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mercoledì 8 marzo 2017

Un equivoco postmoderno - Keit Haring
di Claudio Zanini

Credo che Keith Haring non si sarebbe mai aspettato che il suo omino pittogramma, l’icona antropomorfa, potesse vantare una relazione con l’Uomo Vitruviano di Leonardo, come sostiene con passione il curatore della mostra, Gianni Mercurio. Allo stesso modo, l’icona maschile del WC (segno funzionale e d’eccellente leggibilità, e anch’esso parente, forse più stretto, dell’omino haringhiano), potrebbe dirsi legittimamente erede dei Kouroi greci arcaici.
A parte questo dettaglio, la mostra al Palazzo Reale di Milano, dedicata a Haring è una mostra importante e ben organizzata (dal peraltro ottimo curatore). Ciò nonostante, il suo taglio critico mi ha suscitato alcune perplessità. Prima di verificarne il fondamento, collochiamo Haring nel suo tempo/spazio: New York, verso la fine degli anni ’70, in piena fioritura Pop Art, mentore Andy Warhol. Haring esordisce come graffitista, dipingendo i muri della metropoli con Basquiat e altri artisti di strada. Muore nel 1990 giovanissimo, a soli 32 anni.
Ora vediamo brevemente cos’è e di cosa s’occupa la sua pittura. Colpisce subito il suo linguaggio semplice e immediato. L’impiego dei colori puri e privi di sfumature produce superfici squillanti, che ricordano la cartellonistica pubblicitaria. Il segno nero, deciso, traccia un’icona elementare: il famoso pittogramma d’una figura antropomorfa stilizzata e anonima, priva di volto, con le braccia alzate. L’esito è una pittura gioiosa, vivace, di subitaneo impatto, indirizzata ai non addetti ai lavori. Haring intende, infatti, porsi fuori dai musei, dal circuito delle gallerie e, soprattutto, dal sistema dell’arte, per rivolgersi a tutti, alla gente comune. Il carattere sintetico del segno obbedisce anche all’esigenza della rapidità d’esecuzione richiesta dalla tecnica della Street Art e dal fatto che i segni (segnali) devono essere percepiti nel caos del traffico urbano. Mentre il suo omino, che deriva dalla grafica elementare e accattivante di fumetti e cartoons, colpisce subito l’immaginario collettivo.
Spesso si tratta di sequenze che ricordano le strisce dei fumetti; oppure di composizioni articolate, ricche d’invenzioni iconiche, dove si assiste all’infittirsi delle figurine, al loro unirsi e reciproco compenetrarsi, come per testimoniare una loro necessaria simbiosi. Sovente la complessità dell’immagine è fornita dalla serie di eleganti arabeschi che si moltiplicano proliferando, spesso contenuti entro forme riconoscibili (vedi quella di Mickey Mouse) nelle opere sul tema della maternità e nella tavola sagomata e incisa del suo famoso “Crawling baby” (1984) che riproduce i temi di nascita, vita e morte.


L’ispirazione di Haring come s’è detto, in molti dipinti, gaia e gioiosa, diventa spesso drammatica nelle installazioni, nelle ampie superfici animate da un pullulare ossessivo di segni dove le sue figurine sono irretite entro una sarabanda di mostri generati dall’immaginario di Bosch; qui l’arabesco diventa labirinto dominato da una sorta d’horror vacui, senza via d’uscita.
Ci si potrebbe fermare qui, ma il taglio della mostra presenta ulteriori e più ambiziosi livelli di lettura. Tra essi, quello sull’impegno sociale e politico. È noto come Haring rifiuti il sistema dell’arte e il profitto economico a esso legato, e si cimenti con temi forti come il razzismo, la guerra, la droga, la violenza urbana ecc. Questo dato esistenziale, tuttavia, non implica necessariamente che la sua si possa definire una pittura impegnata. Guardando le sue opere si nota una contraddizione tra tematiche forti, complesse, e la scelta linguistica dell’icona che sollecita una percezione semplice e immediata, una riconoscibilità istantanea con la perentorietà della figurazione Pop (l’intero repertorio dei marchi, da Campbell di Warhol in avanti). Dunque, un linguaggio elementare, simultaneo (tutto vive simultaneamente, dice Haring) che si sviluppa in superficie (deve e vuole raggiungere tutti dappertutto), e ignora, inevitabilmente, la dimensione verticale, storica; che non si può recuperare con la rappresentazione sommaria (iconica). Per esempio: un serpente - eruttato da uno scheletro -, il quale divora un omino, e da un fungo atomico, allude, certo, al pericolo d’una guerra atomica; ma è uno slogan, un grido inarticolato. L’icona è priva di profondità semantica se non ha stratificazione di rimandi: significa solo se stessa. Quindi è funzionale all’epoca della globalizzazione: si rivolge a tutto il pianeta; così come la M di MacDonald veicola lo stesso unico messaggio a tutto il mondo.
Nella critica dell’esistente funziona molto più l’amico Basquiat, -street/artista come Keith, ma che con lui c’entra poco- il quale sporca, tritura, frammenta i linguaggi e ne restituisce le spoglie con un’espressività inedita, selvaggia (che forse può o vuole non piacere). Oppure, se ci si riferisce a un linguaggio figurativo vicino a Haring (e alle sue origini: il padre disegnava fumetti e cartoni animati), ben altro spessore critico e politicamente scorretto hanno dei cartoons come i Simpson, Beavis and Butter-head, ecc. Ma, qui si tratta di personaggi con dei visi e delle storie, non d’icone prive di volto.
 Lo stesso equivoco riguarda il rapporto con l’arte classica e quella della prima metà del ‘900. Tant’è vero che la sezione degli apparentamenti e dei richiami ai linguaggi artistici del passato rivela, suo malgrado, l’artificiosità dell’operazione. Nel caso di Haring (che, tra l’altro, intendeva occultare la fonte di riferimento), i suoi debiti consistono nel mero appropriarsi del soggetto, semplificandolo mediante la traduzione nel suo linguaggio iconico. Si veda cosa diventa il fregio della colonna traiana in Haring: una serie d’icone antropomorfe sbilenche; lo stesso accade a quelle che dovrebbero essere ispirate al rilievo di Michelangelo, alla Lupa Capitolina, e così via. Nessuno nega che abbia guardato e amato l’arte classica, Pollock, Klee, Dubuffet, Picasso, ecc. Tuttavia, il discorso è un altro.


Parlare, quindi, di neoumanesimo, come indulge il curatore della mostra, apparentando l’icona antropomorfa di Haring all’uomo vitruviano di Leonardo, mi pare oltremodo fuorviante. Si attribuiscono alla pittura di Haring significati che non può, né, credo, intendesse avere. Non ci siamo. Le simpatiche figurine di Haring sono massa senza volto, somma d’individui sincronici e fungibili (direi, come la merce sul mercato globale); il loro spazio è la superficie bidimensionale.
(A proposito dell’assenza di volto, tra l’altro, vorrei ricordare che la faticosa conquista dell’effige umana avviene dopo secoli di progressivo sviluppo, arricchimento e “vissuto” dell’immagine, nel Rinascimento. Mentre qui, non mi pare che la spersonalizzazione assuma in sé una dimensione tragica e di marcata critica; al fondo, risulta ambigua).
Qui siamo nello spazio della simultaneità anonima della rete (l’icona è quella virtuale del computer?), il passato è una categoria obsoleta esclusa dal presente. Leonardo non c’entra. Cercare, dunque, un aggancio con la classicità, seppure per nobilitare (?) il linguaggio di Haring, significa snaturarne l’ispirazione.

A mio parere, definire Keith Haring, vero umanista (vedi articolo di Gianni Mercurio sul Sole 24 ore di domenica 19 febbraio 2017), significa disconoscerne la specifica dimensione d’artista immerso nell’esperienza della Street Art, nata nell’urgenza del tragico presente urbano delle metropoli; e, nel non voler identificare nel suo segno un segnale irridente, ironico e giocoso, che appare quale flash istantaneo, colpisce con forza lo sguardo e dilegua.
Salvo che non s’intenda conferire alle opere in questione una patina di valore aggiunto, una nobiltà di superficie al fine d’accrescere il valore finanziario e il prestigio dell’intera operazione (critici, sponsor, collezionisti, organizzatori). Allora, parafrasando Bogart, ci viene in mente di dire: “Questo è il mercato, bellezza!”

Per le opere riprodotte, "All Haring Works © Keith Haring Foundation".
[A Milano Palazzo Reale fino a giugno]