VITERBO, LA
CITTÀ DI PIETRA
di Angelo Gaccione
Se dicessi che la cosa più bella di Viterbo sono le
rondini, naturalmente spudoratamente mentirei. Ma che volete, non accade in
tutte le città il privilegio, e diciamolo pure, il miracolo, di essere
svegliato al mattino dal loro garrire e dai loro volteggi. Il loro irrequieto
sfrecciare senza posa, senza un attimo di tregua, sembra volerci dire che ogni
gioia è breve e dunque questo vorticare festoso deve compiersi tutto intero
ora, nell’attimo stesso in cui questa gioia ci è concessa, spensierata e
dimentica di ogni coscienza. Finestre che si affacciano sui tetti, come queste
della Residenza Nazareth di via San
Tommaso, tetti bassi per lo più, perché torri e campanili devono ergersi a loro
presidio, in un confronto bivalente in cui potere religioso e potere civile
danno la misura della loro forza. Simboli solidi, terreni, innestati nel corpo
vivo della città.
Finestre che guardano
cipressi, pini, cedri del Libano e suoni di campane in lontananza: non può desiderare
di meglio chi come me giunge da Milano, dove il risveglio è annunciato dal caos
dei motori, dai mille infernali rumori metropolitani. Di alcune città si dice
che non dormono mai, e chi lo dice lo fa a cuor leggero, e non ha alcuna
consapevolezza del delirio che sono diventate, e dove ogni rapporto con i ritmi
biologici e naturali è stato violato e stravolto. I concetti di riposo, di
quiete, di raccoglimento, di respiro della notte, sono scomparsi; e come noi,
le stesse creature notturne ne sono state
private. Più nessuno spazio per il fantasticare e il sogno. Tutto è
stato irrimediabilmente annegato, perduto in un eterno fluire, in un eterno
presente che non conosce discontinuità, interruzioni, pause.
In un tempo passato, i nobili
lasciavano le città per recarsi nelle loro dimore di campagna, le ville, a
riposare, a villeggiare. Lì trovavano
riposo e quiete. Siamo stati noi moderni a passare dal caos urbano al caos
delle vacanze, in luoghi altrettanto affollati e caotici dove non si dorme mai, e ci si intontisce di rumori,
di decibel alle stelle fino all’alba, fra alcool, pasticche e porcherie di ogni
genere.
In realtà Viterbo, questa
vera e propria città di pietra, è fin troppo bella. Basterebbero i suoi 5
chilometri di mura che la racchiudono e le sue 10 porte: Porta della Verità,
Porta Romana, del Carmine, Faul, Fiorentina, Murata, sto citando a memoria, o
l’intero quartiere medievale di san Pellegrino con le sue volte, torri,
porticati, il suo acciottolato, il concio in peperino che trionfa ovunque, per
dirne tutta l’importanza.
Manufatti notevoli come il
magnifico chiostro longobardo di Santa Maria Nuova, chiese, fontane a fuso e
palazzi a bizzeffe, qualunque direzione voi prendiate, e non solo quelle più
canoniche come la piazza Plebiscito nel cui perimetro trovate il palazzo dei
Priori e quello del Podestà, o la Piazza della Morte che vi conduce, attraverso
il Ponte del Duomo, in Piazza san Lorenzo dove svetta il campanile della
Cattedrale e troneggia il Palazzo dei Papi.
Le vie e i corsi sono una continua
sorpresa e conviene procedere a caso, sarà la città a venirvi incontro ed a
stupirvi. Anche ciò che riterrete minore vi sorprenderà, potrà accadervi con il
palazzo Ascenzi, ora sede del Circolo Cittadino Viterbese dove nel giardino
scoprirete una magnolia della seconda metà dell’Ottocento e un nespolo
selvatico gigantesco. La guerra non ha risparmiato questo palazzo, come mi
informa Maria Rita De Alexandris, per fortuna ricostruito subito dopo. Come il curioso altare della appartata
chiesa di san Sisto che si protende verso l’alto con la sua lunga gradinata.
Deve aver fatto una strana impressione ai fedeli che vi sono entrati per la
prima volta, e si sono trovati il loro celebrante sospeso così in alto. Tuttora
l’effetto rimane intanto. Se all’esterno la città si presenta colma di
suggestioni, gli interni (palazzi e chiese) sono ricchi di capolavori di
maestri che dal medioevo arrivano fino al XVIII secolo. Darne conto in uno
scritto così contenuto sarebbe far loro torto. Mi sarebbe piaciuto vedere il
Museo della Ceramica della Tuscia (un’altra eccellenza viterbese e dintorni),
ma era chiuso. Il Palazzo Brugiotti che lo custodisce è anche tenuto male.
Peccato. Come peccato davvero è la chiusura
definitiva dello storico Caffè Schenardi al numero 11 di Corso Italia,
nella vicina Piazza delle Erbe. Nato ai primi dell’Ottocento, come tutti i
Caffè europei aveva visto passare dalle sue sale e dai suoi tavolini, la vita
politica e culturale della città, e ospiti di una certa levatura. Fa tristezza
vederlo chiuso e solo un paio di immagini in bianco e nero ne rimandano, agli
innamorati come me, l’atmosfera. A questi magici luoghi e alla loro precaria
esistenza, ho dedicato molti anni fa un racconto dal titolo “Un caffè accanto
al sigaro”, compreso ne La striscia di
cuoio, libro più volte premiato. Come fa tristezza vedere lungo i muri di
Palazzo Farnese, degli orribili pluviali di lamiera.
Il punto non è quello che
ci è stato lasciato in eredità dalla storia e dalle epoche passate, il punto è
come lo custodiamo, come ce ne prendiamo cura. E soprattutto come e con quale
coerenza a questi manufatti accoppiamo, facciamo innesti, accordiamo ciò che è
moderno perché non stridi, non offenda, non gridi vendetta. Turba, altresì, e
angoscia, il silenzio mortale e l’abbandono a cui parte del centro storico pare
condannato. Vendesi e affittasi ad ogni passo. Le porte in rovina, i muri
sbrecciati, l’acciottolato divelto, le crepe, se non riparati per tempo,
finiscono fatalmente per deperire. Lo spostamento di parte della popolazione al
di là della cinta muraria, nella parte nuova della città sicuramente più comoda
e ricca di servizi, potrà creare problemi al nucleo antico. La città dovrebbe
interrogarsi su tutto questo ed aprire una discussione pubblica collettiva. Il
rischio è che una grossa parte del centro storico diventi un museo all’aperto
degradato, muto e privo di vita.