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venerdì 23 dicembre 2016

LETTURE PER NATALE
Tre poesie inedite di Alberto Figliolia

Alberto Figliolia

Stasera, padre, berremo insieme

Stasera, padre, berremo insieme.
Berremo anche se tu non ci sei più,
Vedi, ho posato davanti a me anche il tuo bicchiere.
Ora stappo la bottiglia: un Nero d'Avola,
scuro, forte, come la terra da cui partisti,
il suolo degli avi; cogli la sua ardente fragranza,
la secolare fatica del contadino?
Senti il ruggito del sole in esso racchiuso,
il musicale rantolo del vento,
convivere con il sibillino e trasparente dono dell'acqua?
Questo vino, padre, è sangue della terra,
il nostro sangue.
Ecco, vedi, ora verso il nettare dal vetro ornato e tornito
e colmo il tuo bicchiere e il mio:
il tuo, a dire, il vero, per metà, ma ti basterà, lo so.
E ora beviamo. Beviamo a quell'assenza
che è invece, sempre, presenza.
Forse tu avresti preferito Barbera frizzante,
ma, lo sai, io amo il vino fermo, forte, antico,
come quello della tua terra,
quella dove ora – dopo le fatiche della città del nord,
da te pure così amata – sei tornato
per l'ultimo ristoro.
Però ora, padre, beviamo ancora un poco insieme.
Sarà l'ultima volta, forse.
Ti verserò un altro mezzo bicchiere
 – stasera non importa il verdetto della medicina
né quello dell'implacabile tempo  –
mentre io non avrò remore né indugi
a berne ancora e ancora.
Almeno questa sera voglio sondare il fondo della bottiglia
e misurarvi l'entità del buio,
il cuore di quel nulla che ci avvolge
 – nero primordiale cotone  –
e l'impalpabile materia dei sogni.
Ma non avrò paura grazie al calore del vino
bevuto insieme.
Almeno questa sera.
L'ultima per bere insieme, forse.

   ***

 Ascolto la tua lingua, Enna

Ascolto la tua lingua, Enna,
frugarmi dentro, nella memoria antica...
locuste al sole,
catene di monti azzurri o secchi dal Belvedere,
Calascibetta giacere in un bianco silenzio,
il morbido chiacchiericcio
di donne fasciate di nero,
la grande città del Cimitero,
Blek Macigno e Capitan Miki
(in alternanza due pagine in bianco e nero, due a colori)
letti nell'ombra,
la dolcezza dei richiami
da un capo all'altro delle strade
(sillabe soffianti, quasi francesi),
l'anguria spaccata con allegria
in una vasta cucina bianca,
la caponata del mattino,
una casa col patio e la fontana,
l'uomo che parlava nel cortile
au sceccu,
gli arancini come il sole
(dentro e fuori),
le mie nonne vive,
(e quanto manca zio Gaetano
con la perenne sigaretta fra le labbra,
il mio Yanez di San Tomasello,
il gentile avventuriero delle vigne
e dei campi ornati!),
i negozi animati,
le mandorle sulle stuoie,
le conchiglie e i conigli della campagna,
le corse d'auto a Pergusa
con il lago al centro
e quel pilota impavido
sulla vettura blu con il numero 24,
i fichi d'India succosi come pochi.
u pani cunzatu, u piacinitinu, l'anciovi...
Tutto agli occhi del bambino
pareva più grande:
a Balata era un oceano
con le strade come maree
che salivano e calavano,
i vicoli erano brulichio e riposo,
sedie posate sul divenire
dei ciottoli,
un cagnolino dalla coda vibrante,
la dignità di un mendicante senza gambe
su una tavola a ruote
e il sorriso sulle labbra
a disegnare il giorno.
Non avevo però mai veduto
il fascinoso correre
della tua nebbia,
quello sfilacciarsi ardito
e delicato, quel ruotare
dell'aria intorno a un nucleo
primigenio.
Che cosa è rimasto nel mio cuore?
E che sarà di noi tutti
in questa diaspora eterna?
Forse l'idea del risveglio
in un letto inondato di luce
per un nuovo giorno,
come bambini felici.

***

Ti ho visto, madre...

Ti ho visto, madre, camminare
lungo la via, nel giorno grigio,
spento, maschera di dolore
e priva di ogni maschera
tu abbia mai indossato.
Le rughe del tuo viso eran solchi
antichi e lo sguardo vagava,
senza vederle, sulle foglie morte
di quest'autunno rovinoso
senza spiegazioni, senza ragioni.
Quali sono, madre, i confini
del vuoto dentro di noi?
Che cosa nel pallido e inesorabile
rotolare degli anni ci ha condotti
a esser ciò che siamo, ciò che non siamo?
Non mi sono fermato, madre,
né ti ho chiamato; ho proseguito
per la mia strada: troppo angosciosa
la stretta al cuore che provavo,
la morsa nello scorgerti così,
pietra di sofferenza, nocciolo di ansia
per il presente di nebbia,
per il futuro smarrito.
Due strade diverse in quel mentre
percorrevamo,
due direzioni opposte, eppure presto
ci ritroveremo in un'urna
di nubi e sassi, nel miagolio di un vento
da un misterioso mare, nella sonagliera
degli alberi di quest'autunno rovinoso
senza spiegazioni, senza ragioni,
e d'inquieta immobilità.
Poi rigiro negli occhi quella foto
color seppia, un po' smangiata al centro,
del 26 dicembre 1959, con te giovane,
gli occhi come il cielo,
il sorriso aperto al mondo che sarebbe stato,
e papà vicino a te, e io in mezzo a voi
con lo sguardo totalmente intento,
assorto: forse già ti vedevo camminare
lungo la via, nel giorno grigio,
spento, maschera di dolore...

[Cesano Boscone, 31 ottobre-7 novembre 2016]

***