Per chi suona
la campana
di Franco D'alfonso
Che alla guida ci sia
Tremonti o Renzi, Monti o Letta, c’è una costante nel governo dell’economia
italiana: per garantire coperture impossibili a misure di politica economica
spesso fallimentari, il governo centrale promette di eliminare la “spesa
pubblica improduttiva”. Il tentativo di dare un volto a questa creatura ormai
mitologica (questa voce nei bilanci dei Ministeri non si trova mai..), i
“mostri” offerti all’opinione pubblica sono prevalentemente sempre gli stessi ,
gli enti locali “inutili” e le partecipate “carrozzoni”.
Il
complesso di norme, leggi e prassi prodotte in questi anni è una apparentemente
contraddittoria e confusa legislazione , funzionale però ad un approccio da
“rivoluzione culturale” condotta da un ceto burocratico-ministeriale
osco-latino che ha fatto regredire l’intero sistema delle autonomie locali ai
livelli dello stato sabaudo e fascista, cancellando in pochi anni tutta la
“rivoluzione delle autonomie”.
Questa
fase politica è iniziata con il “patto di stabilità interna” inventato da
Tremonti e spacciato per una “imposizione” europea di cui non esiste traccia
nemmeno nelle bozze scartate dei Trattati, che ha impedito qualsiasi
possibilità di investimento da parte degli enti locali. Il volume totale di
questi investimenti, superiore ai 50 miliardi l’anno all’inizio del Millennio,
è precipitata fino ai pochi miliardi di questi anni, con le conseguenze di
deterioramento di patrimonio e territorio di cui ci accorgiamo quando crolla un
ponte sulla superstrada di Lecco.
Il
passo successivo è stata l’eliminazione sostanziale dell’autonomia impositiva
(quest’anno per il secondo anno di seguito tasse e tariffe locali sono bloccate
al livello del 2014), il progressivo azzeramento dei trasferimenti in spesa
corrente e l’imposizione di parametri di contabilità che impediscono qualsiasi
politica di bilancio anche ad enti sani e “ricchi” come Comune ed ex Provincia
di Milano e, per la verità, quasi tutti i grandi Comuni lombardi . A questa
diminuzione ha corrisposto letteralmente una esplosione della domanda di
servizi , a partire dal welfare, il cui peso sociale, politico ed economico ha
di fatto portato l’intero sistema in una situazione di sostanziale paralisi.
Gli
effetti di queste politiche sulla spesa corrente sono del resto certificate
dalla lettura del bilancio dello Stato. Limitando l’analisi ai tre anni
dell’ultimo Governo, vediamo che la sola discontinuità con i governi precedenti
è data dall’utilizzo di complessivi 20 miliardi di “flessibilità” in incremento
del debito e da 19 miliardi di taglio della spesa corrente sugli enti locali,
mentre nello stesso periodo nessuno Ministero o Dipartimento governativo ha
avuto un incremento inferiore allo 0,2 per cento sull’anno precedente . Il famoso
“risanamento dei conti” è stato interamente e con voluta approssimazione
scaricato sui sindaci, presidenti di provincia ( privati di soldi e di
rappresentanza politica, ma non di oneri e competenze delegate) e Governatori,
spinti sempre più ad essere solo degli assessori alla Sanità (il solo comparto
di spesa in incremento costante). I segnali di oggi, dai decreti attuativi –
Madia alle nuove norme sulle municipalizzate, ci fanno capire che stiamo
entrando nella fase finale, quella della sottrazione dei patrimoni locali. Gli
allarmi e le paure si stanno spostando dal “taglio alla spesa” al “taglio del
debito pubblico” che, in assenza di crescita economica, può essere effettuato
solo con le “privatizzazioni”, con singolare e sinistro parallelismo con quanto
avvenne negli anni ’90 : allora “ per salvare l’Italia dal baratro “si
smantellò l’intero sistema delle Partecipazioni Statali e si (s)vendettero
tutti gli immobili dei fondi, banche ed assicurazione. Il risultato fu che il
debito pubblico ha continuato a crescere, di fatto mandando i ricavi da
privatizzazione a spingere il tasso già vivace di incremento della spesa
pubblica; sui mercati interessati, da quello delle telecomunicazioni ai
surgelati, non si è verificata alcuna apprezzabile riduzione dei costi di beni
e servizi per i cittadini e spesso sono stati occupati ed influenzati da
oligopolisti esteri, per beffa molto spesso francesi, tedeschi ed olandesi, i
cui governi e commissari sono tra i più attivi a pressarci per le
“liberalizzazioni”; infine, alcuni servizi con importanti implicazioni sociali,
come quello delle locazioni, sono letteralmente spariti o quasi, riducendosi ai
livelli di Grecia e Portogallo e favorendo lo sviluppo e la successiva
esplosione della bolla dei mutui immobiliari. La smobilizzazione del patrimonio
dello Stato è oggi possibile in misura piuttosto marginale: qualche azienda
sopravvissuta alla grande svendita (Finmeccanica-Leonardo, le difficilmente
piazzabili Ferrovie e Poste), immobili poco vendibili come le caserme o siti
industriali dismessi. L’attenzione torna quindi sul patrimonio di aziende,
immobili e terreni di proprietà soprattutto di Comuni e Province: stiamo
parlando di 7-800 miliardi di euro di valore teorico, più di un terzo del
patrimonio pubblico globale.
Ovviamente
la “soluzione finale” per gli enti locali è preparata e preceduta da una
accurata campagna di disinformazione, che attribuisce per esempio alle
municipalizzate il ruolo di “sentina del mondo” già attribuita all’ “acciaio di
stato” prima della cessione ai “risanatori” privati della famiglia Riva: sono
“poltrone per politici locali”, “perdono soldi”, hanno” troppi dipendenti”,
etc.
Come
sempre, si tratta di molti fatti veri elevati però a regola di sistema,
impedendo le distinzioni: si parla del disastro vero delle aziende municipali
romane o palermitane, ma si fanno regole che impattano prima di tutto su quelle
che danno servizi ed utili essendo in perfetta salute, come quelle di Milano o
le tante ora consorziate in Lombardia, Emilia, Toscana, Umbria. Se questo è il
quadro, nessuno può chiamarsi fuori : se oggi la campana suona per Isernia o la
Città Metropolitana, il prossimo rintocco sarà per il comune di Milano o di
qualche altra ricca ed apparentemente intoccabile città.