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venerdì 20 gennaio 2017

IL DEBITO E L’ETICA
di Fulvio Papi

Leonida Tedoldi

Nella introduzione dell’ottimo libro di Leonida Tedoldi “Il conto degli errori. Stato e debito pubblico in Italia” (Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015), si legge nella prefazione una riflessione che merita una grande attenzione: “Diversamente da altri problemi dello Stato, quello del debito e soprattutto della sua crescita, non solo è da attribuire prevalentemente alle istituzioni pubbliche, ai governi, ma si intreccia con gli interessi della società nel suo complesso. Tanto che almeno sino agli inizi degli anni Settanta era considerato in tutto l’Occidente una risorsa efficace per le istituzioni pubbliche e per i cittadini, e incisiva per lo sviluppo del paese se rimaneva sotto controllo”.  Era il tempo felice delle politiche economiche Keinesiane che consentì un rapido sviluppo dei vari paesi con un progressivo assorbimento della disoccupazione che era una delle numerose piaghe del dopoguerra. E il nostro autore così prosegue: “A differenza di altre realtà europee -come ricorda spesso Sabino Cassese- però lo Stato italiano è sempre vissuto, fin dalla sua formazione, al di sopra delle sue possibilità, mantenendo un costante squilibrio tra le entrate e le spese e al tempo stesso, ampliando la propria distanza rispetto alla società, processo che ha innescato una perenne crisi della rappresentatività e fomentato l’instabilità dei rapporti tra istituzioni e collettività. Anche per questi motivi ed eredità storiche il potere distributivo per reazione ha sempre prevalso su quello “estrattivo” della riscossione delle tasse che divenne evidente agli inizi degli anni Settanta quando presero corpo importanti programmi di spesa. Ed è all’interno di questo rapporto tra Stato e società che si giocano le politiche del debito pubblico. Tuttavia, per gran parte del Novecento lo Stato italiano ha sempre “ripagato” i suoi debiti accumulando altri debiti o stampando carta moneta” ( pagg. VIII-IX).

La copertina del libro

Uscendo dal rigore epistemologico dell’autore che circoscrive “scientificamente” il suo oggetto secondo una controllata oggettività, credo (ed è quello che deve fare un pensiero filosofico a suo rischio), di poter avanzare la considerazione che una radice storica di quella situazione stia nel fatto che i partiti di governo o gli interessi privati che diventano decisione politica attraverso il quadro istituzionale, si sono sempre identificati con lo Stato. Così che, più che amministratori dello Stato in funzione di scelte di spesa che fossero positive (ovviamente ho una una idea teorica di positività) per la comunità nazionale, per il suo patrimonio materiale, politico, civile, culturale, questo ceto dirigente, come una ragnatela più o meno diffusa nel paese, anche secondo periodi differenti, ha mirato alla sua (mi si passi Marx) “riproduzione allargata”. La spesa pubblica ha quindi avuto un suo specifico effetto sociale, ha contribuito a fomentare e a far crescere quell’individualismo economico che oggi è generalmente riconosciuto, e costituisce una difficoltà strutturale (nei suoi effetti) al governo medesimo della comunità nazionale. Stancamente l’armonizzazione sociale dei diritti si è trasformata in una concezione dei diritti interpretati in una dimensione privata. E penso che proprio gli effetti di questa situazione sociale, considerata nella prospettiva del consumo siano, almeno in parte, paralleli all’autoproduzione del debito pubblico. Un legame che non poco ha contribuito, assieme alle mutate modalità comunicative, a trasformare, se non a distruggere, le condizioni sociali e culturali che hanno costituito storicamente la realtà e la tradizione dei partiti politici. Era un processo, quello della autoalimentazione del debito che, ovviamente, aveva un suo limite temporale, e che non poteva continuare nel quadro degli accordi che sono conseguiti (o che hanno reso possibile) la moneta unica europea. L’autore con grande competenza, mostra i diversi atteggiamenti politici nei confronti di un possibile contenimento del debito pubblico, tra i quali il più meschino fu certamente quello secondo cui sarebbe stato un ideologico o immaginario sviluppo del mercato a poter costituire una sanatoria, almeno parziale.


In una prospettiva molto elementare di forma storica, si era costituito un paese la cui forma statuale era condizionata da un debito, quali che fossero i suoi debitori, cosa per nulla indifferente, che ormai entrava a far parte della sua stessa identità. Beninteso, da un punto di vista finanziario non era una “mosca bianca” nel panorama mondiale, poiché l’indebitamento dello stato, sino in qualche caso disastroso, era un elemento comune all’economia contemporanea. L’identità di una forma statuale e dell’insieme delle sue conseguenze derivava però dalla storia dell’indebitamento e dal suo rapporto con il tessuto economico e sociale, quindi dalla nostra storia economica, sociale e politica. Questa è la prospettiva in cui nasce il processo dell’indebitamento e il “luogo” dove i suoi effetti convergono significativamente a formare l’identità di un paese. Forse da questo punto di vista si può tentare di riscrivere la storia del debito pubblico, e mostrare il suo senso storico in un complesso di relazioni in cui le scelte economiche si trovano connesse con la pluralità di fattori che contribuiscono a creare le condizioni per il “conto degli errori” dal punto di vista della politica finanziaria e di chi ne aveva la responsabilità. Le medicazioni della situazione deficitaria non pare affatto abbiano prodotto misure -compatibili con la stabilità- che oggi ci diano un quadro sociale equilibrato.


E se questa è la durezza della nostra storia che anche subisce gli effetti della globalizzazione economica, soprattutto a livello del valore del lavoro sociale, è quasi inevitabile che la politica riesca difficilmente a governare il paese, ma rischia, piuttosto, di diventare un’area sociale che parli di sé a se stessa, e imponga questa chiacchiera più per i suoi guasti, corruzione e concussione, che per il suo ordine intellettuale, che è forse impossibile, al di là delle misure che derivano dalla identità nazionale “gettata” nel rapporto plurale con il mondo contemporaneo.  Tutti noi siamo d’accordo che sono necessarie “intelligenza e virtù”, anche se sono superflui, anzi pericolosi i feroci “cavalieri dell’ideale” (Hegel) come terapia straordinaria, quei sogni un poco deliranti che derivano dalla “virtù” di Saint Just, Robespierre (cfr. l’imponente ricerca di Jonathan Israel, Revolutionary Ideas. An Intellectual History of French Revolution fron “The Rights of Man to Robespierre”, 2014, Princeton University Press) e che ancora percorrono pigramente più di una aggressiva infelicità.



Comincerei forse, anche più che da misure economiche in senso tecnico, da una ripresa di quel tessuto etico che il presidente Mattarella richiamava nel suo discorso di fine d’anno. L’etica condivisa è una forza materiale: ci sono stati momenti nella nostra storia in cui questa prospettiva è stata evidente. L’etica ha condizionato la spesa, e non solo il contrario. Questo per i tempi brevi, perché invece per i tempi lunghi occorre mutare la prospettiva e far intervenire nel discorso nozioni diverse e categorie interpretative più ampie. È un gioco intellettuale più azzardato con il destino.