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venerdì 27 gennaio 2017

LA PAURA DEL “POPOLO”
di Fulvio Papi



L’incoronazione di Trump alla Casa Bianca è avvenuta con la solita coreografia un poco kitsch per il nostro gusto, anche se bisognerebbe integrare bene i segni materiali della cerimonia. Se poi passiamo a quelli verbali il discorso del presidente è stato il riassunto delle volgari e pericolose banalità della sua campagna elettorale, un lessico dei locali frequentati da anziani bulli che con le parole al vento trovano la loro restante identità. Quanto all’ambiente sociale elevato Francesco Ciafaloni su “Una Città” interpreta molto bene la situazione dicendo che “Trump sembra essere un leader di un ambiente culturale, militare, economico che tiene insieme le correnti razziste più pericolose, suprematiste bianche, integraliste del partito repubblicano”. Con una considerazione del femminile -aggiungo- che lo associa alla coorte degli imbecilli che sono noti anche da noi, solo che Trump, se pure in modo non appropriato, è il presidente degli Stati Uniti. È un isolazionista, spregiatore, ricambiato al doppio, dell’Europa, e vistosamente ignorante della tradizione che, per molti versi, è emigrata in America dove ha messo radici profonde e originali da cui c’è non poco da imparare, specie dalle donne. Dal punto di vista economico se fosse lasciato fare (ma non sarà così) mi pare potrebbe persino portare il paese a una crisi di sovrapproduzione. In ogni caso, lasciando perdere ogni scenario, è evidente che diminuirà le tasse ai ricchi che suppongo, considerata la modalità della ricchezza negli Stati Uniti, ora potranno, come del resto è già accaduto, cominciare a lottizzare Marte. 


I poveri, una larga parte, vedranno il mondo ancora peggiore, tuttavia potranno pensare, considerati i “valori” in campo, che è colpa loro la loro incapacità operativa, anche se non si è mai sentito parlare di inferiorità biologica, anche perché, se così fosse stato, probabilmente alcuni dei loro voti gli sarebbero mancati. Dal punto di vista dell’operare governativo è probabile che il suo patrimonio intellettuale non superi la possibilità attuativa di ben poche cose, ma l’équipe che sarà con lui avrà di certo le competenze che molti temiamo; ma che ci vorrà poco, per esempio, in politica estera, ad essere più acuti dei predecessori repubblicani. Condivido però il parere di quelli che pensano sia sbagliato ritenere che l’equilibrio del mondo, nel suo complicato intreccio, è quello che è, e quindi ogni “manovra” trova i suoi limiti nello stato delle cose. Prima di tutto non è vero che dal punto di vista mondiale, ci sia una grande stabilità come ai tempi della guerra fredda. Si potrebbero citare decine di casi “in movimento”, e in ciascuna di queste congiunture, anche da un punto di vista isolazionista il presidente americano dovrà fare le sue mosse secondo i consigli della sua équipe. E qui le incognite, anche pericolose, potrebbero non essere poche. Da noi, per esempio, le politiche della destra ideologica, arcaica e aggressiva, potrebbero essere molto incoraggiate, assenti come sono da una cultura economica che le rende consapevoli degli effetti devastanti che, nella loro prospettiva, avrebbero tutti i fenomeni della inarrestabile globalizzazione. 


Ma, in verità, è su un altro tema molto rilevante che vorrei fermare l’attenzione. Nell’editoriale dell’ultimo numero di “Vita e Pensiero”, l’ottima rivista dell’Università Cattolica, si può leggere: “La democrazia”, disse Abramo Lincoln in uno dei suoi più celebri discorsi è il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Verso quel “popolo” che Lincoln celebrava solennemente come il detentore del potere sovrano, i padri costituenti americani erano stati in realtà molto più diffidenti. Memori della pessima fama che la forma di governo democratico aveva lasciato, vollero impedire che la nascente repubblica fosse lacerata dalle lotte di fazioni. E proprio per evitare che l’elezione del presidente degli Stati Uniti potesse scatenare lo scontro, le passioni politiche e mettere a rischio la pace, consegnarono a un collegio di grandi elettori il compito di scegliere chi dovesse essere il capo dell’esecutivo. Come tutti sanno, già pochi anni dopo il sistema congegnato dai costituenti si rivelò inefficiente (perché? Sarebbe interessante capire), e l’elezione si trasformò di fatto in una elezione diretta”. E così andò avanti per 200 anni di storia. “Ma duecentoventinove anni dopo le elezioni presidenziali del 2016 hanno invece palesato proprio ciò che i padri fondatori avevano temuto. Se ne 2008 la marcia travolgente di Barack Obamna verso la Casa Bianca aveva mostrato al mondo -e gli operatori della comunicazione- la potenza dello storytelling,  le elezioni del 2016 ci hanno invece fatto entrare nell’era della post-verità”. Ora entrare nell’epoca della “post-verità” significa sapere che, anche senza troppe analisi, viene a cadere uno dei pilastri fondamentali sui quali (a sua volta per verità o per accettabile simulazione delle tecniche della verità) si formano i requisiti di un esercizio politico democratico, la libertà di giudizio.


Una analisi dei “valori” della nostra storia politica della celebre Atene di Pericle agli illuministi (dove fiorì il mito della democrazia nelle piccole repubbliche), e sino a noi, mostra che il voto è un atto consapevole di quella libertà che nasce dalla cultura. (La libertà originaria di Rousseau che diviene virtù fu una catastrofe per Robespierre). Condorcet che seguì tutto il lungo e tormentato tragitto della Rivoluzione, di fronte al fatto che vi era una contraddizione tra la linea politica repubblicana e l’animo popolare ed elettorale ancora in maggioranza realista e chiesastico (la religione è un fenomeno molto più complesso) osservava che il vero problema era quello del rapporto tra ignoranza e conoscenza, quindi pensava a un compito educativo della Rivoluzione. È un modello intellettuale che funzionerà in Italia sino alla rinascita della democrazia, dopo che le elezioni del 1924 avevano mostrato il contrario. Ora, per molte ragioni, che qui è superfluo ricordare, poiché sono ben note, quel modello, secondo cui la libertà che nasce da una cultura è il fondamento della democrazia politica, è ormai obsoleto. Possiamo dispiacerci, specie se, a suo tempo, puntammo la vita stessa in questa direzione, ma le cose stanno così. Si può contraddire il reale, ma non in maniera fattuale. 


L’editorialista che ho citato, così conclude: “per difendersi dall’avanzata del “popolo della paura” serve poco tornare a sventolare l’antico, polveroso vessillo della paura del popolo”. Si può sempre restaurare il famoso “vivi nascosto”, ma è l’addio alla propria figura politica, è un’invenzione privata del mondo. La paura del popolo era un “topos” platonico per cui il “demos” era il luogo delle passioni sconsiderate. E anche Spinoza riteneva che al popolo (come si dimostrò proprio nella vittoria dei fanatici calvinisti) poteva essere considerato da immediate (prive della dimensione della temporalità) furie emotive e aggressive prive di qualsiasi fondamento culturale, contro le quali si poteva agire solo tramite tecniche razionali del potere sulle quali Spinoza aveva meditato filosoficamente. Può darsi che qualcuno, tra platonico e robespierriano, sogni di sventolare “il vessillo della paura del popolo”. Ma fin che può procedere l’identità pubblica con il consumo (che è un tema complesso da studiare), non servono vessilli. Poi chissà. E pure se c’è una post-verità (ma non dimentichiamo la polisemia, per cui il “popolo della paura” parla di verità) c’è anche la non meno famosa post-democrazia. Può essere persino che possa risorgere la fantasia del “demiurgo”, ma non ci credo, perché l’esercizio della libertà privata (quello che resta) è una pratica che ha pure il suo valore e i suoi effetti politici. 


Si può dire che c’è una libertà post-politica? Per il resto vedo solo una possibile terapia che derivi da un sentimento di fiducia su chi, intorno a programmi sensati (e ce ne sono molti), abbia il potere politico. È solo un sentimento, ma è il solo che può togliere la malattia dell’autoreferenzialità. Una buona teoria è solo nel modo buono di lavorare politicamente rendendo pubblici gli scopi, i mezzi, i tempi. E l’educazione di Condillac rovesciata, è la “paura del demos” diviene timore di non essere un potere adeguato. Ma questa scuola un ceto politico la fa su se stesso, e qui ci vuole una cultura e uno stile come fu nel nostro dopoguerra che va molto al di là delle dispute interessate sui sistemi elettorali. Sembrerà strano ma in America basterebbe proprio cambiare una legge elettorale sbagliata. Da noi è più difficile, perché crediamo di vivere di rendita, invece navighiamo sui debiti, non per colpa di tutti, s'intende.