EMIGRAZIONE:
QUALI PROSPETTIVE?
di Fulvio Papi
Sul fenomeno contemporaneo
dell’emigrazione è difficile non ripetere le giuste e pietose esortazioni a
considerare questo fatto storico come una prova morale per i paesi e per le
persone più ricche. Poco giovano le considerazioni di celebri tuttologi
convocati nei dibattiti tivù, dove l’apprezzamento vale soprattutto per chi
parla con misura, rispetto all’enfasi da polli spennati di personaggi convinti
che la verità si valga più del rumore, che dei tentativi di raggiungimento.
Oggi, tuttavia, anche a livello di senso comune, si sanno distinguere i diversi
contesti sociali che, fino a poco tempo fa, venivano considerati
unilateralmente come “emigrazione”. A questo proposito comincerei col mettere
da parte la più ricca enciclopedia filosofica sull’Altro che, probabilmente è
una ricerca teorica del soggetto, dopo la crisi definitiva delle filosofie del
soggetto. Tenere in considerazione l’altro ci offre una prospettiva che
consente di fuggire dalla costruzione oscura e fabulistica di “noi stessi nel
mondo” e, tuttavia, non è nemmeno la strada della “verità”, poiché è un punto
di vista, dato che l’altro sono in realtà gli altri, e quindi la complessità
simbolica delle esistenze sociali e dei loro poteri che esistono nel mondo,
secondo variabili della loro compatibilità. “Variabili” perché le differenze
culturali e sociali non sono affatto statiche, ma dipendono da fattori che
sottolineano, più o meno, i livelli di compatibilità secondo valori
relativamente stabili e congiunture più facilmente variabili. Non esiste una
teoria univoca per quello che può accadere nei singoli casi, anche se nella
cultura occidentale si è affermato un concetto di persona che vuole stabilire
le forme positive di eticità che devono essere presenti nelle diverse
circostanze dei rapporti che si stabiliscono con l’alterità. Anche se, anche in
questo caso, l’universalità del valore finisce coll’essere plasmata dalla
pluralità e dalle diverse circostanze dell’esistenza sociale. Se, da inesperti quali
siamo, gettiamo il nostro sguardo sull’emigrazione che arriva dall’Africa con
un “viaggio” che è a rischio della vita, semplifichiamo la comprensione, e
parliamo di fuggitivi dalle violenze della guerra e dalla persecuzione della
fame.
Uno sguardo più analitico tempera la risposta emotiva e distingue le due
sciagure, la guerra e la fame. La prima è più che sufficiente per animare una
solidarietà con i fuggitivi, la seconda ingloba ipotesi che comprendono un
sapere storico e sociale più ampio, e, indirettamente, anche il nostro futuro
che, in relazione ai flussi migratori, non pensiamo uguale al passato prossimo
o addirittura, con un pensiero del tutto sbagliato, “migliore” rispetto al
passato prossimo. È emersa ormai la convinzione che la maggior parte degli
emigranti abbandonano i loro paesi d’origine per trovare un’altra condizione di
vita, più sicura e più agevole. Questi giovani (poiché questa è la loro età)
devono avere una immagine, comunque costruita, della loro possibile
destinazione e un timore dell’esperienza della loro vita passata, rapportata
alla speranza, che rende comunque preferibile il rischio di un viaggio per
mare, pieno di spaventose incognite. Questa, detta molto approssimativamente,
deve essere la loro condizione dominante di esistenza, tra speranza e paura.
Sentimenti che non è detto debbano rimanere sempre uguali. Eppure sono questi
giovani a richiedere una riflessione che tenga presenti tutti i fattori in
gioco, possibilmente non inquinata da pregiudizi fuori controllo.
La banale domanda ma fondamentale è questa: perché questi giovani si sentono costretti all’emigrazione? Come se in un altrove potrebbe esistere la loro vita. È un’interrogazione che esce subito dalla banalità se viene esplorata in quello che comunemente nasconde ma che è necessario portare all’orizzonte della conoscenza, anche al di là di pre-giudizi che hanno una loro nobiltà e, in qualche modo, ci mettono in questione, come figure morali o come possessori di un giudizio. Facciamo il caso molto diffuso della vergognosa speculazione degli scafisti. La sentenza giuridica, secondo il senso comune di ognuno, è già pronta, ma qui si tratta domandarsi quale sia la domanda tragica che rende possibile il guadagno dello scafista.
Non è solo il profitto il nostro oggetto, esso si estende alle ragioni dello scambio che rende possibile il profitto. Occorre allargare il cerchio dell’inchiesta: passare -semplificando- dalla morale alla storia. Non vale, purtroppo nemmeno l’argomento che paragona i migranti africani a quelli che, all’inizio del Novecento o poco prima, italiani, tedeschi, irlandesi, russi, presero la via dell’America del Nord o del Sud. Le sorti personali e, forse, i sentimenti interiori erano simili, ma vi era un elemento sociale molto differente. Erano continenti, ho soprattutto in mente lo sviluppo capitalistico degli Stati Uniti, in forte sviluppo, e quindi, nonostante le misure precauzionali, con una forte richiesta di forza-lavoro. Non vorrei scoprire qui il valore che uno sviluppo economico capitalistico, dà alla figura umana, tramite la selezione delle sue possibilità, ma sta di fatto che essere accolti come sicura forza-lavoro offre le condizioni di base fondamentali per costruire una propria vita. E questo è quanto storicamente accadde.
La banale domanda ma fondamentale è questa: perché questi giovani si sentono costretti all’emigrazione? Come se in un altrove potrebbe esistere la loro vita. È un’interrogazione che esce subito dalla banalità se viene esplorata in quello che comunemente nasconde ma che è necessario portare all’orizzonte della conoscenza, anche al di là di pre-giudizi che hanno una loro nobiltà e, in qualche modo, ci mettono in questione, come figure morali o come possessori di un giudizio. Facciamo il caso molto diffuso della vergognosa speculazione degli scafisti. La sentenza giuridica, secondo il senso comune di ognuno, è già pronta, ma qui si tratta domandarsi quale sia la domanda tragica che rende possibile il guadagno dello scafista.
Non è solo il profitto il nostro oggetto, esso si estende alle ragioni dello scambio che rende possibile il profitto. Occorre allargare il cerchio dell’inchiesta: passare -semplificando- dalla morale alla storia. Non vale, purtroppo nemmeno l’argomento che paragona i migranti africani a quelli che, all’inizio del Novecento o poco prima, italiani, tedeschi, irlandesi, russi, presero la via dell’America del Nord o del Sud. Le sorti personali e, forse, i sentimenti interiori erano simili, ma vi era un elemento sociale molto differente. Erano continenti, ho soprattutto in mente lo sviluppo capitalistico degli Stati Uniti, in forte sviluppo, e quindi, nonostante le misure precauzionali, con una forte richiesta di forza-lavoro. Non vorrei scoprire qui il valore che uno sviluppo economico capitalistico, dà alla figura umana, tramite la selezione delle sue possibilità, ma sta di fatto che essere accolti come sicura forza-lavoro offre le condizioni di base fondamentali per costruire una propria vita. E questo è quanto storicamente accadde.
Ora credo che nonostante le riunioni dei ministri
competenti e gli scambi di prospettive, non sia immaginabile una attuale
estensione della forza lavoro in un contesto economico che ha raggiunto una sua
rigidità e, contemporaneamente, un livello sociale a fronte di altre culture dove
la riproduzione della forza lavoro è molto meno costosa, come nei paesi che
hanno fruito del processo di globalizzazione. Detto semplicemente: quello che
possiamo chiamare la nostra identità ha un suo costo economico e un limite del
processo di produzione che solo in alcuni casi ci mette in posizione favorevole
nel mercato mondiale. Questa è la ragione, oltre la forza delle tradizioni
culturali e religiose, che ha fatto fallire i due prevalenti modelli europei
quanto all’emigrazione: il modello della integrazione sociale e quello del
riconoscimento specifico della cultura degli emigranti. E allora? In mancanza
di nuovo lavoro produttivo (quanto sia produttiva l’emigrazione passata è noto
a tutti i livelli) e pensabile fare campi di concentramento (o, eufemisticamente,
di accoglienza) “assistita” di migliaia di persone? E qui non sto affatto
pensando ai costi come se fosse solo questo il problema. Ma gli emigrati non
sono esseri biologici cui basta garantire la sopravvivenza, sono giovani forti
ed efficienti che hanno le loro energie, sentimenti, aspettative, desideri,
speranze, ideologie religiose che in particolari condizioni possono assumere
aspetti di aggressività sociale. E allora? All’origine vi sono due problemi
fondamentali, l’uno che riguarda la nostra civiltà, l’altro la riproduzione
demografica dell’Africa.
Le corporations
internazionali hanno depredato parte del territorio africano che avrebbe potuto
essere fondamentale per una sufficiente alimentazione di quelle popolazioni,
fatto di “base” da cui possono derivare sviluppi positivi per evitare
l’emigrazione. Il sentimento affettivo del proprio territorio è destinato a
mutare quando mutano le condizioni vitali di quel territorio. Poi è arrivata la
Cina con le sue importazioni di petrolio a prezzo più favorevole. Quanto
all’Africa la sua riproduzione demografica è imparagonabile alla nostra. Vi
sono paesi in cui il cinquanta per cento della popolazione è costituita da
giovani dai 17 ai 25 anni. Rinasce Malthus, ma le sue misure puritane non hanno
senso. Con un modo di ragionare simile a quello della provvidenza più che alla
durezza della storia si potrebbe addirittura pensare di poter capovolgere
l’attuale situazione migratoria portando in Africa investimenti, risorse
tecnologiche, garanzie di pace. Sarebbe come invertire la necessità storica che
dipende, purtroppo, dai poteri economici e politici dominanti e non da progetti
intellettuali di tradizione umanistica.
Provatevi a pensare l’insopportabile
Trump, la sua deplorevole cerchia di collaboratori, i volgari populisti che
l’hanno votato (non in maggioranza numerica però) in un ambiente sociale che
abbiamo costruito come immaginario. E tuttavia l’attuale situazione migratoria
ha a che vedere con il nostro destino di occidentali, vittime infine, della qualità
del nostro stesso processo storico. Poiché se non il destino, per lo meno la
contingenza può essere governata, capisco bene che, più o meno lieti di
prendere questi provvedimenti, è necessaria istituire una selezione
dell’accoglienza, molto rigorosa, ma il più civile possibile perché stiamo
decidendo di vite umane. Politicamente c’è solo la contingenza con le sue
possibilità. Esiste tuttavia anche una immaginazione filosofica, un’altra
confidenza con il tempo. E allora genererebbe troppa inquietudine, apparirebbe
un’esagerazione “catastrofista” se dicessi che l’emigrazione attuale potrebbe
essere solo il preludio di una emigrazione di popoli, come si è visto in altre
epoche, quando questi popoli non avevano più risorse sufficienti?