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mercoledì 10 agosto 2016

TRA SOFFERENZA E MONNEZZA
di Fulvio Papi

Barbari a Roma
Come filosofo non ho certamente la conoscenza dei testi poetici che hanno gli esperti, tuttavia mi sento di azzardare che nella poesia là dove la rima appartiene alla stessa struttura del genere, o in quella, più prossima al nostro tempo, dove la rima può apparire secondo differenti occasioni, la parola “sofferenza” non compare facilmente. “Dolore” occupa di solito lo spazio poetico. Una ragione mi pare nel fatto che la rima di “sofferenza” è facilissima, ma ha un inevitabile suono cacofonico. Nel parlare comune “sofferenza” ha un ampio circuito semantico che, senza minimamente voler imitare le esplorazioni sulle parole di Joyce, evoca situazioni dell’esistenza che provocano pena, compassione, partecipazione. Quindi una grande ricchezza emotiva, per lo meno nel senso che Hume assegnava ai sentimenti. Mi pare che la parola “sofferenza” abbia due caratteristiche, complementari l’una all’altra: per un verso ha come prevalente un valore referenziale (sofferenza per), contemporaneamente ha un significato certo e plausibile quando si riferisce a un essere vivente in ogni suo aspetto. C’è una sofferenza umana per mille ragioni, c’è quella degli animali (dei quali gli studiosi hanno mostrato comportamenti assimilati a quelli di gruppi e tradizioni antropologiche), e vi è sofferenza nei vegetali come sanno bene tutti coloro che si occupano delle potature delle piante. Ma in tutti i casi occorre che la sofferenza abbia una relazione con un essere vivente, o, possiamo dire, con una forma di soggettività, anche se in questo caso il discorso diviene difficile.

Il fiero pasto...

Tuttavia i “padroni del linguaggio” possono fruire di un campo metaforico ad altri escluso, e quindi estendere l’uso di “sofferenza” a strutture inanimate con l’effetto di diffondere cognizioni strane, inesatte, o addirittura tali da rendere impossibile una comprensione a chi non abbia una grande esperienza dei giochi linguistici. In questo caso l’effetto ignoranza diviene una potentissima ideologia, tanto per dare torto a quelli che vedono il mondo ripulito da tutte le ideologie.
Adesso è comune per i “media” (che poi non sono “media” per niente poiché sono la forma diffusa della realtà) parlare di “sofferenza delle banche”. So che è un idioletto per esperti. E tuttavia dalle banche fiorentine, che hanno costruito una forma di civiltà, a quelle di cui parliamo oggi, ci sono state trasformazioni. Tuttavia l’essenziale è rimasto: le banche possono guadagnare e possono perdere.
Scendiamo al linguaggio realistico più comprensibile. Le banche “in sofferenza” sono quelle che hanno perduto parti cospicue del loro capitale che poi sono denari che le persone hanno affidato alla loro esperienza. Ora stando sempre all’essenziale, i casi delle banche che soffrono (ma la vera sofferenza è di altri) paiono tre. Questo è un elenco e non una teoria, e i tre casi possono essere accaduti nell’identità di luogo e di azione.
Pantheon, gli spiriti magni e la monnezza
1). Alcuni dirigenti, quale che sia il loro livello e i loro rapporti operativi, sono un club di incapaci. Non c’è da meravigliarsi più di tanto perché oggi vi è una proliferazione di incapaci che investe un’ampia area professionale, cui, va detto, corrisponde una parte esperta e impegnata, probabilmente meno nota. Nel caso delle banche si tratta di un uso imprudente dei prestiti, un’attività finanziaria da dilettanti o da qualcosa che assomiglia allo stile del “circolo dei nobili”. Costoro dovrebbero ritirarsi a vita privata, consentita di solito da liquidazioni che sembrano premi di una lotteria nazionale.
2). I dirigenti hanno dato denaro a personaggi privilegiati, poiché l’Italia è piena di potentati locali che sono uniti e solidali come non lo furono mai i nobili dal tempo delle signorie. È una questione di inciviltà che peggiora gravemente il mondo degli onesti che devono riparare, in un modo o nell’altro, questi soprusi con il proprio denaro (di chi è all’origine quello dello Stato?).
3). I dirigenti hanno gettato i denari del prossimo secondo elevate concordanze, interessi, sottintesi, ammiccamenti invisibili ma fulminanti, abitudini interiorizzate come l’obbedienza nell’esercito. Tutto un sistema di relazioni politiche e sociali che si riproduce spontaneamente.

Un quartiere di Roma

Tifosi bielorussi a Piazza di Spagna
Il più bello è che tutto questo è evidente, ci sono giovani giornalisti della tivù che fanno farfugliare scemenze a vecchi abituati da una volgare giovinezza alla falsità. E, allora, dov’è la scopa? A proposito di scopa, ormai da giorni la retorica elevata è dominata dalle immondizie che, a quanto pare, inonda le strade di Roma, senza che a nessuno o a nessuna azione si possa subito attribuirne la causa. Nella teologia classica siamo alla “causa sui” che, nel caso della spazzatura, vuol dire che essa cresce da sola, senza che alcuno ne provochi la causa. Un bel quesito logico da riportare sulla terra. Ma come e a chi?