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venerdì 10 febbraio 2017

EMIGRAZIONE: QUALI PROSPETTIVE?
di Fulvio Papi

Sul fenomeno contemporaneo dell’emigrazione è difficile non ripetere le giuste e pietose esortazioni a considerare questo fatto storico come una prova morale per i paesi e per le persone più ricche. Poco giovano le considerazioni di celebri tuttologi convocati nei dibattiti tivù, dove l’apprezzamento vale soprattutto per chi parla con misura, rispetto all’enfasi da polli spennati di personaggi convinti che la verità si valga più del rumore, che dei tentativi di raggiungimento. Oggi, tuttavia, anche a livello di senso comune, si sanno distinguere i diversi contesti sociali che, fino a poco tempo fa, venivano considerati unilateralmente come “emigrazione”. A questo proposito comincerei col mettere da parte la più ricca enciclopedia filosofica sull’Altro che, probabilmente è una ricerca teorica del soggetto, dopo la crisi definitiva delle filosofie del soggetto. Tenere in considerazione l’altro ci offre una prospettiva che consente di fuggire dalla costruzione oscura e fabulistica di “noi stessi nel mondo” e, tuttavia, non è nemmeno la strada della “verità”, poiché è un punto di vista, dato che l’altro sono in realtà gli altri, e quindi la complessità simbolica delle esistenze sociali e dei loro poteri che esistono nel mondo, secondo variabili della loro compatibilità. “Variabili” perché le differenze culturali e sociali non sono affatto statiche, ma dipendono da fattori che sottolineano, più o meno, i livelli di compatibilità secondo valori relativamente stabili e congiunture più facilmente variabili. Non esiste una teoria univoca per quello che può accadere nei singoli casi, anche se nella cultura occidentale si è affermato un concetto di persona che vuole stabilire le forme positive di eticità che devono essere presenti nelle diverse circostanze dei rapporti che si stabiliscono con l’alterità. Anche se, anche in questo caso, l’universalità del valore finisce coll’essere plasmata dalla pluralità e dalle diverse circostanze dell’esistenza sociale. Se, da inesperti quali siamo, gettiamo il nostro sguardo sull’emigrazione che arriva dall’Africa con un “viaggio” che è a rischio della vita, semplifichiamo la comprensione, e parliamo di fuggitivi dalle violenze della guerra e dalla persecuzione della fame. 


Uno sguardo più analitico tempera la risposta emotiva e distingue le due sciagure, la guerra e la fame. La prima è più che sufficiente per animare una solidarietà con i fuggitivi, la seconda ingloba ipotesi che comprendono un sapere storico e sociale più ampio, e, indirettamente, anche il nostro futuro che, in relazione ai flussi migratori, non pensiamo uguale al passato prossimo o addirittura, con un pensiero del tutto sbagliato, “migliore” rispetto al passato prossimo. È emersa ormai la convinzione che la maggior parte degli emigranti abbandonano i loro paesi d’origine per trovare un’altra condizione di vita, più sicura e più agevole. Questi giovani (poiché questa è la loro età) devono avere una immagine, comunque costruita, della loro possibile destinazione e un timore dell’esperienza della loro vita passata, rapportata alla speranza, che rende comunque preferibile il rischio di un viaggio per mare, pieno di spaventose incognite. Questa, detta molto approssimativamente, deve essere la loro condizione dominante di esistenza, tra speranza e paura. Sentimenti che non è detto debbano rimanere sempre uguali. Eppure sono questi giovani a richiedere una riflessione che tenga presenti tutti i fattori in gioco, possibilmente non inquinata da pregiudizi fuori controllo.


La banale domanda ma fondamentale è questa: perché questi giovani si sentono costretti all’emigrazione? Come se in un altrove potrebbe esistere la loro vita. È un’interrogazione che esce subito dalla banalità se viene esplorata in quello che comunemente nasconde ma che è necessario portare all’orizzonte della conoscenza, anche al di là di pre-giudizi che hanno una loro nobiltà e, in qualche modo, ci mettono in questione, come figure morali o come possessori di un giudizio. Facciamo il caso molto diffuso della vergognosa speculazione degli scafisti. La sentenza giuridica, secondo il senso comune di ognuno, è già pronta, ma qui si tratta domandarsi quale sia la domanda tragica che rende possibile il guadagno dello scafista. 
Non è solo il profitto il nostro oggetto, esso si estende alle ragioni dello scambio che rende possibile il profitto. Occorre allargare il cerchio dell’inchiesta: passare -semplificando- dalla morale alla storia. Non vale, purtroppo nemmeno l’argomento che paragona i migranti africani a quelli che, all’inizio del Novecento o poco prima, italiani, tedeschi, irlandesi, russi, presero la via dell’America del Nord o del Sud. Le sorti personali e, forse, i sentimenti interiori erano simili, ma vi era un elemento sociale molto differente. Erano continenti, ho soprattutto in mente lo sviluppo capitalistico degli Stati Uniti, in forte sviluppo, e quindi, nonostante le misure precauzionali, con una forte richiesta di forza-lavoro. Non vorrei scoprire qui il valore che uno sviluppo economico capitalistico, dà alla figura umana, tramite la selezione delle sue possibilità, ma sta di fatto che essere accolti come sicura forza-lavoro offre le condizioni di base fondamentali per costruire una propria vita. E questo è quanto storicamente accadde.



Ora credo che nonostante le riunioni dei ministri competenti e gli scambi di prospettive, non sia immaginabile una attuale estensione della forza lavoro in un contesto economico che ha raggiunto una sua rigidità e, contemporaneamente, un livello sociale a fronte di altre culture dove la riproduzione della forza lavoro è molto meno costosa, come nei paesi che hanno fruito del processo di globalizzazione. Detto semplicemente: quello che possiamo chiamare la nostra identità ha un suo costo economico e un limite del processo di produzione che solo in alcuni casi ci mette in posizione favorevole nel mercato mondiale. Questa è la ragione, oltre la forza delle tradizioni culturali e religiose, che ha fatto fallire i due prevalenti modelli europei quanto all’emigrazione: il modello della integrazione sociale e quello del riconoscimento specifico della cultura degli emigranti. E allora? In mancanza di nuovo lavoro produttivo (quanto sia produttiva l’emigrazione passata è noto a tutti i livelli) e pensabile fare campi di concentramento (o, eufemisticamente, di accoglienza) “assistita” di migliaia di persone? E qui non sto affatto pensando ai costi come se fosse solo questo il problema. Ma gli emigrati non sono esseri biologici cui basta garantire la sopravvivenza, sono giovani forti ed efficienti che hanno le loro energie, sentimenti, aspettative, desideri, speranze, ideologie religiose che in particolari condizioni possono assumere aspetti di aggressività sociale. E allora? All’origine vi sono due problemi fondamentali, l’uno che riguarda la nostra civiltà, l’altro la riproduzione demografica dell’Africa. 


Le corporations internazionali hanno depredato parte del territorio africano che avrebbe potuto essere fondamentale per una sufficiente alimentazione di quelle popolazioni, fatto di “base” da cui possono derivare sviluppi positivi per evitare l’emigrazione. Il sentimento affettivo del proprio territorio è destinato a mutare quando mutano le condizioni vitali di quel territorio. Poi è arrivata la Cina con le sue importazioni di petrolio a prezzo più favorevole. Quanto all’Africa la sua riproduzione demografica è imparagonabile alla nostra. Vi sono paesi in cui il cinquanta per cento della popolazione è costituita da giovani dai 17 ai 25 anni. Rinasce Malthus, ma le sue misure puritane non hanno senso. Con un modo di ragionare simile a quello della provvidenza più che alla durezza della storia si potrebbe addirittura pensare di poter capovolgere l’attuale situazione migratoria portando in Africa investimenti, risorse tecnologiche, garanzie di pace. Sarebbe come invertire la necessità storica che dipende, purtroppo, dai poteri economici e politici dominanti e non da progetti intellettuali di tradizione umanistica. 


Provatevi a pensare l’insopportabile Trump, la sua deplorevole cerchia di collaboratori, i volgari populisti che l’hanno votato (non in maggioranza numerica però) in un ambiente sociale che abbiamo costruito come immaginario. E tuttavia l’attuale situazione migratoria ha a che vedere con il nostro destino di occidentali, vittime infine, della qualità del nostro stesso processo storico. Poiché se non il destino, per lo meno la contingenza può essere governata, capisco bene che, più o meno lieti di prendere questi provvedimenti, è necessaria istituire una selezione dell’accoglienza, molto rigorosa, ma il più civile possibile perché stiamo decidendo di vite umane. Politicamente c’è solo la contingenza con le sue possibilità. Esiste tuttavia anche una immaginazione filosofica, un’altra confidenza con il tempo. E allora genererebbe troppa inquietudine, apparirebbe un’esagerazione “catastrofista” se dicessi che l’emigrazione attuale potrebbe essere solo il preludio di una emigrazione di popoli, come si è visto in altre epoche, quando questi popoli non avevano più risorse sufficienti?