Pagine

martedì 29 novembre 2016

IN RICORDO DI NINO MAJELLARO
SCRITTURA COME METAFORA
di Vincenzo Guarracino

Vincenzo Guarracino


A dieci anni dalla scomparsa, il poeta e critico letterario Vincenzo Guarracino, che dello scrittore e poeta Nino Majellaro è stato amico e attento lettore e ne ha seguito il percorso creativo, traccia questo splendido ricordo umano e critico. In verità nutrivano una stima reciproca e anche Majellaro si è spessissimo occupato del lavoro poetico di Guarracino, benché Majellaro non fosse altrettanto celebre in campo critico quanto lo studioso di Leopardi e Verga e del traduttore di Catullo. Essendogli anch’io stato amico, sono lieto di ospitare questo ricordo che ne celebra la memoria. (A.G.)

Nino Majellaro "Una metafora cieca"
In copertina una foto dello scrittore


“Una poesia si apprezza / per lo stile; una vita è simile a una poesia, / non la si vive solo con la mente / ma anche con ciò che, riposto nel segreto, / rimane sepolto in una vita”: se mai per altri dei versi possono valere per sintetizzarne e fissarne caratteri e intenzioni, ciò vale soprattutto per Nino Majellaro, per questo Majellaro della raccolta Viaggi di notte (Edizioni del Laboratorio, Modena 1992), da cui  il prelievo testuale è effettuato.
“Una poesia si apprezza / per lo stile; una vita è simile a una poesia”: come dire che poesia e vita si dispongono,  nel segno di uno stile,  su un asse di perfetta omologia, definendo un atteggiamento, un sentimento addirittura, di fronte alle cose, da cui il poeta si sente agito e necessitato.
Di fronte alla storia, come di fronte alla cronaca, di fronte agli eventi del “mondo visibile” non meno che di fronte a quelli della coscienza, al “segreto” in cui si condensa e sublima la vita più vera dell’io, il poeta persegue una strategia di attenzione e rispetto, da un lato, e sospensione (di giudizio) e attesa, dall’altro, con l’obiettivo non tanto di realizzare un’avventura puramente “formale”, che rischierebbe di confinarsi nell’algido spazio di una mortificante razionalità, di una  mente scissa dal sentimento, quanto piuttosto di mettere alla prova e far emergere, nel soggetto non meno che nel lettore, capacità critiche e attitudini fantastiche che il mondo della comunicazione di massa congiura a rendere sempre più deboli e precarie ma di cui la vita, tutt’intera, ha assoluta necessità, ma senza l’aria di possedere e imporre una propria verità: è questo che Majellaro intende per stile? Io credo di sì e mi pare che la conferma venga anche dal fatto che il poeta inscrive la sua stessa vita all’insegna della metafora di un viaggio, realizzato nella “notte” di senso di un’assoluta solitudine (esistenziale, intellettiva), con l’ausilio di un’ostinata ricerca e interpellanza delle ragioni del vivere proprio e altrui.
“Ci si muove con forme, o tumuli / creduti segnali della storia, / di uno che mi raggiunge / per strada e mormora, che fatica la salita. //…All’incrocio / il distacco con un saluto. Di qua / si vede una strada e di là un’altra. / E finisce una poesia”: ecco, è in questa coscienza della coincidenza tra esistenza e scrittura il segno etico,  lo stile,  della ricerca poetica di Majellaro, così come si è sviluppata in mezzo secolo di sperimentazione linguistica e creativa, tra poesia “lineare” e poesia visiva, tra prosa romanzesca e saggistica, sempre fedele a una sua intima misura, per la sua capacità di convocare e coniugare ragione e cuore, con una fiera volontà gnoseologica sorretta da una fede molto umana nel commercio di idee e sentimenti che struttura e sostanzia una civile convivenza da scoprire e costruire (almeno idealmente) anche con la poesia, quell’orizzonte di figure che aspettano di avere un  volto e una voce attraverso la parola che li fa vivere e al tempo stesso dà risalto e consistenza alle stesse coordinate spaziali e temporali dell’io con la sua storia.

Nino Majellaro
"Il Bargello della Vetra

Ma chi era Nino Majellaro, di cui quest’anno ricorre il decennale della morte? Nino Majellaro è stato un poeta e narratore, con interessi nel campo delle arti figurative e della ricerca storica, oltre che impegnato sul campo del sociale e schierato senza incertezze a sinistra, ancorché con modi suoi propri, senza ostentazione. Autore di numerose raccolte di poesie (La memoria artificiale (1974), La figura, lo spazio (1978), Una metafora cieca (1979), L’universo paziente (1985), Dalla Collina (1987), Viaggi di notte (1992), e di almeno quattro romanzi importanti (Il secondo giorno di primavera: Milano 1584, 1984; L' isola delle comete, 1990; Il bargello della Vetra, 1992; Diavoli e capitani, 1997) col secondo dei quali era stato vincitore del Premio Selezione Campiello, si era segnalato per la determinazione nel perseguire un suo progetto di scrittura assolutamente corrispondente alla necessità di rappresentare la vita come un viaggio perseguito all’infinito nella ricerca di un punto di luce, di spazio di autenticità all’interno di una memoria insidiata dalla notte, giusto il titolo emblematico della raccolta poetica del ’92), che nella poesia (o in una scrittura sempre creativa assimilabile appunto alla poesia) trova la sua forza espressiva più necessaria.
È per questo che è alle raccolte poetiche, confluite poi tutte nell’ampia silloge Poesie scelte (Edizioni del Laboratorio, Modena 2000), che vanno chieste risposte necessarie, come ad altrettante tappe di un processo di progressiva esplorazione e messa a fuoco degli statuti e delle ragioni stesse del soggetto, pur attraverso il mutare di tempi e situazioni, dando voce ad una volontà di canto in maniera del tutto eccentrica e personale.
Nino Majellaro
"Il secondo giorno di primavera"

Realista, d’avanguardia, impegnato, sperimentale, Majellaro ha incarnato nella sua ricerca un modello di scrittura nel tempo, costruendo tassello su tassello un “viaggio”di parole a se stesso, ma con l’ambizione di un complice lettore, attraverso una pratica di osservazione e auscultazione delle ragioni dell’Io e della realtà, facendo perno stabilmente sull’esigenza di ridurre il cangiante caleidoscopio di cose ed eventi a chiarezza, fissandoli in una formula, in un linguaggio che pesa e (si) pensa, momento di riflessione per sé e per gli altri.
Fatta di interrogazioni e annotazioni, che comportano scelte essenziali e verità, “scoperte” nel corpo della lingua e nella foresta di libri e sogni, la sua è una ricerca come poche altre capace di dare voce alla meditazione sulla precarietà del vivere, attingendo dalle risorse della poesia la “luce”, l’energia necessaria per tramutare in canto la resistenza opaca delle cose.
“A chi mi ascolta canterò / il canto degli avi, il canto che mi coglie / ogni notte nel sonno e mi prolunga oltre le colline…// Canto il silenzio delle parole che non può / cantare la morte perché le parole s’annidano / nei vulcani spenti…”, promette il poeta nella nona stanza del poemetto Segni, che conclude la silloge Poesie scelte, e la sua è una voce rassicurante solitaria, confinata in uno spazio cui solo pochi sanno accedere, per sentirvi vibrare un’esperienza davvero unica ed essenziale, il senso di un “viaggio” che è “splendida metafora e occasione accanita di pensiero”, come dice Carlo A.Sitta.
Magico come un balsamo salvifico, il canto di Majellaro evoca e fa vivere emozione e dolore, pensiero e immagine, cronaca e storia, sogno e realtà, in una cifra espressiva concreta e insieme mitopoietica, che in virtù della limpida esattezza del suo linguaggio si propone come uno degli esiti più alti della poesia dei nostri anni.