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venerdì 18 novembre 2016

LA COSTITUZIONE SI PUO’ CAMBIARE. MA COME?
di Maria Carla Baroni

Maria Carla Baroni

Il dibattito sul o sul No al referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo sta riguardando soprattutto questioni giuridico-istituzionali lontane mille miglia dalla quotidianità della maggior parte della popolazione, la cui vita è determinata da quella costituzione materiale che dovrebbe essere figlia di una Carta Costituzionale considerata tra le più avanzate al mondo. Da questo punto di vista è essenziale il fatto che la Carta non si limita a fondamentali dichiarazioni di principio, ma afferma tassativamente che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3) e, similmente, all’art. 51, che “…la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Nonostante ciò, i diritti affermati sono ben lontani dall’essere realizzati. L’art. 4 sancisce il diritto al lavoro per tutti i cittadini, ma disoccupazione, inoccupazione e precarietà sono altissime (specie tra donne e giovani) e continuano ad aumentare, a causa non solo della crisi strutturale mondiale, ma anche della mancanza -in Italia- di politiche di riconversione ecologica delle attività produttive e della distruzione dei diritti sindacali e sociali; l’art.37 stabilisce che la donna lavoratrice -a parità di lavoro- ha la stessa retribuzione che spetta al lavoratore e invece vi è un divario che oscilla tra il 20 e il 30%; secondo l’art. 32 la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, mentre il modo di produrre e distribuire le merci e il tipo di mobilità prevalente producono malattia, invalidità e morte e i tagli alla sanità pubblica, insieme all’impoverimento generalizzato, costringono milioni di persone a smettere di curarsi; in base all’art.9 la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico”, ma territorio e paesaggio vengono stuprati dalle cosiddette “grandi opere”, inutili e portatrici di debito pubblico, mentre molta parte dell’immenso patrimonio storico-artistico è abbandonato al degrado e si interviene su beni eccelsi come il Colosseo e Pompei solo dopo innumerevoli crolli; secondo l’art.11 “L’Italia ripudia la guerra” e invece i nostri militari sono dislocati in tre continenti e ogni giorno vengono spese decine di milioni di euro per armamenti e per mantenere 130 basi N.A.T.O. e 80.000 militari statunitensi; per l’art. 33 i privati hanno diritto di istituire scuole senza oneri per lo Stato, ma le scuole private, per la quasi totalità cattoliche, sono di fatto ampiamente finanziate. A fronte di questo scenario la Costituzione andrebbe in primo luogo rispettata e attuata, tenendo presente che la sua elaborazione fu dovuta a tutte le forze politiche del dopoguerra, anche assai diverse tra loro, con gli inevitabili compromessi, e che comunque i Padri e le Madri costituenti vollero – riuscendoci - una Costituzione per un Paese grande e civile.

Vignettisti per il No


Comunque anche una Costituzione, come ogni frutto dell’attività umana, può essere cambiata: la questione è come. Oltre al fatto gravissimo di triplicare il numero di firme necessarie per presentare proposte di legge di iniziativa popolare senza nessuna garanzia di essere prese in considerazione dal Parlamento, tra i vari aspetti della cosiddetta “riforma” Renzi/Boschi mi preme segnalarne uno solo, che a me pare il più criticabile, e cioè un Senato di nominati/e, composto da sindaci/che e da consiglieri/e regionali. Si tratta in primo luogo dell’ennesimo gravissimo attacco al diritto del popolo a esprimere direttamente tutti/e i propri e le proprie rappresentanti, che ripropone quanto era stato stabilito per i Consigli provinciali e per i Consigli metropolitani, derivanti da elezioni di secondo livello. Questo aspetto prefigurerebbe poi che sindaci/che e consiglieri/e regionali, per far fronte al doppio incarico, continuerebbero a correre su e giù a e da Roma alle loro sedi -dalla Valle d’Aosta alla Sicilia-, senza riuscire a svolgere seriamente né un incarico né l’altro.
A parte i costi di questi continui viaggi, sempre a carico del funzionamento del Senato, è questo il modo di migliorare la produttività di chi svolge incarichi pubblici e di riavvicinare a istituzioni - che dovrebbero essere rappresentative - una popolazione che se ne allontana sempre più? Oppure la produttività deve valere solo per operai e operaie? Oppure ciò che si vuole è proprio aumentare la disaffezione alla cosa pubblica per non disturbare il “manovratore” unico?
Si dice inoltre che la ”riforma” Renzi/Boschi interviene solo sulla seconda parte della Costituzione. Non è vero. Interviene nella sostanza anche sulla prima. Sarà infatti impossibile attuare gli avanzatissimi principi contenuti nella prima parte della Costituzione se saranno ulteriormente ridotte le attuali -già scarse- possibilità di proposta e di azione della cittadinanza attiva e se saranno diminuiti i poteri del Parlamento a vantaggio dell’esecutivo e soprattutto del presidente del Consiglio. La cosiddetta “riforma” Renzi/Boschi è stata pensata, inoltre, in abbinamento alla normativa elettorale dell’“Italicum”, secondo cui il partito che uscisse dal ballottaggio con il maggior numero di voti -anche solo con un 20-25% di voti- otterrebbe la maggioranza assoluta alla Camera; se poi si tiene conto di un’astensione non lontana dal 50%, un Parlamento a poteri fortemente ridotti si troverebbe a essere -oltre a tutto- ostaggio di un partito che potrebbe essere votato da poco più del 10% degli e delle aventi diritto al voto.
Sarà del pari impossibile attuare concretamente i principi fondamentali se dovessero passare la contraddittorietà e la voluta confusione caratterizzanti la ridefinizione, contenuta nel proposto art. 117, delle materie affidate all’attività  legislativa dello  Stato e delle Regioni per quanto riguarda sanità e tutela/valorizzazione/promozione di territorio, ambiente, paesaggio e beni culturali; contraddittorietà e confusione che ora non c’è lo spazio per esplicitare, e che saranno foriere di nuovo contenzioso tra i due livelli di governo. In sintesi occorre un No forte e chiaro alla “riforma” Renzi/Boschi e l’avvio di un processo partecipato di revisione costituzionale che non solo riaffermi, ma anche rafforzi i grandi principi di un tempo adeguandoli all’oggi: partendo ad es. dall’abolizione dell’ormai antiscientifico riferimento alla “razza” contenuto al primo comma dell’art.3, da sostituire con “etnia”, e soprattutto dall’affermazione sostanziale della laicità dello Stato eliminando dalla Costituzione i Patti Lateranensi, che secondo Antonio Gramsci non costituirono un trattato paritario tra due Stati sovrani, ma rappresentarono la capitolazione dello Stato Italiano di fronte a uno Stato estero, che rivendicava poteri di giurisdizione sui cittadini italiani e che li ottenne. L’inserimento in Costituzione del Concordato con lo Stato della Città del Vaticano fu uno dei compromessi cui si giunse nel dopoguerra, i cui guasti continuano ancor oggi, sotto forma di ostacoli infiniti all’autodeterminazione di cittadini e cittadine nelle scelte di vita e di morte. Analogamente sarebbe ora di togliere il riferimento, contenuto nell’art.29, alla famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”. Basta una minima infarinatura di antropologia e di storia per sapere che, se c’è un istituto connotato culturalmente nello spazio e nel tempo, questo è proprio la famiglia. Basterebbe riformulare l’art.29 nel modo proposto da Ersilia Salvato e da altre senatrici del P.C.I. con un disegno di legge costituzionale del maggio 1989: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia. Il matrimonio è ordinato sulla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”.
Da ultimo bisognerebbe proprio inserire tra i principi fondamentali della Costituzione la tutela non solo del paesaggio -che in senso ampio potrebbe comprendere forse anche il territorio-, ma pure dell’ambiente e dei beni comuni, a partire dall’acqua, per rappresentare adeguatamente la sensibilità di una parte consistente e crescente del popolo italiano.