Il taccuino rosso di
Lorenzo Di Loreto Uccellini
Forme di trasporto.
Oltre la soglia
di Laura Margherita Volante
Ho incontrato Lorenzo Di Loreto
Uccellini nella sua casa di Pesaro con un comune amico. Subito salta all’occhio
una personalità carismatica e fuori da un certo provincialismo sia per il modo
di porsi sia per un linguaggio semplice proprio ed essenziale. Persona colta,
curiosa e avventurosa, ha voluto presentarmi in anteprima le sue ultime
creazioni ancora fresche di stampa: quattro libretti di una nuova collana di
cui uno dedicato alla poesia romantica dei Maestri del Trascendentalismo
americano mentre gli altri sono una sperimentazione che porta l’autore a fare,
uso delle parole più intensamente che nei passati lavori. Ho letto e riletto i
testi e ho osservato le foto di questa sua collana, ‘WOT’, dove emerge
nell’artista il bisogno di uscire dall’esperienza visiva per cimentarsi in
suoni e parole, infatti i suoi scritti potrebbero essere testi di canzoni, che
colgono lo stato d’animo del tempo in cui ci si può misurare e rispecchiare. Le
parole sono toccanti fino a grattare il fondo dell’anima, dove la soglia fra
l’umano e il divino è invisibile. Ogni parola si fa verbo, densa e sottile come
una lametta: fa male e non si vede. C’è Lorenzo e ci siamo tutti in questa
piega complessa che è la vita, sfuggente e nello stesso tempo incisiva in una
lista di flash. Elenco della memoria. Non resta altro al vivente per
sopravvivere in attesa di lasciare una scia di polvere, di stelle? L’inseparabile
taccuino rosso, rosso come la passione e come il dolore, è il tramite fra l’Io
e l’altro sé, fra schizzi di luce che affondano le radici nel buio. Non sempre
chi viene alla luce trova luce…
L.M.V. Lorenzo,
leggo dalla tua biografia essenziale che hai iniziato a fotografare in Africa.
LU. Sì è vero. Nel 1992 abbandonai
gli studi letterario-filosofici presso l’Università di Urbino e partii con un
caro amico per un’esperienza lavorativa in Africa. Trascorsi tre anni tra i
parchi naturali di Kenya e Tanzania, accompagnando turisti soprattutto
americani e inglesi, e con una macchina fotografica di mio nonno iniziai a
riprendere gli stoccanti scenari naturali. Non mi sono mai interessate le
persone. Da qualche parte dovrei ancora avere centinaia di diapositive di quel
periodo. Tuttavia, una volta rientrato in Italia mi dedicai al mezzo
fotografico quale strumento in grado di dare forma a soggetti meno espliciti,
celati in reconditi spazi della memoria personale e collettiva. Infatti,
nonostante il lavoro, non ho mai smesso di coltivare la mia grande passione per
lo studio del corpus junghiano, della mitologia comparata e della Tradizione
Ermetica, discipline che mi hanno aiutato a comprendere quei moti interiori che
a quell’età iniziavano a pretendere attenzione.
L.M.V. Quindi
hai imparato a fotografare in maniera autodidatta?
LU. Beh, non propriamente. Nel 1996
incontrai il Maestro Frank Dituri, allora insegnante di fotografia presso la
C.W. Post University di Long Island. Oltre a essere il mio autentico mentore è
stato, e continua a esserlo, un grande insegnante. Da lui ho imparato
tantissimo e non sto parlando solo di come fare le foto; un fratello maggiore,
ecco. Devo tantissimo a Frank.
Da James
Megargee, anch’egli newyorkese, ho poi imparato a controllare ogni aspetto dei
processi di stampa fine art. A quel punto non mi serviva altro se non
ascoltare quei richiami sordi e misteriosi e cercare di sublimarli
trasponendoli sulla pellicola fotografica.
L.M.V. L'ispirazione da dove trae origine e spunto per le tue opere
fotografiche in una fase creativa aperta a orizzonti di bellezza e a scenari
legati alla grande Madre Terra?
LU. Indubbiamente la letteratura ha
influenzato tantissimo le mie opere. William Blake e Milton sono riconoscibili
già nei primi tentativi di creare lavori
strutturati, 1996. Ora ho iniziato una serie di volumetti ispirati al
Trascendentalismo americano: Emerson, Whitman, Thoureau sono una buona guida per
affacciarsi alla bellezza, alla Natura e alla divinità in essa intrinseca, e
quindi anche a quella porzione di divino insita nell’uomo, tematiche a me care
in questa fase creativa. Un’altra ispirazione ma forse farei meglio a dire
insegnamento, mi fu rivelato dal grande fotografo Duane Michals, durante una
visita ad una classe del progetto LTA del Guggenheim di New York. Si trattava
di un interessante interscambio culturale tra classi di scuola secondaria
newyorkesi e di altri Paesi. Frank sarebbe
stato l’insegnate per l’anno successivo mentre in quel momento era designato
appunto Michals. ‘Esistono due tipi di
fotografi: quelli il cui soggetto si
trova davanti l’obiettivo e quelli per i quali si trova dietro la macchina
fotografica’; questa frase ha influenzato tutta la mia produzione. Infine,
viaggiando molto e con persone ben introdotte, ho continuamente occasione di
conoscere artisti dai quali, più che ispirazione traggo grandi stimoli,
energia. Uno sopra tutti, vorrei citare il poliedrico Dashi Nadmakov, con il
quale condivido la passione per lo sciamanesimo ed è per me continua fonte di
spunti creativi. Davvero un grandissimo.
L.M.V. Prima mi parlavi della Trilogia ‘The Journey’…
L.U. La Trilogia è stato il mio lavoro più sentito, anche perché ‘Tabula
Rasa’ fu non solo il primo capitolo appunto della trilogia ma anche il mio
primo lavoro strutturato in assoluto. Parliamo ormai di vent’anni fa, 1997.
‘Tabula
Rasa’ riscosse subito un buon successo di critica e pubblico, tanto che la
mostra, accompagnata dal catalogo, venne esposta al Museo Nazionale della
Fotografia di Brescia (che detiene una delle fotografie nel suo archivio
storico) e poi a Milano, nel contesto di un progetto diretto da Lanfranco
Colombo. Un paio di anni dopo, successe che per puro caso un’amicizia comune mi
presentò il dott. Enrico Moretti, direttore della casa editrice Moretti &
Vitali il cui catalogo ruota sulle tematiche a me più care: psicologia,
alchimia, mitologia e arte ad esse correlata. Era con la sua signora, la
prof.ssa Carla Stroppa, tra le più eminenti studiose di psicologia e raffinata
persona. Era il 1999, a Urbino, e mi sembrava di sognare e non fu facile per
me, introverso patologico, rompere il ghiaccio e esporre il nuovo progetto al
quale stavo lavorando. Moretti fu colpito e la Stroppa addirittura
entusiastica. Mi diedero l’opportunità di incontrarli per mostrare loro il
materiale fotografico presso la sede di Bergamo. Per la prima volta nella mia
vita artistica stavo ‘parlando la stessa lingua’ dei miei interlocutori, anzi
le parole erano superflue, le immagini bastavano a se stesse e non c’era
affatto bisogno che ne introducessi il senso. Voglio bene ai coniugi
Moretti-Stroppa non solo perché mi dimostrarono la loro stima pubblicandomi ‘Inner Kaos (ovvero ab ovo)’ – secondo volume della trilogia – ma perché capii
che sentivano che quel disagio impressionato sulla carta era autentico e non
una finzione intellettuale, e mi trattarono davvero come un figlio. Tramite
loro ebbi poi l’onore di conoscere l’emerito prof. Arturo Schwarz, autore di
spicco del catalogo della editrice e loro intimo amico e che si propose di
presentare il libro a Milano presso lo Spazio Studio di Patrizia Gioia,
poetessa che mi dedicò addirittura una poesia ispirata ad una delle fotografie.
Non stavo sognando, ero a Milano circondato e complimentato dall’élite
culturale meneghina. ‘Inner Kaos (ovvero ab ovo) è un concept book in cui fotografie metafisiche conducono il
protagonista del racconto lungo “il
viaggio dell’eroe, alla conquista del vello d’oro fra le burrasche di un mare
sconosciuto, e tra i massi che cozzano tra loro”.
Credo che
maggior successo non avrei mai potuto auspicarmi, sia in senso personalespirituale
sia artistico; aver colto l’attenzione, l’interesse e la stima di certi illustri
personaggi è un fatto indescrivibile, che non sempre accade nella pur lunga
carriera che un artista possa avere; figuriamoci per un giovane trentenne.
Successe quindi che non avendo più nulla da ‘trasformare’, da sublimare, mi
sentii appagato e mi trasferii per un lungo periodo di ritiro e di studio in
una casa colonica lontano da tutti, a parte la mia adorata moglie e i nostri
quattro cani.
L.M.V. E come
nasce allora l’ultimo capitolo della trilogia.
L.U. Fu la nascita di mia figlia nel
2007 che, parafrasando uno dei miei autori preferiti, Joseph Campbell, mi fece
sentire che era ‘giunto il momento di uscire dal bosco’. Una nuova spinta
creativa mi indusse a riprendere ‘penna’ e macchina fotografica per dar forma a
nuove storie.
All’inizio
non fu facile perché ero ancora intrappolato in uno schema mentale e stilistico
che non sentivo più idoneo a esprimere le nuove sensazioni, non più cupe e minacciose
bensì di estasi e luce. Poi un giorno mi svegliai con tutta la storia già
pronta nella testa e per quanto concerne il linguaggio stilistico decisi di
resettare tutto quello che avevo sperimentato fino ad allora per tuffarmi in
spazi della mente in cui la contingenza ha definitivamente lasciato il passo
all’astrazione e mondi visionari si confondono in frammenti lirici che
conducono dentro e fuori, dal microcosmo al macrocosmo. Il terzo capitolo della
trilogia era pronto: ‘Far Out IN OUT’, con prefazione della dott.ssa
Naomi Rosenblum e introduzione di Frank Dituri, venne nuovamente pubblicato da
Moretti & Vitali che confermò la stima e la fiducia in me. (2010)
[...] «Questi suggerimenti e percorsi interiori
echeggiano negli osservatori in grado di comprendere che quanto viene prodotto
dalla macchina fotografica e dai suoi processi, derivi non solo e neppure
principalmente dai soggetti o dalla tecnica, bensì dal cuore e dalla mente
dell’artista.
È con questo spirito che ci si dovrebbe accostare ai lavori di Lorenzo Di
Loreto. In relazione con l’intangibile, i suoi misteri abbracciano il
firmamento, la fluidità dell’acqua, il movimento della luce nella speranza di
trasmettere un ineffabile senso di meraviglia ai misteri dell’Universo. Di
Loreto ha dato vita a un’opera che è, nelle parole di John Berger, “una forma
di trasporto”, e ciò costituisce senza dubbio il reale proposito dell’arte». Naomi Rosenblum, New York
City, aprile 2010
[...] «Guardando gli scatti di Lorenzo è azzardato
e limitante supporre che il ruolo di un artista fotografico sia
semplicemente interpretare o documentare
il proprio coinvolgimento immediato. Io stesso sono del parere che una
fotografia possa essere molto di più; il potere dell’arte deve anche essere
espressione poetica perché lo scopo principale
dell’artista è quello di elevare la
persona ad un livello superiore.
Nelle fotografie di Lorenzo Di
Loreto diveniamo consapevoli della quintessenza e del processo dell’Essere non
solo in maniera estetica ma anche intelligibile. Lo stesso autore afferma: “Amo
definire la mia Arte come rituale e spirituale”». Frank Dituri, New York City,
aprile 2010
L.M.V. Ho visto una bella recensione relativa alla mostra Border Town, a Pesaro.
L.U. Sì, credo nel 2011. Mi fu
chiesto di raccontare Pesaro e io lo feci appunto con il progetto ‘Border Town’ in collaborazione con la
mia amica Cristina Ortolani che scrisse i testi che accompagnavano le foto. Si
trattava di un racconto fantasioso degli storici personaggi popolari della
città. L’emerito curatore Ludovico Pratesi scrisse nella prefazione del catalogo:
«Per Lorenzo Di Loreto Pesaro è una città di
fantasmi senza volto, ectoplasmi della memoria rievocati da immagini fluide,
mobili, rese ancora più misteriose da un bianco e nero dai riflessi lunari.
Un’urbe notturna ed evanescente, dove è difficile riconoscere angoli e scorci
familiari, che dissolvono i loro contorni nella voluta rapidità dell’immagine, come le strade di Lisbona
colte dallo sguardo di Wenders in Lisbon Story, le botteghe di Rimini esplorate
da Fellini in Amarcord, la città eterna straziata dal dopoguerra in Roma Città
Aperta di Rossellini.
Come nei fotogrammi di un film
d’autore, Di Loreto ci conduce in luoghi sospesi in un tempo impossibile, ci
accompagna in un’esplorazione di un passato che confina col presente, per
rintracciare frammenti di personaggi anonimi ma popolari come “i matti del
villaggio”, gli homeless che hanno composto con le loro gesta assurde interi
capitoli nella storia di tante città italiane».
L.M.V. Come arriviamo a questo nuovissimo progetto, la collana WOT, in cui
vedo tanto utilizzo di testi.
L.U. Bisogna scorrere velocemente
verso il 2015. Un anno particolarmente significativo per me che divento
Uccellini. È l’ingresso in nuovi meandri della mente, della memoria, del
passato che, come sostiene il grande regista David Lynch, ‘è la tavolozza che colora le nostre idee’ . Le immagini fotografiche e qualche testo qua e là – che
comunque già in Far Out IN OUT erano
divenuti importanti in termine di quantità – non mi bastano più. Inizio quindi
a utilizzare le parole, in forma libera da qualsiasi orpello stilistico o
formale, prendendo spunto dallo stile più tipico di un cantautore che di un
letterato capace di destreggiarsi in prose sofisticate o addirittura poesie. I
miei testi sono semplici, addirittura banali certe volte ma arrivano al cuore
delle persone anche se non sempre immediatamente comprensibili, in quanto lo
stile ermetico rimane sempre una delle mie peculiarità. Le atmosfere sono
criptiche, il racconto a tratti appare senza senso, a volte i personaggi, i soggetti,
possono essere evidenti mentre altrove appaiono celati in vacue forme e parole
segrete, come nel libretto WOT Zero e
anche in WOT Early Bird[s] Memories.
Utilizzo anche schizzi e performance in cui io stesso divento il protagonista
della storia sotto mentite spoglie, e non a caso. Certo è una nuova forma
espressiva per me e ci sto lavorando assiduamente sperando di poter crescere
anche in questa nuova esperienza. Insomma, per me costituisce una nuova sfida,
con animo leggero il ritorno a quell’arte per l’arte libera da condizionamenti
esterni e ricerca di consenso. Quell’arte che in più di un’occasione ho amato
definire rituale e spirituale, e (per me) necessaria affinché il passaggio al
successivo livello di consapevolezza del Tutto nell’Uno – che rimane l’unico
egoistico obiettivo del mio fare arte – possa rendersi accessibile.
L.M.V. Raccontami un aneddoto del tuo taccuino rosso che anche oggi hai qui
con te.
L.U. Nonostante non sia più un
ragazzino ho la fanciullesca abitudine di immedesimarmi in vari personaggi,
presi dai libri che sto leggendo in un determinato momento o anche persone in
carne e ossa. E il taccuino rosso, uno dei tanti taccuini rossi, ne ho comprato
una scorta incredibile per averli tutti uguali, mi rimandano all’inarrivabile Libro Rosso di C.G. Jung, che ovviamente
è nella mia biblioteca. Durante il mio ultimo viaggio a Tokyo nell’autunno
2016, che intrapresi per far visita al prestigioso Eumeria Art Space in cui
avevo esposto nel 2011 e con il quale ho avviato nuove prospettive di
collaborazione anche grazie all’amico e talentuoso fotografo pesarese e
residente a Tokyo Davide Filippini – che mi piace sottolineare mi consideri suo
mentore, e che promuove il mio lavoro nel Sol Levante – mi portavo sempre
appresso il taccuino e ho iniziato a fare scrivere delle frasi all’interno di
esso da amici giapponesi di Davide che incontravamo in giro; perfetti
sconosciuti a cui domandavo di poter scattare un ritratto e di lasciarmi
scritto sulle pagine del taccuino – ovviamente nella loro lingua
incomprensibile – una seppur superficiale impressione su di me. È un nuovo progetto che mi sta frullando per la
mente, niente di più, per ora. Ancora a proposito di Filippini, mi sembra
doveroso a questo punto annotare che è co-autore con me della serie fotografica
‘9.25’, di prossima pubblicazione,
dedicata al compianto David Bowie; d’altronde, l’affermazione dell’artista
inglese, ‘don’t play for the galleries’ ben si addice al mio spirito libero.
*I suoi
lavori sono stati esposti in Italia e all’estero, in mostre personali e
collettive, presenti in collezioni pubbliche e private, in monografie,
cataloghi, libri e riviste d’arte internazionali. Ha scritto sceneggiature per
commercials, corto metraggi e medio metraggi. Curatore di cataloghi e mostre
internazionali e creatore, autore e produttore di iBook multimediali per la
piattaforma Apple. Attualmente sta lavorando alla creazione di una editrice di
nicchia per supportare giovani artisti emergenti e alla realizzazione di una
biennale internazionale di arte e cultura in collaborazione con Andrey Martynov
(Russia) e Davide Filippini (Giappone).