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martedì 19 aprile 2016

CENNI SUL MEDIORIENTE   
di Giovanni Bianchi

Disperati

The Med
Credo che la cosa di cui più soffriamo sia l’assenza di un punto di vista europeo sul Medioriente. Il Mediterraneo è diventato the Med (e non Mare nostrum) nell’ottica unificante anglosassone. Quella che funziona anche in questo caso, non soltanto lessicale, è dunque la logica imperiale Usa e quindi la logica della Nato. Una logica che sempre più stride e confligge con l’esigenza che avrebbe l’Europa di elaborare una propria linea di politica estera mediorientale, sia pure all’interno dell’alleanza atlantica visto che si sentiva rassicurato da essa perfino Enrico Berlinguer.
È infatti curioso che la linea di divisione che ancora attraversa i paesi dell’Unione sia quella che vede da una parte i “fondatori” e dall’altra l’infornata di paesi dell’ex blocco sovietico che sono entrati prima nella Nato e poi in Europa, e sono approdati nell’Unione pensando di andare in America…
Chi per tempo poneva all’attenzione nelle sedi deputate la difficoltà di continuare a conciliare logica tradizionale della Nato e logica della nuova Europa (tanto più dopo gli ingressi favoriti da Romano Prodi) era Giulio Andreotti. E infatti pesa tuttora in maniera fin troppo evidente la mancanza di una politica mediterranea della UE.  Abbiamo sprecato una grande occasione di riflessione quando abbiamo rimosso la guerra – tutta europea – nei Balcani Occidentali. Sarajevo forse nel cuore di qualcuno, come cantava la canzone, ma non nella testa dei responsabili d’Europa.  Dieci giorni prima dello scoppio delle ostilità ero dal vescovo di Sarajevo mons. Pulic, al termine della grande manifestazione dei pacifisti italiani guidati dalle Acli e dall’Arci di Tom Benetollo. Il vescovo era molto inquieto e stizzito. Era di ritorno da un santuario mariano della regione. Le ragioni del disappunto consistevano nel fatto che alla cerimonia in onore della Madonna erano presenti gli islamici, ma assenti gli ortodossi.
Giunse nel mezzo del colloquio con il vescovo un inviato di Izetbegović che ci invitò ad incontrare con urgenza il leader islamico, per la seconda volta nella stessa giornata dal momento che già in mattinata gli avevamo fatto visita.
Izetbegović ci attendeva sulla scala del suo palazzo. Il suo messaggio fu sintetico e drammatico: “Fate intervenire l’Onu. Qui salta tutto”! Ovviamente nessuno ci dette retta e dieci giorni dopo quella che era stata per decenni con Tito una convivenza riuscita si trasformò in un crudele mattatoio, facendo di Sarajevo la città martire della Bosnia-Erzegovina.

Opulenti

Prove di destabilizzazione
Un laboratorio di successive prove di destabilizzazione e crudeltà, ivi inclusa la prima armata internazionale islamica composta di reduci e transfughi afghani, libici e caucasici.
Abbiamo rimosso la guerra in Bosnia Erzegovina, con i suoi 250.000 morti, quasi fosse un problema dell’impero turco. Continuiamo a scrivere sui nostri testi scolastici che le guerre in Europa sono fortunatamente terminate nel 1945: l’ultimo fiume insanguinato dal sangue fraterno europeo sarebbe il Reno conteso tra francesi e tedeschi. Il Danubio e la Neretva non fanno parte della nostra geografia politica.  Abbiamo sprecato le primavere arabe non essendoci impossessati in casa nostra dei rudimenti dell’alfabeto che ci avrebbe consentito di leggerle. E adesso ci confrontiamo con Daesh.  Le ipotesi di soluzione prevedono una nuova geografia politica della regione. Dopo quattro anni e 250.000 morti (lo stesso numero, per ora, della ex Jugoslavia) e milioni di feriti e di profughi, siamo alle prese con migrazioni bibliche che ci trovano impreparati a gestirle. Probabilmente la situazione più emblematica è ancora quella dell’Iraq, che non esiste più in quanto Stato unitario.
L’ipotesi che si fa strada infatti è quella di ridisegnare la geografia politica di tutta la regione. Accanto al Kurdistan – che vede finalmente i curdi conquistare in tanto caos uno scampolo di patria, con le truppe più combattive sul terreno rappresentate dai peschmerga –  quelli che potremmo chiamare uno “Sciistan” e un “Sunnistan”: insomma un trattato e una pace di Westfalia in salsa islamica. Almeno gli studenti più diligenti ricorderanno i due trattati che a partire dal 1644 per approdare al 1648 posero fine alla guerra dei trent’anni, dopo una lunga e complessa serie di negoziati tra Impero, Svezia e Nazioni Protestanti a Osnabrück (sede delle delegazioni protestanti) e tra Francia e Impero a Münster (sede delle delegazioni cattoliche). Westfalia segnò la decadenza della Spagna, accrebbe la potenza di Svezia e Francia e riconobbe l’indipendenza delle Province Unite della Spagna e della Confederazione Svizzera dall’Impero. Ratificò la fine delle guerre di religione in Europa affermando l’ambito della libertà di coscienza (Google), a dimostrazione storica che Religione e Stato sono in grado di incontrarsi, trattare e addirittura commerciare tra di loro.


Disperati

L’Islam
L’Islam c’entra? Sì, l’Islam c’entra, e non solo perché terroristi e kamikaze urlano Allah Akbar, e non viva l’Iraq o la Siria. Ma perché storicamente le religioni e gli Stati si occupano della convivenza, sul piano privato come su quello pubblico, e in questi spazi contendono tra loro. Le opportune forme di laicità, delle quali godono l’Europa e gli Stati europei, sono un frutto storico, non piovuto dal cielo, ma conquistato da cittadini, di differenti confessioni e diverse fazioni, che hanno fatto progressivamente i conti con una religione e una coscienza civica che sono venute chiarendosi e consolidandosi nel tempo, non senza costi gravi e sanguinosi conflitti.  Non c’entra il Corano. Anche il Vangelo non c’entra: quello che usa e interpreta papa Francesco, e che appare così stellarmente distante dalle crociate e dall’Inquisizione.
Il cardinale Bellarmino – il più autorevole teologo del suo secolo e il teorizzatore della Chiesa cattolica in quanto societas perfecta – era della medesima compagnia di Gesù dalla quale viene papa Francesco.
Bisogna dunque tornare ad usare una scienza laicissima come l’ermeneutica: gli strumenti della geopolitica e le analisi socioeconomiche della globalizzazione sono indispensabili per intendere la complessità della fase, ma insufficienti.
Bisogna ritornare al protestante Bonhoeffer – martire antinazista della Chiesa Confessante – che ci ha insegnato a distinguere tra fede e religione. Perché la religione legittima l’ethos e talvolta incorpora l’idolatria. E la fede ha il compito di progressivamente purificare e purificarsi dalla religione. Perché l’idolo uccide, come scrive la Bibbia. Qui si evidenzia l’assenza di un processo culturale come quello compiuto dall’Europa illuministica. Qui anche il diritto annaspa e mostra tutte le distanze che ci sono tra diverse concezioni della donna, i diritti che le devono essere riconosciuti, con conseguenze che si rivelano così spinose nella vita quotidiana. Si faceva sesso consenziente a gogò anche a Trento-Sociologia o alla Statale di Capanna e Cafiero durante il formidabile Sessantotto, ma non c’erano gli stupri di piazza Tahrir. E più fatica a farsi strada l’idea dei diritti della donna (ma anche dei gay) nelle masse cattoliche che in quelle laiche. A dimostrazione che un’etica di cittadinanza, che implica un ulteriore processo di laicità, è costruzione faticosa di tutte le parti, così come si è verificato nel nostro Paese.

Opulenti

Panarabismo e panislamismo
Così pure va inteso il passaggio che le politiche arabe hanno compiuto dal panarabismo al panislamismo. Nasser, Saddam Hussein, ma anche Assad padre, si muovevano nell’orbita del panarabismo e del partito Baath, che, come è risaputo, ha avuto due fondatori: uno islamico ed uno cristiano.
Il panarabismo insieme all’unità araba recuperava quella della nazione. Il panislamismo agita invece la bandiera nera della Umma islamica. Il Baath aveva al suo interno un seme patriottico e illuministico. Il panislamismo no. Così come ignora l’attitudine negoziale.
La statistica qualche volta sorregge il ragionamento. Per questo ricordo che nei decenni in cui le Acli e l’Arci (con il silenzio favorevole della Farnesina di Andreotti) invitavano in Italia il leader palestinese dell’OLP Arafat, tra i palestinesi i cristiani raggiungevano il 12%; adesso sono l’1,2%, come informa padre Raed, attivissimo responsabile della Caritas palestinese. I nodi tra religione e politica chiedono di essere conosciuti e sciolti, proprio per la loro complessità.  E perché in qualche modo il cammino verso la libertà e la democrazia delle popolazioni arabe non ci veda dalla parte opposta della barricata.

Fanatici

Le tappe difficili ma necessarie verso “una comunità mondiale con un governo mondiale” (che era il sogno esplicito di De Gasperi e Spinelli) chiedono questa consapevolezza politica. All’Europa in particolare che, quando abbandona questo sogno programmatico, finisce per regredire essa stessa.  Se non conosci e non gestisci il limes europeo, se non lo rafforzi per aprirlo all’accoglienza di rifugiati e profughi e migrantes (per ragioni drammaticamente ambientali) finisci per regredire ai vecchi confini nazionali, come infatti sta accadendo in molti Paesi Europei: i più egoisti perché meno lucidi. Che vanno ripristinando e rafforzando e rilegittimando i vecchi confini nazionali (che si stanno rivelando tutt’altro che superati) in nome della paura, figlia della mancanza di progetto politico.
I confini dell’Europa che amiamo non si abbattono, ma si allargano progressivamente, per ragioni interne all’Europa medesima e per quelle che pone il disegno di un governo mondiale. All’Onu nel dopoguerra e a Bretton Woods la pensavano così. Per questo la nostra Costituzione è scritta in quel modo e continua a ricordarci che l’Italia ripudia la guerra.
Per questo, se non cammini avanti, non stai fermo, ma regredisci. (E il limes ti segue come un’ombra molesta nella marcia a ritroso.)
Vale per l’Europa e per il mondo globalizzato.