LIBRI
I RACCONTI DI GIORELLO
di Giuseppe O. Longo
Il 16 dicembre 2015 si è svolta a Milano, al Circolo Filologico Milanese, una presentazione incrociata di due libri: Il fantasma e il desiderio di Giulio Giorello, presentato da Giuseppe O. Longo, e Antidecalogo, di Giuseppe O. Longo, presentato da Giulio Giorello. Qui si riporta la presentazione fatta da Longo del libro di Giorello.
Giulio Giorello |
Nel delizioso racconto giovanile Il fantasma di Canterville (The Canterville Ghost, 1887), Oscar Wilde ci narra delle angherie cui è sottoposto un vetusto e dignitoso fantasma inglese da parte di due implacabili e cinici gemelli americani, che ai fantasmi non credono affatto e che con il loro scanzonato scetticismo portano lo spettro, che evidentemente esiste, alla disperazione.
I cinque racconti che compongono questo libro di Giorello sono improntati a un misurato razionalismo positivistico che, pur mettendoci in guardia contro le suggestioni troppo facili, tuttavia non disdegna di adottare quella che lo scrittore svizzero Peter Bichsel chiama “la sospensione dell’incredulità”, senza la quale ogni racconto viene distrutto dall’acido corrosivo dello scetticismo, impedendoci di godere di quella che è la vocazione per eccellenza dell’uomo: la narrazione. Ciascuno di noi, dalla nascita alla morte, non fa che narrare, narrarsi e farsi narrare un seguito incessante di storie, e l’esito di questo infinito narrare è la costruzione di un mondo semplificato, misto di fantasia e di realtà, più a misura d’uomo, in cui stiamo meglio che nel mondo dato, troppo complicato e impegnativo o, a volte, banalmente piatto.
In questo libro la sospensione dell’incredulità è temporanea, e l’autore - con una certa qual crudeltà - riveste subito i panni dello scettico, a mo’ del suo maestro spirituale Spinoza, protagonista del primo racconto, L’uomo di Gorcum. Se l’incredulità di Spinoza-Giorello ci riporta con i piedi per terra, rischia anche di toglierci quel sottile piacere, quel brivido di suggestione psicosensuale, quell’impalpabile godimento venato di masochismo che sempre si associa alla costruzione di un mondo fantastico e inquietante. E che importa se quel mondo non “esiste” nel senso comunemente associato a questo predicato? Anche le cose che non esistono, come nota Edmondo De Amicis nella prefazione al volume Il diavolo di Arturo Graf, hanno una forza immensa: come si spiegherebbero altrimenti i comportamenti bizzarri o addirittura insensati, ma realissimi e a volte sanguinosi, adottati dagli adepti di certe sette e religioni in base alle loro infondate credenze? Si aggiunga poi che, a quanto pare, noi siamo fatti per credere: dice infatti Giulio Giorello che “dai racconti sugli spiriti si capisce come gli uomini non vogliono narrare le cose come sono, ma come le desiderano”, restando impregiudicato il significato di quel “come sono” (poiché la realtà è inattingibile, ciò che ci appare è sempre il frutto di un compromesso tra oggetto e soggetto).
In effetti il mistero è sempre più suggestivo della sua soluzione: la spiegazione, proprio perché ha esorcizzato e smontato il mistero, ci lascia davanti alle ceneri fredde di quello che era stato un incendio affascinante. In fondo noi corteggiamo sempre l’indicibile, che è -paradossalmente- l’unica cosa di cui ci preme parlare: e se e quando l’indicibile diventa dicibile non c’interessa più, perché ormai è detto. Nei libri gialli lo scioglimento è sempre deludente e comunque inferiore alle aspettative dolcemente tormentose, specie in quelli che offrono una soluzione che si sarebbe potuta ricavare dagli indizi sapientemente disseminati dall’autore. Penso ad Agatha Christie, mentre del tutto diversi sono i romanzi di Simenon, in cui il commissario Maigret corteggia l’indicibile senza mai prendere una posizione definita e alla fine la soluzione offerta non è quasi mai la conseguenza imprescindibile di un meccanismo ben oliato, ma si ha la sensazione che sia uno dei possibili esiti di una serie di contingenze: forma aperta, che lascia al lettore una libertà interpretativa e costruttiva che somiglia molto all’atteggiamento che ci obbligano ad avere i casi della vita, semplici e indecifrabili.
La delusione che ci procura la spiegazione del mistero (che cessa di esser tale) è bene illustrata da un racconto che Giacomo Leopardi riporta nei suoi Pensieri:
Questo che segue, non è un pensiero, ma un racconto, ch’io pongo qui per isvagamento del lettore. Un mio amico, anzi compagno della mia vita, Antonio Ranieri, giovane che, se vive, e se gli uomini non vengono a capo di rendere inutili i doni ch’egli ha dalla natura, presto sarà significato abbastanza dal solo nome, abitava meco nel 1831 in Firenze. Una sera di state, passando per Via buia, trovò in sul canto, presso alla piazza del Duomo, sotto una finestra terrena del palazzo che ora è de’ Riccardi, fermata molta gente, che diceva tutta spaventata: ih, la fantasima! E guardando per la finestra nella stanza, dove non era altro lume che quello che vi batteva dentro da una delle lanterne della città, vide egli stesso come un’ombra di donna, che scagliava le braccia di qua e di là, e nel resto immobile. Ma avendo pel capo altri pensieri, passò oltre, e per quella sera né per tutto il giorno vegnente non si ricordò di quell’incontro.
L’altra sera, alla stessa ora, abbattendosi a ripassare dallo stesso luogo, vi trovò raccolta più moltitudine che la sera innanzi, e udì che ripetevano collo stesso terrore: ih, la fantasima! E riguardando per entro la finestra, rivide quella stessa ombra, che pure, senza fare altro moto, scoteva le braccia. Era la finestra non molto più alta da terra che una statura d’uomo, e uno tra la moltitudine che pareva un birro, disse: s’i’ avessi qualcuno che mi sostenessi ‘n sulle spalle, i’ vi monterei, per guardare che v’è là drento. Al che soggiunse il Ranieri: se voi mi sostenete, monterò io. E dettogli da quello, montate, montò su, ponendogli i piedi in su gli omeri, e trovò presso all’inferriata della finestra, disteso in sulla spalliera di una seggiola, un grembiale nero, che agitato dal vento, faceva quell’apparenza di braccia che si scagliassero; e sopra la seggiola, appoggiata alla medesima spalliera, una rocca da filare, che pareva il capo dell’ombra: la quale rocca il Ranieri presa in mano, mostrò al popolo adunato, che con molto riso si disperse.
Non si può non credere che nel molto riso del popolo vi fosse, oltre al sollievo, anche una punta di frustrazione!
Nei suoi racconti, Giorello esita tra il razionalismo alla Spinoza e la nostalgia della credulità (come in Le foglie della Sibilla, titolo che richiama un distico del XXXIII canto del Paradiso): perché, come nota l’autore nel Prologo, forse non siamo noi che diamo vita ai nostri fantasmi, bensì da loro prendiamo vita, cedendo -sottilmente- al desiderio di desiderare di credere in essi. Su questo desiderio del second’ordine si basa l’adesione, sia pure provvisoria, che ci suscitano i racconti dei grandi maestri anglosassoni: Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) e Montague Rhodes James (1862-1936), che l’autore prende a maestro e donno. Altrettanto magistrali sono peraltro i racconti di fantasmi dovuti alla penna di Henry James (1843-1916), tra cui memorabile per la sua impalpabile evanescenza Il giro di vite (The Turn of the Screw, 1898), e di Edith Wharton (1862-1937).
Se, come annuncia il titolo, i fantasmi -questi ectoplasmi diafani ed elusivi, queste apparizioni quasi sempre serotine o notturne e quasi sempre drappeggiate in bianchi sudari- se gli spettri sono, sotto una forma o l’altra, i protagonisti dei cinque racconti del libro, è anche vero che non tutti i fantasmi che vi appaiono (è il caso di dirlo) ne hanno i connotati classici. Alcuni si rivelano volgari impostori (L’uomo di Gorcum), altri conservano il loro statuto di spiriti capaci di influire sulla realtà materiale tramite l’equivalente fantasmatico ma concretamente marmoreo di una ghiandola pineale a forma di spada (L’angelo geloso), oppure si materiano in effigi granguignolesche (La testa di moro), o scaturiscono dalle profondità abissali di deliri matematici che a volte sono più pericolosi e gravidi di conseguenze nefaste per l’equilibrio mentale che non i vaneggiamenti delle cantafavole (Le foglie della Sibilla), o infine rivelano una natura tutt’altro che spettrale e si dimostrano capaci e vogliosi di fornicare e di uccidere (Fuoco nella pianura).
Gli aspetti ironici, parodistici e addirittura comici irrompono nei punti dove la tensione narrativa rischierebbe di trascinare il lettore all’interno di una credulità troppo corriva, agevolata dalla suggestione di certe atmosfere e di certi ambienti (la locanda del Tapiro Rosso dove alloggia l’io narrante delle Foglie della Sibilla o il Palazzo stregato, pregno di lascivia, di Fuoco nella pianura). Insomma, l’autore è sempre pronto a invitarci a una seduta spiritica salvo poi rivelarci che si tratta in effetti di una bevuta in compagnia.
Può tuttavia sorgere il dubbio se i fantasmi siano, come ho affermato sopra, i veri protagonisti del libro: un’altra interpretazione possibile è che il vero protagonista sia il corpo. A volte si tratta di un miserevole nano che corre per la campagna all’imbrunire su un paio di trampoli per piegare l’incredulità di Spinoza (L’uomo di Gorcum), oppure di una creatura mostruosa, un vero e proprio sgorbio dalla testa gigantesca issata su un corpicciuolo rachitico e nascosto da un saio (Fuoco nella pianura); a volte si tratta invece del corpo di una donna non più giovanissima, ma ancora formosa e desiderabile, che si abbandona ad amori servili (La testa di moro). Nell’ultimo racconto (Fuoco nella pianura) il corpo diventa primo attore indiscusso, presentandosi nelle forme della bella archivista, obbligata a portare una seducente giarrettiera dal nastro rosso e colta in momenti di solitaria intimità e nudità; nella figura di donna che compare in un quadro, nuda e accovacciata in mezzo alla campagna, in una posa quanto mai provocante; e infine nell’arciere, l’orrendo gnomo macrocefalo coperto dal saio, di cui ho detto e che si rivelerà un turpe stupratore e assassino.
Del resto non stupisce che il corpo sia comunque e sempre il protagonista, poiché noi siamo il nostro corpo: nasciamo, cresciamo, godiamo, soffriamo e moriamo con e nel corpo, che resta il baluardo ultimo della nostra identità (non è un caso che le prospettive aperte dal post-umano siano più meno tutte variazioni sul tema del corpo e delle sue trasformazioni). Nell’Angelo geloso si narra della morte dello scrittore Peter George, il cui corpo è trafitto dalla spada di marmo dell’angelo, e nelle Foglie della Sibilla è il corpo del matematico Corrado Bozzolo che viene ritrovato in mare, straziato dagli scogli, smangiato dai pesci e squarciato da qualche altra entità cui, ovviamente, ci rifiutiamo di credere.
Queste aperture sugli aspetti raccapriccianti e cruenti legati alla corporeità fanno pensare a Edgar Allan Poe (1809-1849) e soprattutto allo scrittore che forse più d’ogni altro ha descritto l’orrore che da un istante all’altro potrebbe scaturire dalla realtà in apparenza innocua che ci circonda: Howard Phillips Lovecraft (1890-1937). Ma non si possono trascurare altri interpreti delle infinite variazioni sul tema del corpo: Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann (1776-1822), con i suoi racconti di meravigliosi automi, in particolare bambole meccaniche talmente perfette da ingannare i giovanotti che di loro s’innamorano perdutamente (ma Hoffmann di solito spiega l’arcano o vi allude, palesando i trucchi della meccanica onirica e tenebrosa che sta dietro le sue creature artificiali); Mary Wollstonecraft Shelley (1797-1851), che nel suo straordinario romanzo gotico Frankenstein, o il moderno Prometeo (nelle varie edizioni del 1818, 1823, 1831) imposta il tema del corpo e della vita secondo le teorie scientifiche allora dominanti, basate sull’elettricità come motore dei fenomeni vitali: tanto celebre fu questo romanzo da entrare nell’immaginario collettivo e da spingere la (pseudo)cultura popolare a usare il nome del protagonista, il barone Victor Frankenstein, per qualificare in negativo certi prodotti della tecnologia attuale.
Anche la robotica attuale si misura ovviamente con il corpo, e mi preme qui accennare al concetto di perturbante, introdotto da Ernst Jentsch (1867-1919) e analizzato a fondo da Sigmund Freud nel suo trattato Das Unheimliche (1919). Il perturbante è, detto assai rozzamente, ciò che caratterizza il nostro atteggiamento di fronte a certi oggetti o situazioni che sono insieme familiari ed estranei: come davanti a una figura ambigua, che si offre a due interpretazioni percettive diverse, tra le quali non si sa scegliere. Il tema del perturbante è stato introdotto in robotica nel 1970 dallo studioso giapponese Masahiro Mori, il quale ha sostenuto, plausibilmente, che al crescere della somiglianza che un robot umanoide presenta con un essere umano, la nostra “simpatia” per il robot aumenta. Ma se la somiglianza supera un certo livello, entriamo in uno stato di confusione, poiché da una parte vediamo che si tratta di qualcosa che ci somiglia e al quale dunque siamo portati ad attribuire caratteristiche umane, dall’altra sappiamo che si tratta di un artefatto, al quale dunque non possiamo attribuire caratteristiche umane. A questo punto la nostra simpatia subisce un calo improvviso e questa caduta è stata chiamata da Mori avvallamento del perturbante (Uncanny Valley in inglese). Se poi la somiglianza continua a crescere, l’avvallamento si supera e la simpatia torna a crescere. Resta da vedere se queste idee si possano applicare ai fantasmi, agli spettri e alle apparizioni.
La copertina del libro |
Chiude il libro di Giorello un sostanzioso Epilogo, intitolato Spettri scarni e altro, in cui si propone, come rimedio sovrano contro le visioni e gli incubi notturni, la birra, il porto e il whiskey. Protagonista indiscusso di queste ultime pagine è Montague Rhodes James, che l’autore assume come... spirito guida nel suo percorso attraverso le strade inquietanti che serpeggiano dai cimiteri campestri delle brughiere inglesi o irlandesi alle mura dei castelli danesi. A proposito: se lo spettro del defunto Re non è visto solo da Amleto, ma anche da altri, si tratta di un’allucinazione collettiva oppure di una prova di realtà? A suffragare la seconda ipotesi stanno le rivelazioni del fantasma sulle circostanze della propria morte, benché si possa far credito agli spettri di possedere cognizioni che non richiedono l’attributo della realtà. In fondo se, come predica Berkeley, esse est percipi, ogni apparizione esiste in quanto tale, e, ignorando le sottigliezze filosofiche, il fantasma dell’opera shakespeariana agisce senza bisogno di esistere nel senso usuale, e banale, del termine.
Citando il racconto Una vista dalla collina di James, Giorello accenna alla possibilità che certi strumenti ottici consentano di scorgere oggetti che a occhio nudo non si vedono: allora esistono o non esistono, questi oggetti? Non può non venire in mente la tecnologia della realtà aumentata, in cui la visione offerta da occhiali speciali giustappone alcune informazioni supplementari agli oggetti contemplati: una mirabile conferma di quanto sosteneva Borges, cioè che il mondo è arricchito dalle finzioni. Un mondo consistente nei soli oggetti concreti sarebbe ben misero e ciò consente all’autore di motivare la propria giudiziosa posizione di scettico moderato, che rifugge dagli opposti estremismi del vero credente e dello scettico integrale. Se per i suoi preconcetti lo scettico integrale si nega le gioie e i brividi che offrono le infinite sfumature possibili della realtà, il vero credente sviluppa l’ossessione delle prove inconfutabili, magari basate su misurazioni di campi elettrici e magnetici e su registrazioni video e audio, e, procedendo da preconcetti opposti a quelli dello scettico integrale, ma altrettanto incrollabili, elimina ogni sorridente ironia dalla realtà in cui vuole credere e si rintana in una inospite caverna fattuale, attrezzata con le inossidabili apparecchiature dei cacciatori di fantasmi. Che cosa poi sia la realtà resta uno di quei misteri che, come dice George Steiner, rendono la vita degna di essere vissuta... L’ultimo grido della moda, propugnato dai corifei della filosofia digitale, afferma che l’essenza del reale è l’informazione: non bosoni e fermioni, non quarks e leptoni, bensì sciami di bit animati da un’incessante computazione. In questa visione l’Universo è un Grande Computer e Dio, smettendo i panni antiquati del Grande Architetto e del Grande Orologiaio, diventa il Grande Programmatore.
Adottando l’informazione come principio primo, forse si potrebbe affrontare il problema dell’immortalità dell’anima individuale in modo nuovo: a meno che non finiscano in un buco nero, i bit non si distruggono e quindi l’anima (necessariamente composta di bit) sopravvivrebbe alla morte del corpo (altro aggregato di bit) e vagherebbe negli spazi siderali stimolata dalla computazione di fondo, fino a trovare, per una felice o infelice combinazione, un corpo in cui reincarnarsi: un corpo da animare proprio nel momento dell’incontro tra ovulo e spermatozoo. Chissà se questa versione vagamente platonica dell’immortalità dell’anima sarebbe stata accettata anche da Spinoza?
[Gorizia 25-26 dicembre 2015]
Giulio Giorello
Il fantasma e il desiderio
Mondadori, Milano, 2015
pagg. 120, € 18,00