Pagine

martedì 16 maggio 2017

PER UGO FABIETTI
di Fulvio Papi

Un ricordo toccante ed emozionante di Fulvio Papi per l’amico antropologo Ugo Fabietti, recentemente scomparso.

Ugo Fabietti


E così Ugo Fabietti sen’è andato sotto un tumulo nel cimitero di Cetona, in Toscana, dove sono sepolti i suoi genitori e i suoi più tardi parenti. L’identificazione affettiva della famiglia per tutta la vita è sempre stata vissuta come fedeltà a una splendida terra prossima al monte Amiata. Il ritorno definitivo di Ugo era atteso ma in un tempo molto più lontano, quando avrebbe potuto portare avanti all’Università e altrove le opere che derivavano dalla figura magistrale di antropologo in Italia e ben al di là del nostro limite. Ugo dal giorno in cui fu chiamato alla cattedra all’Università di Milano proseguì la sua opera di ricerca personale ma, com’era quasi obbligo e costume della sua provenienza universitaria, formò molti giovani capaci agli studi antropologici ed ebbe come colleghi prossimi figure culturalmente di primo piano intellettuale e di affinità affettiva. L’antropologia ha perduto un maestro che assieme al collega e amico Remotti ha dato un contenuto e uno stile internazionale alla ricerca rinnovando completamente l’epoca dell’etnologia locale che aveva avuto i suoi meriti, ma ormai mostrava un inevitabile declino intellettuale. Ho cominciato il mio scritto con notizie affettive che, probabilmente, si trovano ovunque, ma è stata una difesa, forse inconscia, dallo scoramento, il dolore, la ribellione silenziosa a una perdita che s’è portata con sé un tratto che fu felice della mia lunga vita con Ugo. Non verrà più a trovarmi ogni tanto alla domenica mattina, quando lui, ormai maestro riconosciuto ovunque di un prezioso sapere, ed io vecchio filosofo, forse ancora impegnato nel gioco di concetti viventi, discorrevamo come nei tempi più antichi, Ugo sempre con un lieve sorriso e un parlare limpido, ma quasi sottovoce, che io poi, secondo un antico costume, gli restituivo con qualche parola in più alla comune ricerca di un ordine più trasparente. È quello che accadeva trenta o quaranta anni fa intorno ai temi che costituivano la sua identità culturale in pieno sviluppo e la mia, appena sufficiente, nozione antropologica che avevo imparato dal prezioso vagabondaggio culturale di Remo Cantoni. A Milano non c’era interesse per gli studi antropologici, e così Ugo venne a Pavia dove insegnavo teoretica, ma ero del tutto interessato a un allargamento degli spazi di riflessione. Conoscevo Ugo da ragazzo poiché suo padre Renato, professore anch’egli ma al tempo valoroso partigiano, era un amico caro che frequentavo con una viva amicizia. Ricordo il momento della tesi e del diploma di perfezionamento quando per trovare un argomento di tesi, che poi fu su una popolazione amazzonica, fummo aiutati da un antropologo francese, il prof. Meillassoux con il quale Ugo proseguì poi gli studi a Parigi. Meillassoux era marxista, e anche qui a Milano, forse più liberamente, l’aria era simile e il problema era quello del rapporto tra produzione economica e assetto sociale. Ora sono ovvietà, ma allora erano problemi. Ugo non fu un antropologo da spazio privilegiato delle letture universitarie. Fu un antropologo che conobbe ampiamente la formazione antropologica “sul campo”. In un primo momento nel Nord Africa, nelle zone desertiche a contatto con la popolazioni nomadi. Qui i problemi teorici prendevano la fatale proposizione nella realtà. E poi nel Belucistan di cui con ben scarsa eloquenza raccontava qualche episodio, segno che ne aveva derivato una memoria affettiva. Poi con il passare degli anni il suo lavoro prese due linee di ricerca. 

Ugo Fabietti
Per un verso una approfondita ricerca sulla storia del pensiero antropologica, le sue, latenti e no, ideologie più generali, la contrapposizione dei vari metodi di ricerca, influenzati o meno dalla cultura filosofica (che, per la verità Ugo non abbandonò mai). Libri colti, ordinati, e soprattutto pensati che è il solo modo per fare veramente scuola. E per altro verso Ugo rinnovò le forme e gli oggetti, dell’antropologia nella rapida trasformazione del mondo, quando i sistemi economici, comunicativi, di costume tendeva a globalizzarsi in modo da ibridare ogni forma culturale. L’antropologia diventava così un sapere che rinnovava le nostre immagini del mondo. Capisco che tutto questo lavoro abbia dato a Ugo una figura innovativa ed eminente nella cultura contemporanea e, all’Università, un’ampia scuola di allievi. Tutto questo resterà perché come diceva Hegel, è “spirito oggettivo”. A me, e immagino a molti altri, resterà soprattutto la perdita della sua vita, attiva, generosa, intelligente. Uno di quegli abbandoni che non “si elaborano” ma restano una qualità dell’esistenza.