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giovedì 19 maggio 2016

VOTO E SOVRANITÀ
di Fulvio Papi

Nella foto il sociologo Franco Rositi


Alcuni anni fa il prof. Franco Rositi, ottimo sociologo che meritava una maggiore attenzione, fece questa osservazione: le motivazioni che conducono i votanti a una scelta elettorale sono sempre molto ampie e talora imprevedibili: reazioni emotive, pigrizie psicologiche, conformismo di gruppo, dipendenze familiari, dispetti, risentimenti, sfoghi di rabbia, decisioni segrete e inconfessabili, riflessioni politiche. Sono poi i commentatori che, di fronte ai dati quantitativi dei voti danno luogo a processi di razionalizzazione secondo quei criteri che sono emergenti dalla loro professione e che confermano che un sistema democratico è un sistema di convenzioni legittimate, le nostre disperse soggettività diventano figure idonee alla scena politica. D’altra parte anche una qualsiasi proposizione scientifica, a parte gli effetti del tutto diversi, richiede una trasformazione del genere. In più ogni votazione è sotto la protezione dell’antica concezione della modernità secondo cui è in gioco la “sovranità della volontà popolare”. Il sostantivo “sovranità” dovrebbe da solo suggerire prospettive storiche. Tuttavia qualche ricordo in più che spieghi meglio il significato della proposizione non è futile. La volontà popolare può nascere come bandiera dei ceti borghesi contro i privilegi regali, può essere la bandiera che a Valmy salvò la rivoluzione, può essere la battaglia di metà Ottocento per le costituzioni, può essere una civile competizione che evita il conflitto, ma anche l’argomento che giustifica ogni legittimazione del potere: Hitler vinse le elezioni con il 43 per cento. E paradossalmente potrebbe capitare che alle elezioni comunali con una percentuale del 20%, un signore con meno del 7 o 8% (teniamo conto dei ballottaggi) può diventare il primo cittadino, essendo magari, solo un capobanda ben organizzato. Un principio etico non è uguale a un assioma matematico, e quindi può essere discusso nei suoi ipotetici effetti. Per esempio sono convinto che gli affezionati al potere (e ai suoi vantaggi) sono sinceramente convinti che il 32 per cento dei votanti per il referendum sulle famose piattaforme marine, seguì la loro vittoria poiché hanno consigliato l’astensione. Dal punto di vista che desiderano adottare hanno ragione. Ma gli sarà mai capitato di leggere qualche storico greco secondo cui “oi polloi” (i più) non hanno affatto sempre ragione? Almeno come sospetto è una questione di stile tenerlo presente, infatti è molto probabile che i perdenti siano giovani con gli occhi aperti sul mondo, persone che hanno una cultura ecologica, sociologica, ambientale, economica (a quali energie si rivolgono oggi i capitalisti?). Sono persone che si domandano quali alleanze vi sono tra petrolieri e costruttori di auto che da tempo potrebbero funzionare con altri sistemi energetici. È un peccato che chi governa debba farlo contro questa parte più preparata sui temi contemporanei, e più disponibile alla democrazia. Non desidero affatto fare calcoli, previsioni e ipotesi che vanno lasciati ai profeti televisivi, ma facendo qualche calcolo primordiale tra le astensioni e i voti espressi, fossi al posto di chi comanda (un tono più signorile e problematico non farebbe male) avrei qualche inquietudine. Magari non solo per i numeri, poiché anche i liceali sanno che Tocqueville temeva la dittatura della maggioranza, e Stuart Mill temeva per la libertà personale, nell’Inghilterra conformista, puritana e coloniale. Sono del tutto disposto a pensare che la risposta dei vincitori non sia “io me ne infischio perché sono la provvidenza”. (Per carità leggere subito i Vangeli). E allora?