PER UGO FABIETTI
di Fulvio Papi
Un ricordo toccante ed emozionante di Fulvio Papi per
l’amico antropologo Ugo Fabietti, recentemente scomparso.
Ugo Fabietti |
E così Ugo Fabietti sen’è andato sotto un
tumulo nel cimitero di Cetona, in Toscana, dove sono sepolti i suoi genitori e
i suoi più tardi parenti. L’identificazione affettiva della famiglia per tutta
la vita è sempre stata vissuta come fedeltà a una splendida terra prossima al
monte Amiata. Il ritorno definitivo di Ugo era atteso ma in un tempo molto più
lontano, quando avrebbe potuto portare avanti all’Università e altrove le opere
che derivavano dalla figura magistrale di antropologo in Italia e ben al di là
del nostro limite. Ugo dal giorno in cui fu chiamato alla cattedra
all’Università di Milano proseguì la sua opera di ricerca personale ma, com’era
quasi obbligo e costume della sua provenienza universitaria, formò molti
giovani capaci agli studi antropologici ed ebbe come colleghi prossimi figure
culturalmente di primo piano intellettuale e di affinità affettiva.
L’antropologia ha perduto un maestro che assieme al collega e amico Remotti ha
dato un contenuto e uno stile internazionale alla ricerca rinnovando
completamente l’epoca dell’etnologia locale che aveva avuto i suoi meriti, ma
ormai mostrava un inevitabile declino intellettuale. Ho cominciato il mio
scritto con notizie affettive che, probabilmente, si trovano ovunque, ma è
stata una difesa, forse inconscia, dallo scoramento, il dolore, la ribellione
silenziosa a una perdita che s’è portata con sé un tratto che fu felice della
mia lunga vita con Ugo. Non verrà più a trovarmi ogni tanto alla domenica
mattina, quando lui, ormai maestro riconosciuto ovunque di un prezioso sapere, ed
io vecchio filosofo, forse ancora impegnato nel gioco di concetti viventi,
discorrevamo come nei tempi più antichi, Ugo sempre con un lieve sorriso e un
parlare limpido, ma quasi sottovoce, che io poi, secondo un antico costume, gli
restituivo con qualche parola in più alla comune ricerca di un ordine più
trasparente. È quello che accadeva
trenta o quaranta anni fa intorno ai temi che costituivano la sua identità
culturale in pieno sviluppo e la mia, appena sufficiente, nozione antropologica
che avevo imparato dal prezioso vagabondaggio culturale di Remo Cantoni. A
Milano non c’era interesse per gli studi antropologici, e così Ugo venne a
Pavia dove insegnavo teoretica, ma ero del tutto interessato a un allargamento
degli spazi di riflessione. Conoscevo Ugo da ragazzo poiché suo padre Renato,
professore anch’egli ma al tempo valoroso partigiano, era un amico caro che
frequentavo con una viva amicizia. Ricordo il momento della tesi e del diploma
di perfezionamento quando per trovare un argomento di tesi, che poi fu su una
popolazione amazzonica, fummo aiutati da un antropologo francese, il prof.
Meillassoux con il quale Ugo proseguì poi gli studi a Parigi. Meillassoux era
marxista, e anche qui a Milano, forse più liberamente, l’aria era simile e il
problema era quello del rapporto tra produzione economica e assetto sociale.
Ora sono ovvietà, ma allora erano problemi. Ugo non fu un antropologo da spazio
privilegiato delle letture universitarie. Fu un antropologo che conobbe
ampiamente la formazione antropologica “sul campo”. In un primo momento nel
Nord Africa, nelle zone desertiche a contatto con la popolazioni nomadi. Qui i
problemi teorici prendevano la fatale proposizione nella realtà. E poi nel
Belucistan di cui con ben scarsa eloquenza raccontava qualche episodio, segno
che ne aveva derivato una memoria affettiva. Poi con il passare degli anni il
suo lavoro prese due linee di ricerca.
Ugo Fabietti |
Per un verso una approfondita ricerca
sulla storia del pensiero antropologica, le sue, latenti e no, ideologie più
generali, la contrapposizione dei vari metodi di ricerca, influenzati o meno
dalla cultura filosofica (che, per la verità Ugo non abbandonò mai). Libri
colti, ordinati, e soprattutto pensati che è il solo modo per fare veramente
scuola. E per altro verso Ugo rinnovò le forme e gli oggetti, dell’antropologia
nella rapida trasformazione del mondo, quando i sistemi economici,
comunicativi, di costume tendeva a globalizzarsi in modo da ibridare ogni forma
culturale. L’antropologia diventava così un sapere che rinnovava le nostre
immagini del mondo. Capisco che tutto questo lavoro abbia dato a Ugo una figura
innovativa ed eminente nella cultura contemporanea e, all’Università, un’ampia
scuola di allievi. Tutto questo resterà perché come diceva Hegel, è “spirito
oggettivo”. A me, e immagino a molti altri, resterà soprattutto la perdita
della sua vita, attiva, generosa, intelligente. Uno di quegli abbandoni che non
“si elaborano” ma restano una qualità dell’esistenza.