Avevo già notato, in una precedente presentazione
a Dionisi, come la sua pittura fosse orientata verso posizioni gestuali di un
vitalismo fra il «popolare» e il «romantico» (virgolette necessarie, poiché non
intendo riferirmi a significati storicizzati dei due termini), di una tensione
da morphologie autre con venature espressionistiche e da opera non terminata, non ripassata
dagli strumenti della ragione. Mi pare, oggi, che Dionisi non si sia separato
da queste caratteristiche che gli sono evidentemente naturali, e che le abbia
invece arricchite di motivazioni sempre più precise. Nelle masse che si
slanciano vertiginose e contorte in spazi generalmente monocromi, e che sono
trattate con una sorta di vigorosa indifferenza verso il dato estetizzante per
quel che riguarda eventuali raffinatezze o concessioni al piacevole, se da un
lato si può riconoscere una lontana aspirazione a elevazioni e distorsioni
barocche, a esasperazioni monumentali, dall'altro si intravede una carica
rabbiosa che non nasconde una volontà di riflessioni di tipo sociale. Le forme,
a prima vista di una brutale astrazione gestuale, hanno una precisa origine
antropomorfica, e sono corpi, mani, teste come ridotte a un fasciame di muscoli
scoperti, mentre in altri casi l’occhio è come se penetrasse all’interno di
ogni immagine a cogliere un particolare e a limitarlo, fino a farne il soggetto
di una serie di «mandala» scarnificate. A mio parere, la chiave di comprensione
di quanto Dionisi sta cercando di fare è data dai collages, dove un elemento fotografico isolato e di provenienza significativa
(il Vietnam, gli alienati, ecc.) viene
a integrarsi e a sommergersi in masse che ne riecheggiano in toni sordi e
bruschi il motivo di fondo. A uno sguardo orientato verso soluzioni di quiete
razionale i risultati di Dionisi possono anche apparire incompleti, o
transitori, ma è difficile non cogliere la forza da cui sono stati dettati.