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mercoledì 15 marzo 2017

Per chi suona la campana
di Franco D'alfonso   

Che alla guida ci sia Tremonti o Renzi, Monti o Letta, c’è una costante nel governo dell’economia italiana: per garantire coperture impossibili a misure di politica economica spesso fallimentari, il governo centrale promette di eliminare la “spesa pubblica improduttiva”. Il tentativo di dare un volto a questa creatura ormai mitologica (questa voce nei bilanci dei Ministeri non si trova mai..), i “mostri” offerti all’opinione pubblica sono prevalentemente sempre gli stessi , gli enti locali “inutili” e le partecipate “carrozzoni”.
Il complesso di norme, leggi e prassi prodotte in questi anni è una apparentemente contraddittoria e confusa legislazione , funzionale però ad un approccio da “rivoluzione culturale” condotta da un ceto burocratico-ministeriale osco-latino che ha fatto regredire l’intero sistema delle autonomie locali ai livelli dello stato sabaudo e fascista, cancellando in pochi anni tutta la “rivoluzione delle autonomie”.
Questa fase politica è iniziata con il “patto di stabilità interna” inventato da Tremonti e spacciato per una “imposizione” europea di cui non esiste traccia nemmeno nelle bozze scartate dei Trattati, che ha impedito qualsiasi possibilità di investimento da parte degli enti locali. Il volume totale di questi investimenti, superiore ai 50 miliardi l’anno all’inizio del Millennio, è precipitata fino ai pochi miliardi di questi anni, con le conseguenze di deterioramento di patrimonio e territorio di cui ci accorgiamo quando crolla un ponte sulla superstrada di Lecco.
Il passo successivo è stata l’eliminazione sostanziale dell’autonomia impositiva (quest’anno per il secondo anno di seguito tasse e tariffe locali sono bloccate al livello del 2014), il progressivo azzeramento dei trasferimenti in spesa corrente e l’imposizione di parametri di contabilità che impediscono qualsiasi politica di bilancio anche ad enti sani e “ricchi” come Comune ed ex Provincia di Milano e, per la verità, quasi tutti i grandi Comuni lombardi . A questa diminuzione ha corrisposto letteralmente una esplosione della domanda di servizi , a partire dal welfare, il cui peso sociale, politico ed economico ha di fatto portato l’intero sistema in una situazione di sostanziale paralisi.
Gli effetti di queste politiche sulla spesa corrente sono del resto certificate dalla lettura del bilancio dello Stato. Limitando l’analisi ai tre anni dell’ultimo Governo, vediamo che la sola discontinuità con i governi precedenti è data dall’utilizzo di complessivi 20 miliardi di “flessibilità” in incremento del debito e da 19 miliardi di taglio della spesa corrente sugli enti locali, mentre nello stesso periodo nessuno Ministero o Dipartimento governativo ha avuto un incremento inferiore allo 0,2 per cento sull’anno precedente . Il famoso “risanamento dei conti” è stato interamente e con voluta approssimazione scaricato sui sindaci, presidenti di provincia ( privati di soldi e di rappresentanza politica, ma non di oneri e competenze delegate) e Governatori, spinti sempre più ad essere solo degli assessori alla Sanità (il solo comparto di spesa in incremento costante). I segnali di oggi, dai decreti attuativi – Madia alle nuove norme sulle municipalizzate, ci fanno capire che stiamo entrando nella fase finale, quella della sottrazione dei patrimoni locali. Gli allarmi e le paure si stanno spostando dal “taglio alla spesa” al “taglio del debito pubblico” che, in assenza di crescita economica, può essere effettuato solo con le “privatizzazioni”, con singolare e sinistro parallelismo con quanto avvenne negli anni ’90 : allora “ per salvare l’Italia dal baratro “si smantellò l’intero sistema delle Partecipazioni Statali e si (s)vendettero tutti gli immobili dei fondi, banche ed assicurazione. Il risultato fu che il debito pubblico ha continuato a crescere, di fatto mandando i ricavi da privatizzazione a spingere il tasso già vivace di incremento della spesa pubblica; sui mercati interessati, da quello delle telecomunicazioni ai surgelati, non si è verificata alcuna apprezzabile riduzione dei costi di beni e servizi per i cittadini e spesso sono stati occupati ed influenzati da oligopolisti esteri, per beffa molto spesso francesi, tedeschi ed olandesi, i cui governi e commissari sono tra i più attivi a pressarci per le “liberalizzazioni”; infine, alcuni servizi con importanti implicazioni sociali, come quello delle locazioni, sono letteralmente spariti o quasi, riducendosi ai livelli di Grecia e Portogallo e favorendo lo sviluppo e la successiva esplosione della bolla dei mutui immobiliari. La smobilizzazione del patrimonio dello Stato è oggi possibile in misura piuttosto marginale: qualche azienda sopravvissuta alla grande svendita (Finmeccanica-Leonardo, le difficilmente piazzabili Ferrovie e Poste), immobili poco vendibili come le caserme o siti industriali dismessi. L’attenzione torna quindi sul patrimonio di aziende, immobili e terreni di proprietà soprattutto di Comuni e Province: stiamo parlando di 7-800 miliardi di euro di valore teorico, più di un terzo del patrimonio pubblico globale.
Ovviamente la “soluzione finale” per gli enti locali è preparata e preceduta da una accurata campagna di disinformazione, che attribuisce per esempio alle municipalizzate il ruolo di “sentina del mondo” già attribuita all’ “acciaio di stato” prima della cessione ai “risanatori” privati della famiglia Riva: sono “poltrone per politici locali”, “perdono soldi”, hanno” troppi dipendenti”, etc.
Come sempre, si tratta di molti fatti veri elevati però a regola di sistema, impedendo le distinzioni: si parla del disastro vero delle aziende municipali romane o palermitane, ma si fanno regole che impattano prima di tutto su quelle che danno servizi ed utili essendo in perfetta salute, come quelle di Milano o le tante ora consorziate in Lombardia, Emilia, Toscana, Umbria. Se questo è il quadro, nessuno può chiamarsi fuori : se oggi la campana suona per Isernia o la Città Metropolitana, il prossimo rintocco sarà per il comune di Milano o di qualche altra ricca ed apparentemente intoccabile città.