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domenica 3 luglio 2016

LIBRI
LA POESIA DI CURTO
di Annalisa Saccà

Presentato all’Università per Stranieri di Perugia il 24 giugno scorso, “Il vento del Mucone” del poeta calabrese Francesco Curto. Quella che qui pubblichiamo è la Relazione tenuta da Annalisa Saccà.

Nella foto il poeta Francesco Curto
                 
Sappiamo tutti che tradurre è tradire perche un testo è e rimane sempre intraducibile. Si tradiscono le sfumature del contenitore, il segno, ma anche il senso del contenuto, la sua essenza, e soprattutto si tradisce il ritmo, quell’armonia e intonazione che appartiene ad un linguaggio e solo ad un linguaggio. E allora perché ho scelto di tradurre la poesia di Francesco Curto?
Perché era come raccontare me stessa attraverso la sua poesia. Francesco ed io abbiamo in comune la nostra non appartenenza a una terra che ci ha visto nascere e che adesso ce la portiamo dentro, tersa nella sua atemporalità, e rivestita di ricordi e di gesti pieni di luce, di profumi ma anche di ombre e di dolore. Infatti, é uno stato di sospensione il nostro, quello dell’emigrante in bilico tra due mondi, il mondo del divenire rappresentato dalla nuova terra che lo ha accolto e per la quale si è impegnato e ha lottato per trasformarla in pane della sua quotidianità, e il mondo dell’essere, la terra lasciata che l’ha generato e abita il suo sangue come un abitudine mai dimenticata. Di questi due mondi tratta la poesia di Curto che si muove dentro un respiro, rappresentato, come ho scritto nella prefazione e a cui farò riferimento altre volte, dal soffio del vento, il vento del Mucone. Il vento serve da tramite a passare da uno stato in luogo ad un altro, infatti  ho parlato di poesia della contiguità e della distanza dove il “qui ed ora” traduce la sua poesia al presente, il suo impegno sociale, l’amore, il senso del tempo che scivola via  e il riflettere sul proprio stato d’animo, mentre il “là ed allora”, quella che ho definito leopardianamente “la poesia degli idilli” è la poesia della reminiscenza e della rinuncia al ritorno. Francesco ed io, abbiamo entrambi rinunciato al ritorno per non rinunciare alla nostra terra, al nostro mondo fatto di terra e di volti e per non rinunciarci l’abbiamo trasformato in mito.
Si staglia cosi all’orizzonte della reminiscenza, la terra, il  paese di Francesco, Acri, rivissuto ed esperito in tutti i suoi profumi e sapori, dolori e gioie, colori e stagioni. E le immagini della terra si sgranano come un rosario, come quella dei vecchi al sole con i loro rimpianti, delle donne con le mani nere sciupate, delle cattedrali di pini, della musica di un ruscello, ma soprattutto s’erge sulle altre quella di Padia, quartiere d’Acri dove lui è nato:

Padìa era un mucchio di case
e di gente
i catuoj aperti al sole
diradavano sentori di muffa.
I telai sbattevano
come ali di farfalle prigioniere
mentre forni
cuocevano pane e fichi secchi.
Padìa era schiamazzi di bestie
rumore di bambini
silenzi di piedi nudi.
I panni stesi al sole
bandiere di tregua alla sera:
Padìa era insieme dolore
e una festa per tutti.
Ragazzi allegri dentro calzoni
rattoppati
vetri rotti
e mele acerbe rubate alla notte.
Padìa erano campane di novene
rintocchi a lutto
urli di stagnini e capellari.
Padìa era vento di Mucone
olive ammassate nei frantoi
eco di spari
e ripetizioni di catechismo.
Padìa erano i vecchi
segnati dalla guerra
e giovani minatori in odore di silicosi.
A sera Padìa era un tressette
per tutti
una bottiglia di vino
spezzata con una gassosa.
Padìa era il brigante di notte
e il gioco ai bottoni:
Padìa è un mucchio di case oggi
e più niente.

Francesco Curto

Padia. Nominarla è ricrearla, rifarla. Fare è poiein, la poesia include la stessa radice di poiein. E a proposito è interessante ricordare il discorso di Erri De Luca quando parla del senso primigenio della scrittura. Le parole vengono dentro il fiato dice lo scrittore e la lezione viene dalla Bibbia, quel “libro dove la parola è azione:”

Ma pensa, a un certo momento proprio all'inizio della Bibbia c'è scritto Dio dice: "Sia luce", e poi la luce avviene. Ma perché dice "Sia luce". A chi lo dice? Non c'è nessuno. Ha bisogno di dirlo? Non poteva bastare la sua sola volontà per far avvenire la luce? La risposta è evidentemente "no". Ci vuole la parola perché quella luce avvenga. Allora lì c'è un libro in cui le parole fanno avvenire il mondo, fanno avvenire il mondo. Beh, questa è la più bella notizia sulle parole, che io ho trovato in qualunque altro libro della storia del mondo, che le parole fanno avvenire le cose. Non le annunciano, non le fanno fermentare, le fanno direttamente accadere. La parola crea. Allora... l'idea che la parola abbia questa potenza, è un grande conforto.

Ecco allora che Francesco ricrea la sua Padia e la rivive in tutta la sua pienezza di “mucchio di case e di gente”, attraverso fotogrammi traslati in scrittura di luce che si muove nella sospensione di un tempo che non è passato prossimo, ma imperfetto catapultato in un presente indefinito dove la reminiscenza accade tramite il continuo flusso di un “era, era, era”. E con questo verbo Curto scandisce i momenti di vita quotidiana del proprio paese, dalla mattina alla sera, ammucchiando immagine su immagine per ricostruirlo nella sua interezza. E si serve dei propri sensi tesi all’ennesima valenza per rafforzare quell’illusionismo materico che riesce a rendere il suo paese presente come allora. Cosi l’olfatto gli fa sentire quegli odori mai dimenticati; l’udito gli ricorda il suono della sua gente, dei riti religiosi, delle feste, del vento che lo trascinava; il gusto gli lascia amaro nel palato il sapore di mele rubate, ma anche il calore del vino. Infine, la vista gli serve da palcoscenico dove il paese si recita nelle sue abitudini . Manca il tatto perche nel ricordo è la vista a sostituirlo e a carezzare le immagini rendendole corporee e tangibili.
E ai sensi Curto aggiunge la costanza dei sentimenti contrastanti: la gioia e la pena, e il mistero. Ma nel momento in cui la reminiscenza viene meno, all’imperfetto (era, era) si sostituisce come destino ineluttabile il presente (“è”), rafforzato dall’avverbio temporale (“oggi”) che quantifica uno spazio che ormai racconta un non essere, un’assenza, perche Padia non esiste più. Esiste il suo scheletro nella forma di mucchio di case vuote, senza più carne, senza più vita, e rimane il dolore, al poeta che sa di non poter più tornare al paese che è stato. 
Si era parlato di terra e di volti. E i volti sono quelli delle persone care che sono venute a mancare: la madre, il padre, gli amici. Ma mi soffermo un attimo solo sulla madre

Forse verrò ad evocarti madre, seduto
sotto l’ulivo dirimpetto al fiume
e tu dolce nel volto e di nebbia vestita
senza parole sarai davanti a me muta.
Io ti racconterò le pene del tempo
che mi tiene prigioniero e stanco
ti cercherò con le lacrime agli occhi.
In te ritroverò la tenerezza antica
attraversando nei ricordi i giorni
sicuro riposerò sulle tue ginocchia.


Da sinistra Annalisa Sacca, Sandro Allegrini e Francesco Curto

Per la madre e solo per la madre Curto, che nega a se stesso il ritorno al paese,  cede alla tentazione del ritorno e di un incontro con lei (sotto l’ulivo dirimpetto al fiume) e lo mette in scena in questa poesia che si regge sulla forza di quel “Forse”iniziale, intercalato da futuri di probabilià, proprio perché dipendenti tutti da quell’avverbio iniziale  che ne  sminuisce la possibile realizzazione.
Alla fine il ritorno c’è sempre, ma in un tempo ciclico, quello del mito che lo riproduce sempre, a secondo la volontà del poeta, nello spazio privilegiato dell’anima. Ho cercato fin qui di rispondere perché ho tradotto. Ora una parola su come ho tradotto. A volte per mantenere il ritmo o il senso del verso non ho tradotto letteralmente, ma era l’unica maniera di translare l’immagine originale del poeta. Ho dovuto sacrificare assonanze e costruzioni paratattiche per lasciare il colore del verso che spero sia rimasto integro, e per seguire le modulazioni dell’anima. Mi sono divertita a tradurre? Sì, molto, perché ogni parola che traducevo era la rivelazione di un nuovo mondo e di una nuova esperienza.    
Vorrei concludere con le parole della mia prefazione a questa antologia, che “Il progetto poetico di Curto si propone come ritmo di presenze ed assenze nel luogo della memoria, dove si muove in una sospensione indefinita con  un parlato diretto che urla, ma allo stesso tempo sussurra, che invoca ma anche impreca, che respinge ma anche accetta, mettendo a nudo la propria vita, nell’amore e nel dolore, per dare anima e respiro a tutte le cose che poeticamente rappresenta.”