REFERENDUM: UN’ALTRA CAMPANA
LA “CARTA” E LE “CARTE”
TRUCCATE
di Massimo Varengo
Massimo Varengo |
Nemmeno il terremoto può fermare la macchina
referendaria: il tormentone che ci affligge da mesi continua imperterrito. Anzi
il terremoto può fornire un'ottima occasione per dimostrare il valore di questo
governo e del suo leader maximo e ridurre la componente politica sulle
scelte dei votanti a vantaggio di quella emozionale. È infatti indubbio che la cassa di risonanza mediatica
sul protagonismo di Renzi e soci
nell'affrontare la tragicità degli effetti del terremoto sulla vita delle
popolazioni colpite avrà un impatto sulla valutazione complessiva del governo;
fatto questo non indifferente se consideriamo che dai sondaggi (con tutti i
distinguo del caso) risulterebbe che se un terzo dell'elettorato è a conoscenza
del significato dei quesiti referendari -e quindi voterebbe a ragion veduta- ben due terzi ne è all'oscuro, o per
disinteresse, o per rifiuto cosciente, o per la complessità della materia, e
quindi voterebbe -sic et simpliciter- su Renzi ed il suo governo. D'altronde è lo stesso Renzi che ha operato in questa direzione mettendo
il suo corpo, il suo futuro direttamente in gioco promettendo la sua uscita
dalla scena politica in caso di sconfitta.
Con
il dilemma “o con me o contro di me” Renzi porta all'apice il
ragionamento su cosa sia il meno peggio proponendosi come l'unico possibile
salvatore della patria, l'innovatore in grado di fare ripartire il paese. Un
film già visto, con Craxi, Berlusconi, e tanti altri attori consumati e ormai
consunti. La
partita, per Renzi, è impegnativa e va giocata su più fronti. Avere la
maggioranza del partito con se e registrare che la maggioranza dei deputati del
PD è legata al suo oppositore interno Bersani, non rende il gioco facile; così
come vedere tutta l'opposizione istituzionale (e non solo) coalizzata contro
di se impone a Renzi di doversi inventare quanto più di fantasmagorico ci sia
-mance
elettorali comprese- per vincere la singolar tenzone.
Eppure i giochi sembravano fatti. Con la ristrutturazione del Senato si vuole portare a maturazione il dibattito che ha attraversato il ceto politico di questo paese per decenni
Eppure i giochi sembravano fatti. Con la ristrutturazione del Senato si vuole portare a maturazione il dibattito che ha attraversato il ceto politico di questo paese per decenni
-vedi le proposte di presidenzialismo e di monocameralismo
avanzate a più riprese- e che puntava, con accelerazioni più o meno variabili,
al rafforzamento dell'esecutivo e alla riduzione dei soggetti politici in
gioco. Gli
sbarramenti elettorali, i premi di maggioranza, le alchimie sui collegi
elettorali, ecc. sono stati gli espedienti messi in campo per ottenere questo
risultato: costringere all'accorpamento i partiti più piccoli, favorire il
sorgere di due schieramenti più o meno contrapposti, assicurare la
governabilità sempre e comunque.
La decretazione d'urgenza, l'ingerenza del
Presidente della Repubblica, il trasformismo eclatante hanno fatto il resto
riducendo il Parlamento a semplice comprimario di scelte operate altrove, nei
corridoi animati dai lobbisti di ogni specie, oppure a palcoscenico degli
spettacolini di un'opposizione in cerca di visibilità.
E'
un progetto questo che ha molti progenitori, addirittura c'è chi ricorda il
'Piano per la rinascita nazionale' del venerabile maestro Licio Gelli,
animatore di quella Loggia P2, menzionata recentemente per l'impegno profuso
nel combatterla da Tina Anselmi, utilizzata opportunisticamente dal 'premier'
per il suo spessore democratico sociale.
La
trasformazione del Senato secondo le linee della riforma Boschi, in accoppiata
con la legge elettorale recentemente approvata, l'Italicum, concluderebbe il
percorso tracciato, snellendo i tempi e le procedure legislative -anche se oggi la quantità delle leggi
approvate ha pochi eguali nei paesi a democrazia parlamentare- e conferendo al governo in carica un
gigantesco potere d'indirizzo, dopo aver demolito l'autonomia regionale a
favore di una ricentralizzazione statale. In
un contesto nel quale la partita politica si giocava in due, come era la
situazione fino all'irrompere sulla scena di un
terzo incomodo, il Movimento 5 stelle, questo rafforzamento era comunque
funzionale ad entrambi, in un contesto nel quale le politiche sostanziali poco
differiscono le une dalle altre, condizionate come sono dagli scenari
internazionali, dalle burocrazie europee, dal controllo della NATO, dalle
dinamiche del capitale.
La
presenza del terzo incomodo ha mescolato le carte in tavola; la possibilità che
possa vincere le prossime elezioni e prendere nelle proprie mani le leve del
governo inquieta fortemente gli assetti tradizionali del potere, preoccupati
dalla natura trasversale del movimento, ancora poco noto ai più, se non per la
sua massa critica, il suo portato populista e legalista, il suo antieuropeismo.
L'irrompere della variabile pentastellata sulla scena, costringe la casta a
riformulare i propri assetti, a riconquistare il palcoscenico dello spettacolo politicista
riproponendosi come garante degli interessi settoriali del paese. Lo scontro si
fa via via più acceso, tra modernizzatori fedeli esecutori degli interessi
delle multinazionali e dei grandi gruppi aziendali che chiedono meno
burocrazia, tempi certi della giustizia, snellimento generale delle pratiche e
dei controlli, e difensori dello status quo, delle rendite di posizione, delle
logiche clientelari e familistiche. In un contesto dove populisti euroscettici
cercano di coniugare il consenso territoriale costruito sul tema della 'piccola
patria' con la difesa della 'razza'
italica a fronte del processo migratorio in corso. Dove si parla e straparla di
un 'patto per la crescita' tra governo, imprese e sindacato, condizionato da un
Sì che aprirebbe le porte agli ambiti
investimenti internazionali (e conseguentemente alla svendita del patrimonio
italico), e contrastato da un NO che vorrebbe la riapertura del mercato
ministeriale delle poltrone conseguente alla prevedibile caduta del governo.
La
natura dello scontro tra le varie frazioni della borghesia e della classe
dirigente del paese appare sempre più chiaro, solo a volerlo vedere.
Non
c'era alcun disaccordo sostanziale quando si è trattato di modificare la
costituzione introducendo, tra i suoi articoli, l'obbligo della parità di
bilancio: tanto, male che vada, i suoi costi vengono scaricati sui lavoratori e
sulla povera gente.
Il
disaccordo sorge quando un settore vuole imporre un'accelerazione nel
cambiamento in corso, spostando decisamente l'asse del potere a favore dello
schieramento della modernizzazione ipercapitalista e globalizzatrice. Basta
vedere chi sono i sostenitori della riforma: Confindustria, la grande finanza,
le Banche, la classe dirigente internazionale da Obama alla Merkel, ecc. che
con minacce e lusinghe operano sfacciatamente a favore di Renzi, un presidente
del consiglio mai eletto, imposto da un
presidente della repubblica che ha travalicato ogni suo limite, sanzionato
solamente dal successo del suo partito in una elezione ininfluente come quella
per il parlamento europeo. Che
bisogno c'è di cambiare la costituzione, quando la costituzione materiale,
quella fatta di cose concrete per la vita delle persone -non quella formale,
idealizzata, 'nata' dalla Resistenza - ha consentito negli anni lo sviluppo di
politiche di impoverimento della popolazione, di aggressione militare ad altri
paesi, di attacco al mondo del lavoro, di arricchimento indecente per la classi
privilegiate, di progressiva liquidazione del sistema di protezione sociale,
dalla sanità all'assistenza?
Evidentemente
tutto questo non basta. La crescente competizione per l'accaparramento delle
risorse, la continua e accelerata necessità di valorizzazione del capitale
spingono verso l'amplificazione dei conflitti, sia aperti in forma di guerra
sia sotterranei in forma di condizionamenti e ricatti. Questo
impone alle classi dirigenti, dominanti nello stesso schieramento borghese, di
trovare assetti di potere più confacenti alle loro esigenze. Da qui i
cambiamenti strutturali in corso, in Italia come altrove, per adeguare la
macchina statale alle nuove incombenze.
La
chiamata alle armi per l'affermazione del Sì
nel prossimo referendum istituzionale non è solo un passo necessario legato
alle procedure di modifica costituzionale, ma è anche il tentativo di legare il
più possibile al governo il favore popolare, oggi come oggi, particolarmente
necessario in vista delle sfide che ci aspettano.
E'
necessario quindi che anche in questa scadenza ci si mobiliti per mostrare la
vera portata della partita in gioco, gli scenari e le ricadute che ci si
prospetteranno se non si svilupperà una vera opposizione.
Vera
opposizione, dunque, che significa ripresa del conflitto sociale su larga
scala, azione diretta di massa, mobilitazione del mondo del lavoro,
riappropriazione e controllo territoriale, rilancio della solidarietà
internazionalista, superamento dei confini, pratiche di accoglienza reale dei
profughi, antimilitarismo.
Al
di fuori di questo quale potrebbe essere un'opposizione in grado di mettere i
bastoni tra le ruote dei manovratori? Non certo quella che si muove su un piano
formale come quello della difesa della Costituzione nata dalla Resistenza.
Al di la della retorica - che in realtà
offende il partigianato, soprattutto nella sua componente sovversiva e
rivoluzionaria- occorre ricordare che la Costituzione è nata dalla mediazione tra Democratici
Cristiani, Comunisti, Socialisti e Liberali i quali ben si guardarono di
fissare norme chiare e nette che potessero essere utilizzate dagli uni contro
gli altri. Risultato: le più alte aspirazioni contenute nella Carta -che la
rendono per alcuni la più bella del mondo- sono sempre risultate disattese,
foglie di fico di un potere sempre arrogante e accaparratore. Solo ampi
movimenti popolari, espressione di bisogni e volontà collettive, sono riusciti
a modificare, nel tempo, gli assetti di potere, le strutture giuridiche e
politiche del paese, non certo una mobilitazione di carta giocata sulla Carta.
Ricordando
le frustrazioni seguite ai referendum vinti sull'onda di mobilitazioni
significative e importanti, come quello contro la privatizzazione dell'acqua, o
di battaglie di opinione come quello sul finanziamento pubblico ai partiti, ma
vanificati dalle furberie della casta, i
sinceri oppositori della riforma dovrebbero attenersi ad una visione realistica
delle cose.
La
vittoria del NO rappresenterebbe semplicemente un rallentamento dei processi in
corso e probabilmente una rimessa in discussione degli equilibri governativi,
ma a vantaggio di chi? Qualcuno sosteneva un tempo 'grande è la confusione
sotto il cielo: la situazione è eccellente'. Ma oggi è così? Esiste un
movimento reale in grado di essere protagonista nella crisi governativa e di
imporre la propria agenda di trasformazione sulle cose che contano: salario,
lavoro, casa, salute, scuola, guerra, immigrazione, ambiente, libertà
individuali e collettive?
Oppure
prevarrà la politica politicante, fatta sempre di deleghe, di capetti
ambiziosi, di prevaricazioni e di corruttele?
La
partecipazione alla campagna per il NO in realtà continua a rimanere nel solco
della politica delegata, della fiducia nei meccanismi della democrazia
parlamentare, sperando di rosicchiare margini di manovra all'interno della più
generale crisi di sistema.
Il
'NO Sociale' non sfugge a questa condizione, anche se le sue parole d'ordine puntano sulla
possibilità di sviluppare una stagione di lotta a partire proprio dalla
vittoria del NO. Non è la prima volta che si è opera per costruire un fronte di
tutte le opposizioni sociali che metta insieme le espressioni più varie della
conflittualità sociale, da quelle dell'autorganizzazione a quelle che hanno
nelle pratiche delegate la loro sostanza, per farle convergere sul piano di una
lotta che di fatto è tutta interna ai meccanismi istituzionali, avendo tra
l'altro come 'cobelligeranti' le espressioni più becere della destra che ne
annacquano la portata. I risultati nel
passato si sono visti e credo che si ripeteranno, contribuendo ad un'ulteriore
frustrazione complessiva dei soggetti coinvolti, i quali credendo di conseguire
un obiettivo significativo in realtà fanno un favore alla nuova casta montante,
quella che si ritrova nel Movimento 5 stelle. Questo non vuol dire
indifferentismo politico; non vuol dire che tutte le forme del potere sono
eguali; sappiamo ben distinguere tra democrazia rappresentativa e dittatura; ma
una vera battaglia contro le riforme in atto non può oggi
assolutamente prescindere dall’assoluta necessità della ripresa del conflitto
sociale che non può farsi condizionare da un dibattito che è centrale solo per
un ceto politico preoccupato per la propria esistenza. Il contrapporsi tra
‘riforma’ e ‘conservazione’ vuole occultare la realtà delle forme di
sfruttamento attuali, per favorire un loro 'rinnovamento' in funzione delle
esigenze di ristrutturazione e di riorganizzazione dell’apparato statale alle
prese con le emergenze dell’attuale sistema geopolitico mondiale.
Bisogna
scegliere: o porsi a difesa di quel che resta della democrazia parlamentare,
individuando in essa una residua barriera all'incalzare dell'autoritarismo
montante, o imboccare decisamente la strada della lotta, interna ai corpi
sociali con tutte le loro potenzialità e contraddizioni, in funzione di un
progetto di società altra, da costruire giorno per giorno, fuori da ogni
opportunismo politicista.
A
fronte di una politica che fa del parlamento e della governabilità il suo
centro di interesse occorre contrapporre un pensiero ed un’azione che abbiano
il loro punto di riferimento nella capacità di autoorganizzazione popolare;
occorre contrapporre la proposta e la pratica del comunalismo, libertario e
federativo, articolato sul territorio, dal semplice al complesso.
Sfuggire
dai meccanismi della democrazia rappresentativa significa entrare nel concreto
della critica del concetto stesso di maggioranza e minoranza, significa
rifiutare la riproduzione, pura e semplice, dei rituali parlamentari negli
stessi organismi rappresentativi dei lavoratori per dare invece prevalenza
all’autoorganizzazione, alla lotta, al libero confronto delle idee.
Massimo Varengo |
I
rapporti di forza si sono sempre modificati con la lotta diretta e la via
politica ha sempre rappresentato il disarmo della conflittualità sociale. Con
questa consapevolezza ci tiriamo fuori dai ricatti agitati da quanti, a
sinistra, sono alle prese con le pulsioni egemoniche di ceti politici
trasformisti ed opportunisti, incapaci di produrre politiche realmente
alternative, sul terreno economico, dell’occupazione, della riduzione d’orario,
del degrado urbano e ambientale, della sanità, della scuola, ecc. Astenersi,
non cadere nella trappola delle false alternative e del recupero elettorale,
rafforzare le armi della critica intransigente, dell’organizzazione, del
protagonismo sociale, dell’azione tra le classi sfruttate ed oppresse, vuol
dire porre le basi per un’incisiva azione rivoluzionaria che colpisce, nel
parlamentarismo, un sistema di governo che impone leggi e tasse, decise da una
cerchia ristretta di privilegiati, indipendentemente dalla volontà degli
elettori.
Astenersi,
per gli anarchici, vuol dire manifestare la volontà di non essere governati,
vuol dire non rendersi corresponsabili dello sfruttamento e dell’oppressione,
vuol dire volontà di una società di libere associazioni federate.