KEYNES E LE OPERE PUBBLICHE
di Fulvio Papi
Portare
a termine opere pubbliche che nel territorio hanno l’aria di manufatti
abbandonati per una foto che è molto più potente della loro progettazione e
della loro esecuzione, è, in generale, una buona idea. Come, in generale, dare
luogo a opere pubbliche nuove è una iniziativa da guardare, in generale,
positivamente. Quello che però non si deve dimenticare è che in entrambi i casi
ho introdotto una dimensione limitativa con l’espressione “in generale”. Poiché
l’agire costruendo può anche diventare la presunzione di ignoranti endemici
che, a orecchio, pensano di citare Keynes senza avere la più modesta
informazione sulla cultura con cui nasce il suo pensiero economico,
sull’insieme delle sue dottrine economiche, compresa quella importantissima,
sulla moneta, sulla qualità della sua vita nella Bloosbury di allora. È chiaro
che a questo punto, per evitare false generalizzazioni, è necessario un minimo
di analisi. È certo che esistono opere pubbliche incompiute sulla base di
decisioni che sintetizzavano uno stile di amministrazione che impiegava il
capitale al fine di ottenere posti di lavoro occasionali, alla ricerca di un
effetto demagogico per trovare consenso, un’approvazione superficiale e priva
di riflessione da parte degli abitanti di un territorio. Forse si potrebbe
conoscere, dico “forse” perché il discorso è ipotetico, quali e quante di
queste opere, nate da decisioni prive di una vera cura delle esigenze e delle
utilità sociali, si accompagnavano a territori abbandonati alle più inique
discariche. I due fenomeni possono avere una simile coesistenza sociale che è
propria di forme di corruzione, diverse tra loro, ma pur sempre corruzione. Una
specie di stile politico che distribuisce anche distinzioni, potentati, assegni
e abitudini. Contro i quali la reazione pulita, quando c’è stata, non ha avuto
una forza decisiva.
Questa storia sarebbe da
ricordare per le nuove opere pubbliche e, quello che per il passato dovrebbe
essere ragione di inchieste (ma certamente tutto in prescrizione, un salvagente
che vedrei volentieri del tutto eliminato), per il presente dovrebbe essere
motivo di giudizio intorno al rapporto tra spesa, utilità sociale,
moltiplicazione dei vantaggi, trasformazione positiva del territorio, occasione
per una occupazione lavorativa. Condizioni non impossibili da ottenere, anche
se in passato, in piena onestà e buona fede, si sono prese iniziative pubbliche
che, in prospettiva, hanno condizionato negativamente il territorio e anche la
forma della sua cultura.
Ma temi ormai ovvi, come
la distribuzione dell’acqua, la messa in sicurezza di tutto il sistema
idrogeologico, la trasformazione del sistema del trasporto, la adeguazione
delle città alle trasformazioni climatiche, la messa in sicurezza delle scuole
ecc. ecc., sono evidentemente prioritari. Se qualcuno pensa che non lo siano,
deve, come minimo, argomentarlo. Altrimenti c’è chi pensa che la spesa sociale
vada bene quando realizza un utile privato. Pensiero triste che assomiglia a
quello che insinua: “In politica si mettono solo quelli che pensano di fare
affari”. “Insinua” è un verbo ridicolo. Ma la critica seria, preparata
intellettualmente, capace operativamente, abituata a questo costume, dov’è?
Lasciamo perdere i tangheri selezionati legittimamente da un sistema (e su
questo bisognerà tornare) costituzionale che, ottimo nel pensiero, col tempo ha
finito per contraddire se stesso. Ma non riesco a prendere sul serio nemmeno
signori e signore di civile aspetto ma di palese modestia intellettuale che si
sono abituati a vivere di rendita sugli sbagli altrui, privi dell’ombra di una
forma di progetto politico (ci vuole una “concezione di mondo”). Sempre
fallibile, ma impegnativo molto di più che le quattro giaculatorie televisive
(sempre uguali) o l’atmosfera sonora in Parlamento simile a quella degli
antichi mercati del pesce delle cittadine di mare. Non so se il presidente del
Consiglio abbia sulle opere pubbliche un’idea che assomigli, anche un po’, a
quello che, troppo brevemente sono riuscito a dire. Molti dicono di no, e che
le illusioni di un tempo sono divenute nuvole in fuga. Ed è un peccato perché
altrove non c’è niente. E gli elettori, anche quelli che non sono animati da
spirito di vendetta o di risentimento, non sapranno che farsene della loro
“sovranità”. E questo è un altro tema sul quale riflettere molto seriamente
(anche da parte di coloro che per adesso hanno in comune le sedie più comode).