Un equivoco postmoderno
- Keit Haring
di Claudio Zanini
Credo che Keith Haring non si
sarebbe mai aspettato che il suo omino pittogramma, l’icona antropomorfa, potesse vantare una relazione con l’Uomo
Vitruviano di Leonardo, come sostiene con passione il curatore della
mostra, Gianni Mercurio. Allo stesso modo, l’icona maschile del WC (segno funzionale
e d’eccellente leggibilità, e anch’esso parente, forse più stretto, dell’omino
haringhiano), potrebbe dirsi legittimamente erede dei Kouroi greci arcaici.
A parte questo dettaglio, la mostra al Palazzo
Reale di Milano, dedicata a Haring è una mostra importante e ben organizzata
(dal peraltro ottimo curatore). Ciò nonostante, il suo taglio critico mi ha suscitato
alcune perplessità. Prima di verificarne il fondamento, collochiamo Haring nel suo
tempo/spazio: New York, verso la fine degli anni ’70, in piena fioritura Pop
Art, mentore Andy Warhol. Haring esordisce come graffitista, dipingendo i muri
della metropoli con Basquiat e altri artisti
di strada. Muore nel 1990 giovanissimo, a soli 32 anni.
Ora vediamo brevemente cos’è e di cosa s’occupa la
sua pittura. Colpisce subito il suo linguaggio semplice e immediato. L’impiego
dei colori puri e privi di sfumature produce superfici squillanti, che
ricordano la cartellonistica pubblicitaria. Il segno nero, deciso, traccia
un’icona elementare: il famoso pittogramma d’una figura antropomorfa stilizzata
e anonima, priva di volto, con le braccia alzate. L’esito è una pittura
gioiosa, vivace, di subitaneo impatto, indirizzata ai non addetti ai lavori.
Haring intende, infatti, porsi fuori dai musei, dal circuito delle gallerie e,
soprattutto, dal sistema dell’arte, per rivolgersi a tutti, alla gente comune.
Il carattere sintetico del segno obbedisce anche all’esigenza della rapidità
d’esecuzione richiesta dalla tecnica della Street
Art e dal fatto che i segni (segnali) devono essere percepiti nel caos del
traffico urbano. Mentre il suo omino, che deriva dalla grafica elementare e
accattivante di fumetti e cartoons,
colpisce subito l’immaginario collettivo.
Spesso si tratta di sequenze che ricordano le strisce dei fumetti; oppure di
composizioni articolate, ricche d’invenzioni iconiche, dove si assiste
all’infittirsi delle figurine, al loro unirsi e reciproco compenetrarsi, come
per testimoniare una loro necessaria simbiosi. Sovente la complessità
dell’immagine è fornita dalla serie di eleganti arabeschi che si moltiplicano
proliferando, spesso contenuti entro forme riconoscibili (vedi quella di Mickey
Mouse) nelle opere sul tema della maternità e nella tavola sagomata e incisa
del suo famoso “Crawling baby” (1984) che riproduce i temi di nascita, vita e
morte.
L’ispirazione di Haring come s’è detto, in molti
dipinti, gaia e gioiosa, diventa spesso drammatica nelle installazioni, nelle
ampie superfici animate da un pullulare ossessivo di segni dove le sue figurine
sono irretite entro una sarabanda di mostri generati dall’immaginario di Bosch;
qui l’arabesco diventa labirinto dominato da una sorta d’horror vacui, senza via d’uscita.
Ci si potrebbe fermare qui, ma il taglio della
mostra presenta ulteriori e più ambiziosi livelli di lettura. Tra essi, quello
sull’impegno sociale e politico. È noto come Haring rifiuti il sistema
dell’arte e il profitto economico a esso legato, e si cimenti con temi forti
come il razzismo, la guerra, la droga, la violenza urbana ecc. Questo dato
esistenziale, tuttavia, non implica necessariamente che la sua si possa
definire una pittura impegnata. Guardando le sue opere si nota una
contraddizione tra tematiche forti, complesse, e la scelta linguistica
dell’icona che sollecita una percezione semplice e immediata, una
riconoscibilità istantanea con la perentorietà della figurazione Pop (l’intero
repertorio dei marchi, da Campbell di
Warhol in avanti). Dunque, un linguaggio elementare, simultaneo (tutto vive
simultaneamente, dice Haring) che si sviluppa in superficie (deve e vuole
raggiungere tutti dappertutto), e ignora, inevitabilmente, la dimensione
verticale, storica; che non si può recuperare con la rappresentazione sommaria
(iconica). Per esempio: un serpente - eruttato da uno scheletro -, il quale
divora un omino, e da un fungo atomico, allude, certo, al pericolo d’una guerra
atomica; ma è uno slogan, un grido inarticolato. L’icona è priva di profondità
semantica se non ha stratificazione di rimandi: significa solo se stessa.
Quindi è funzionale all’epoca della globalizzazione: si rivolge a tutto il
pianeta; così come la M di MacDonald veicola lo stesso unico messaggio a tutto
il mondo.
Nella critica dell’esistente funziona molto più
l’amico Basquiat, -street/artista
come Keith, ma che con lui c’entra poco- il quale sporca, tritura, frammenta i
linguaggi e ne restituisce le spoglie con un’espressività inedita, selvaggia
(che forse può o vuole non piacere). Oppure, se ci si riferisce a un linguaggio
figurativo vicino a Haring (e alle sue origini: il padre disegnava fumetti e cartoni animati), ben altro
spessore critico e politicamente scorretto hanno dei cartoons come i Simpson, Beavis and Butter-head, ecc. Ma, qui si
tratta di personaggi con dei visi e delle storie, non d’icone prive di volto.
Lo stesso
equivoco riguarda il rapporto con l’arte classica e quella della prima metà del
‘900. Tant’è vero che la sezione degli apparentamenti e dei richiami ai
linguaggi artistici del passato rivela, suo malgrado, l’artificiosità
dell’operazione. Nel caso di Haring (che, tra l’altro, intendeva occultare la
fonte di riferimento), i suoi debiti consistono nel mero appropriarsi del
soggetto, semplificandolo mediante la traduzione nel suo linguaggio iconico. Si
veda cosa diventa il fregio della colonna traiana in Haring: una serie d’icone
antropomorfe sbilenche; lo stesso accade a quelle che dovrebbero essere
ispirate al rilievo di Michelangelo, alla Lupa Capitolina, e così via. Nessuno
nega che abbia guardato e amato l’arte classica, Pollock, Klee, Dubuffet,
Picasso, ecc. Tuttavia, il discorso è un altro.
Parlare, quindi, di neoumanesimo, come indulge il
curatore della mostra, apparentando l’icona antropomorfa di Haring all’uomo vitruviano di Leonardo, mi pare oltremodo
fuorviante. Si attribuiscono alla pittura di Haring significati che non può,
né, credo, intendesse avere. Non ci siamo. Le simpatiche figurine di Haring
sono massa senza volto, somma d’individui sincronici e fungibili (direi, come
la merce sul mercato globale); il loro spazio è la superficie bidimensionale.
(A proposito dell’assenza di volto, tra l’altro,
vorrei ricordare che la faticosa conquista dell’effige umana avviene dopo
secoli di progressivo sviluppo, arricchimento e “vissuto” dell’immagine, nel
Rinascimento. Mentre qui, non mi pare che la spersonalizzazione assuma in sé
una dimensione tragica e di marcata critica; al fondo, risulta ambigua).
Qui siamo nello spazio della simultaneità anonima
della rete (l’icona è quella virtuale
del computer?), il passato è una categoria obsoleta esclusa dal presente.
Leonardo non c’entra. Cercare, dunque, un aggancio con la classicità, seppure
per nobilitare (?) il linguaggio di Haring, significa snaturarne l’ispirazione.
A mio parere, definire Keith Haring, vero umanista
(vedi articolo di Gianni Mercurio sul Sole
24 ore di domenica 19 febbraio 2017), significa disconoscerne la specifica
dimensione d’artista immerso nell’esperienza della Street Art, nata nell’urgenza del tragico presente urbano delle
metropoli; e, nel non voler identificare nel suo segno un segnale irridente,
ironico e giocoso, che appare quale flash istantaneo, colpisce con forza lo
sguardo e dilegua.
Salvo che non s’intenda conferire alle opere in
questione una patina di valore aggiunto, una nobiltà di superficie al fine
d’accrescere il valore finanziario e il prestigio dell’intera operazione
(critici, sponsor, collezionisti, organizzatori). Allora, parafrasando Bogart,
ci viene in mente di dire: “Questo è il mercato, bellezza!”
Per le opere riprodotte, "All Haring Works © Keith Haring Foundation".
[A Milano Palazzo Reale fino a giugno]
Per le opere riprodotte, "All Haring Works © Keith Haring Foundation".
[A Milano Palazzo Reale fino a giugno]