ANCORA UNA VOLTA SULLA CORRUZIONE
di Fulvio Papi
Fulvio Papi (Foto: Fabiano Braccini, archivio Odissea) |
Che cosa è
successo al nostro Paese? Come ha potuto avvenire una mutazione antropologica
così radicale? Come è stato possibile in presenza della più forte sinistra
storica dell’intera Europa occidentale, e di una delle più robuste forme di
organizzazioni sindacali?
“Bella Italia amate
sponde
pur vi torno a
riveder
trema in petto e mi
confonde
l’alma oppressa dal
piacer”
Così scriveva il letteratissimo (salvo il greco
che non conosceva) e classicheggiante Vincenzo Monti. Quale effetto gli avrebbe
fatto sapere che l’Italia, quanto a corruzione, è superata in tutta Europa solo
dalla Bulgaria, terra, almeno nel sapere delle operette, delle più splendide
rose! E che a livello mondiale l’Italia occupa press’ a poco il 55° posto, un
posto che in qualsiasi classifica ciclistica, tocca a un corridore magari di
grande fatica, ma di modesto talento. Una descrizione socio-antropologica della
corruzione nel nostro paese richiede uno specialista. Per quello che ne può sapere
una persona che non si occupa direttamente di questi problemi essa investe,
politici che occupano vari ruoli nella “res
publica”, amministratori locali a diversi livelli, personaggi del mondo
bancario dal “cacumina fino a funzionari abili nell’imbroglio del povero
sprovveduto, imprenditori di varia estrazione, costruttori di manufatti
destinati al crollo o per i cedimenti del terreno inadatto alle costruzioni, o
per materiali scadenti, personaggi del mondo sportivo, impiegati che
considerano lo stipendio un’entità vitalizia o un diritto divino che non ha una
relazione con il lavoro, purtroppo anche funzionari che hanno compiti
istituzionali e in qualche caso, portano la divisa della Repubblica, qualche
magistrato qua e là colluso con poteri criminali, e poi le forme aggregate
della malavita, la mafia in abito grigio e la camorra capace di usare ancora le
armi, magari con la simpatia di qualche quartiere di città, dove il potere
camorrista è ancora una risorsa economica. Credo che vi siano poi molte altre
sottospecie che hanno loro particolari denominazioni sia a livello di
linguaggio comune che a quello propriamente giudiziario (fattispecie).
È uno spettacolo penoso e offensivo per quei milioni di
lavoratori che ancora oggi, magari con un basso entusiasmo, fanno il loro
dovere con una vita difficile e in sostanza senza riconoscimenti sociali. La
risposta morale a questa situazione, da parte di chi se lo può permettere, è
durissima e spesso comprensibilmente aggressiva. Il comportamento elettorale è
un sintomo.
Vorrei notare che nella storia del nostro paese non
mancano ricordi di corruzione anche diffusi, la corruzione immobiliare che
seguì il momento di Roma capitale, sino allo scandalo nazionale della Banca
Romana, la camorra con cui il potere governativo trattò per neutralizzare
l’effetto Garibaldi, i poteri mafiosi cui gli occupanti americani, dopo lo
sbarco in Sicilia, fecero ricorso per le amministrazioni locali, il costume
delle raccomandazioni “a buon rendere”, e ancora altro. Tuttavia non si trattava
mai di fenomeni che si potessero definire dominanti nella vita del paese e
tanto meno tali da configurare una sorta di diffusa antropologia sociale.
Oggi invece le cose stanno proprio così, e non mi sento
un catastrofista (un gufo, dice il presidente del Consiglio) se mi capita di
dire che questo è un sistema a riproduzione sociale largamente mafiosa. Con una
considerazione in più: questo non è un sistema oncostatico, capace cioè di un
suo equilibrio, ma è un sistema che, nel suo sviluppo, conduce a possibilità di
collasso.
Degli storici, le cui opere conosco, sono in genere molto
apprezzabili, temo di non conoscere nessun lavoro complessivo che faccia la
storia della corruzione in Italia. I fenomeni sociali e politici non hanno mai
una sola causa, al contrario ne hanno molte che interagiscono anche tra di loro
e delle quali noi conosciamo solo gli effetti. Nei confronti dei quali sorgono
comprensibili indignazioni pubbliche che, tuttavia, come tutti i sentimenti,
sono messi un po’ in crisi dall’abitudine. Non è possibile essere invasi ogni
giorno da una pubblica rabbia contro la vergognosa corruzione. Il sentimento
non prende la forma “politica” consentita dalle istituzioni, a loro volta
compromesse da un sentimento analogo, e prende la via della privatizzazione
della emozione morale, della chiacchiera abituale e qualche volta della
fiammata d’ira (fomentata talora da professionisti della guerriglia) che
tuttavia non può, per la sua stessa natura, ottenere alcun risultato.
Dicevo la storia. La prima Repubblica cadde per molte
ragioni, ma, fondamentalmente, per i doviziosi contributi che l’apparato
economico privato e pubblico elargivano ai partiti politici con un ovvio
scambio di interessi; i partiti, anzi le loro élites nazionali e locali
arricchivano e i sovvenzionatori avevano tutte le facilitazioni necessarie per
i loro affari. L’intrigo affari-politica prendeva una forma stabile e
consolidata sino a quando non divenne una pubblica conoscenza favorita da
un’azione giudiziaria che, di fatto, aveva l’appoggio di forze politiche che
non appartenevano ai tradizionali partiti della prima Repubblica. Fu il tempo
ormai famoso di “mani pulite” che con l’azione giudiziaria (probabilmente meno
clamorosa di quanto si pensa) e il largo sdegno dell’opinione pubblica, finì
con il provocare la crisi di tutto il sistema politico.
Non sono affatto uno storico e desidero solo ricordare un
mio breve colloquio con un alto esponente dell’allora Partito Socialista. Gli
chiesi: “Ma perché Craxi invece di fare quel discorso alla Camera che
coinvolgeva ogni parte politica nel reato di finanziamento illecito dei
partiti, non prese una iniziativa legislativa che poteva sanare il guasto promettendo
altre regole per l’avvenire?”.
La risposta fu molto breve: “Era ormai troppo tardi e la situazione,
nell’interesse collettivo, richiedeva un clamoroso capro espiatorio”. Non sono
in grado di approfondire con argomenti validi storicamente e non con
chiacchiere emotive, né la domanda né la risposta. Ciò che invece si sa, poiché
è conoscenza collettiva, che la corruzione non diminuì affatto, anzi prese
forme endemiche. I “reati” dei politici della prima Repubblica, al confronto,
sono molto meno rilevanti. La corruzione prese la strada delle diramazioni
private connesse con i denari pubblici, una situazione molto diversa dal
finanziamento illecito dei partiti. L’analisi di questo salto di qualità
sarebbe decisiva per comprendere lo stato attuale del paese (che non può
cambiare con le ottimistiche e corroboranti orazioni del presidente del Consiglio
e nemmeno con le limpide “lezioni di morale” dell’eccellente presidente della
Repubblica). La corruzione, in generale, aveva due vettori fondamentali tra
loro connessi: la diseducazione etica che per circa vent’anni si propagava
proprio dalle iniziative e dallo stile morale della élite governativa. Forse
non ci si fa caso, ma il governo di un paese è una fondamentale “agenzia” (come
dicono i pedagogisti) educativa. Il secondo punto è l’affermazione e la
diffusione di un individualismo “proprietario” (come disse un celebre studioso)
che era diventato il tessuto della vita sociale. La forma del potere politico
legittimava questo comportamento che era anche la sua risorsa elettorale, il
comportamento personale aveva la sua grande conferma nello specchio del potere
politico.
Questa combinazione nel potente moto sussultorio della fine della
prima Repubblica, fu certamente un elemento rilevante nella diffusione della
pratica della corruzione a livello sociale. Questo non vuol dire che in tutti i
luoghi, quelli politici, quelli produttivi, nella popolazione produttiva (a
tutti i livelli), non vi fossero persone oneste, ma esse non costituivano il
livello nel quale emerge lo stile di un paese. Per chi ha la fortuna di poter
avere uno sguardo lungo, non dimentica certamente la fierezza morale e il
coraggio con cui gli operai delle grandi fabbriche del Nord si adoperarono per
difenderle dalle possibili distruzioni dei nazisti. Era la difesa del lavoro
come risorsa ma anche come identità morale. Che, in misura e nelle forme
differenti, era presente nella scuola, nell’università, nei servizi pubblici e
persino nella salvaguardia dei diritti privati. Non era certo la perfezione,
magari, secondo un giudizio platonico, solo la sufficienza. Ma, nonostante la
“borsa nera” non era affatto un paese corrotto, aveva in vista la propria
ricostruzione, e la classe politica legittimava il suo ruolo con le vessazioni
e i rischi che aveva subito durante la dittatura. E non era un paese corrotto
nemmeno quando esplose durissima la contesa durante la guerra fredda, contesa
che oggi mi pare una vera catastrofe dovuta a una politica di fatto troppo
subalterna al conflitto internazionale. Ci fu talora una buona difesa contro
l’organizzazione criminale con onore per le sue vittime. Non fu nemmeno un
paese corrotto quando all’inizio degli anni Settanta, oltre alla contestazione
studentesca, vi furono profonde lotte sindacali. E non lo fu proprio negli
“anni di piombo” del vile e completamente stolto terrorismo locale. Il “virus”
più forte e più vicino.
Ora qualcuno potrebbe dirmi: allora che cosa si deve
fare? Credo che sarebbe molto presuntuoso e banale presentare pensieri propri
come terapie sociali e storiche. Sarebbe più che sufficiente -anzi un trionfo- se
su questi temi riflettessero tutti coloro che hanno il potere di agire senza
chiudersi nei privilegi delle proprie corporazioni. Evitando arcaiche retoriche
ideologiche, artifici da “captatio
benevolentiae” e, soprattutto, indifferenza: “Tanto io continuo a navigare
nella mia barchetta, anche se l’acqua è completamente inquinata”.