un saggio di spessore insieme storico e politico, e può ben costituire una mappa di lavoro.
Altrettanto ha fatto Giorgio Napolitano sul "Corriere della Sera", anche in questo caso evitando inutili celebrazioni per andare al nocciolo politico della storia e del problema.
Non lo stesso si può dire dei politici di nuova generazione, ininfluenti o assenti, forse perché la Resistenza non entra facilmente in un tweet o perché gli importa il potere e il suo esercizio più delle ragioni che consentono e consigliano il governo.
Eppure è un grave errore dei populismi e della politica in generale senza fondamenti questo disinteresse per le radici e soprattutto per le soggettività storiche. Così si riduce il messaggio politico a una sorta di fiera del bianco programmata dal vicino centro commerciale, dando l'aria di affidarsi a una fragile visione delle cose e del nostro futuro di nazione chiamata a costruire Europa.
Senza soggettività c'è solo pubblicità vincente, ma gli annunci pubblicitari non durano a lungo e non supportano una politica resistente nel lungo periodo. Va detto che sui contenuti resistenziali imposti dall'anniversario si è invece impegnata la ministra della Difesa Roberta Pinotti, che è arrivata ad inventare la premiazione dei partigiani superstiti assistiti da compite crocerossine in divisa, in una commovente cerimonia svoltasi al Ministero.

J. L. Borges
Un inedito che fare
Era Borges che scriveva: "Se potessi vivere un'altra volta comincerei a camminare senza scarpe dall'inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell'autunno. Farei più giri in calesse, contemplerei più albe e giocherei con più bambini, se avessi un'altra vita davanti a me. Ma come vedete, ho già ottantacinque anni e so che sto morendo". Appunto questo è il problema: sì, la vita bisognerebbe viverla due volte... Ma intanto?
Intanto è importante rendersi conto dei termini e delle stagioni in disuso. Tenere nel contempo le distanze dall'apocalittica e dall'iperbole.
Bisogna piuttosto avere il coraggio di riflettere sull'ironia della storia: la storia è siffatta che arriva talvolta a dare ragione a chi mezzo secolo prima si trovava con i piedi nel torto.
A che punto siamo nella fase in cui tutti siamo congedati dal Novecento?
Tutte le politiche in campo prescindono dal "progetto", come figura montiniana del pensare politica. Queste politiche muovono infatti da due cesure.
Si è già osservato che dopo l'Ottantanove l'Italia è l'unico paese al mondo ed in Europa ad avere azzerato tutti i partiti di massa. In secondo luogo l'ingresso del Partito Democratico italiano nella famiglia socialdemocratica europea chiarisce due cose: le culture politiche non organizzate svaniscono e si suicidano (Toynbee); non ci sono nodi gordiani da tagliare, si tratta piuttosto di prendere nota che i nodi non esistono più.
Tutto si muove all'interno di una polarità rappresentata dalla governabilità da una parte e dalla democrazia dall'altra. La tensione tra i due poli continua ad essere forte e i populismi ed i decisionismi stanno piegando il bastone tutto dalla parte della governabilità.
Orbene è chiaro che una democrazia senza governabilità fa deperire se stessa e si autodistrugge. Ma è anche vero che può darsi governabilità senza democrazia.
Il fatto curioso della fase è che una comunicazione onnivora riesce tuttavia a mantenere al proprio interno e nei rapporti con la pubblica opinione gli arcana imperii, con accordi e patti tra gli attori il cui contenuto viene tenuto segreto ai cittadini, chiamati a constatarne gli effetti e a schierarsi secondo la propria opinione. Ha ragione Christian Salmo: "Governare oggi vuol dire controllare la percezione dei governati".
La sindrome di Pasolini colpisce la democrazia: "Hanno considerato "coraggio" quello che era solo un codardo cedimento allo spirito del tempo". È bene collocarsi oltre l'eccesso diagnostico, ma è anche bene chiedersi quanto può durare la scelta ogni volta del bene invece del meglio.


Il compito preliminare
Costruire un punto di vista (condiviso) è sempre il compito preliminare. C'è chi auspica la redazione di un nuovo Codice di Camaldoli, non solo tra i cattolici democratici. Un problema di progetto e di programma che ovunque l'esperienza suggerirebbe di affrontare prima e oltre le alleanze, perché gli interlocutori non possono essere prefabbricati sul piano teorico. Ma allora, dove siamo? E soprattutto, chi siamo?
In mezzo c'è tutta la fase politica; quella "transizione infinita" che Gabriele De Rosa evocò negli anni Novanta e che stiamo tuttora attraversando. In mezzo c'è l'Ottantanove, la caduta del Muro e l'azzeramento in Italia dei partiti di massa.
Tornano i fondamentali della nostra storia nazionale: Togliatti che ripeteva che la nostra era una Repubblica fondata sui partiti; l'avvertenza che non esiste cultura politica se non organizzata. E adesso che si sono consumate tutte le culture politiche del Novecento?
Insomma, tocca ancora una volta constatare che resta in giro qualche richiamo della foresta, ma non ci sono più le foreste: per nessuno. Tutte le politiche che abbiamo di fronte sono "senza fondamenti", anzi lo dichiarano apertamente. Non hanno e non cercano un progetto, ma presentano una leadership decisionista e vincente. Le puoi giudicare solo a posteriori, dagli effetti, e non per rapporto a un disegno preventivamente esaminato.
Tutto si muove all'interno della polarità governabilità/democrazia. Senza governabilità -vale la pena ribadirlo- la democrazia deperisce e muore. Ma inquieta la circostanza che ci può essere governabilità senza democrazia. E se in questo quadro si fa ineludibile il confronto con il lascito, reale e costituzionale, della Lotta di Liberazione, la prima cosa da fare è misurare le distanze in questa fase dal sentimento del tempo di allora. La storia e le sue fasi non ritornano, ma le epoche -questo il suggerimento del solito Le Goff- sono destinate a dialogare tra loro.

Note
¹Francesco Alberoni, L'élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Vita e Pensiero, Milano 1963.  

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