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mercoledì 19 luglio 2017

VITERBO, LA CITTÀ DI PIETRA
di Angelo Gaccione


Se dicessi che la cosa più bella di Viterbo sono le rondini, naturalmente spudoratamente mentirei. Ma che volete, non accade in tutte le città il privilegio, e diciamolo pure, il miracolo, di essere svegliato al mattino dal loro garrire e dai loro volteggi. Il loro irrequieto sfrecciare senza posa, senza un attimo di tregua, sembra volerci dire che ogni gioia è breve e dunque questo vorticare festoso deve compiersi tutto intero ora, nell’attimo stesso in cui questa gioia ci è concessa, spensierata e dimentica di ogni coscienza. Finestre che si affacciano sui tetti, come queste della  Residenza Nazareth di via San Tommaso, tetti bassi per lo più, perché torri e campanili devono ergersi a loro presidio, in un confronto bivalente in cui potere religioso e potere civile danno la misura della loro forza. Simboli solidi, terreni, innestati nel corpo vivo della città.
Finestre che guardano cipressi, pini, cedri del Libano e suoni di campane in lontananza: non può desiderare di meglio chi come me giunge da Milano, dove il risveglio è annunciato dal caos dei motori, dai mille infernali rumori metropolitani. Di alcune città si dice che non dormono mai, e chi lo dice lo fa a cuor leggero, e non ha alcuna consapevolezza del delirio che sono diventate, e dove ogni rapporto con i ritmi biologici e naturali è stato violato e stravolto. I concetti di riposo, di quiete, di raccoglimento, di respiro della notte, sono scomparsi; e come noi, le stesse creature notturne ne sono state  private. Più nessuno spazio per il fantasticare e il sogno. Tutto è stato irrimediabilmente annegato, perduto in un eterno fluire, in un eterno presente che non conosce discontinuità, interruzioni, pause.


In un tempo passato, i nobili lasciavano le città per recarsi nelle loro dimore di campagna, le ville, a riposare, a villeggiare. Lì trovavano riposo e quiete. Siamo stati noi moderni a passare dal caos urbano al caos delle vacanze, in luoghi altrettanto affollati e caotici dove non si dorme mai, e ci si intontisce di rumori, di decibel alle stelle fino all’alba, fra alcool, pasticche e porcherie di ogni genere.
In realtà Viterbo, questa vera e propria città di pietra, è fin troppo bella. Basterebbero i suoi 5 chilometri di mura che la racchiudono e le sue 10 porte: Porta della Verità, Porta Romana, del Carmine, Faul, Fiorentina, Murata, sto citando a memoria, o l’intero quartiere medievale di san Pellegrino con le sue volte, torri, porticati, il suo acciottolato, il concio in peperino che trionfa ovunque, per dirne tutta l’importanza.
Manufatti notevoli come il magnifico chiostro longobardo di Santa Maria Nuova, chiese, fontane a fuso e palazzi a bizzeffe, qualunque direzione voi prendiate, e non solo quelle più canoniche come la piazza Plebiscito nel cui perimetro trovate il palazzo dei Priori e quello del Podestà, o la Piazza della Morte che vi conduce, attraverso il Ponte del Duomo, in Piazza san Lorenzo dove svetta il campanile della Cattedrale e troneggia il Palazzo dei Papi. 


Le vie e i corsi sono una continua sorpresa e conviene procedere a caso, sarà la città a venirvi incontro ed a stupirvi. Anche ciò che riterrete minore vi sorprenderà, potrà accadervi con il palazzo Ascenzi, ora sede del Circolo Cittadino Viterbese dove nel giardino scoprirete una magnolia della seconda metà dell’Ottocento e un nespolo selvatico gigantesco. La guerra non ha risparmiato questo palazzo, come mi informa Maria Rita De Alexandris, per fortuna ricostruito subito  dopo. Come il curioso altare della appartata chiesa di san Sisto che si protende verso l’alto con la sua lunga gradinata. Deve aver fatto una strana impressione ai fedeli che vi sono entrati per la prima volta, e si sono trovati il loro celebrante sospeso così in alto. Tuttora l’effetto rimane intanto. Se all’esterno la città si presenta colma di suggestioni, gli interni (palazzi e chiese) sono ricchi di capolavori di maestri che dal medioevo arrivano fino al XVIII secolo. Darne conto in uno scritto così contenuto sarebbe far loro torto. Mi sarebbe piaciuto vedere il Museo della Ceramica della Tuscia (un’altra eccellenza viterbese e dintorni), ma era chiuso. Il Palazzo Brugiotti che lo custodisce è anche tenuto male. Peccato. Come peccato davvero è la chiusura  definitiva dello storico Caffè Schenardi al numero 11 di Corso Italia, nella vicina Piazza delle Erbe. Nato ai primi dell’Ottocento, come tutti i Caffè europei aveva visto passare dalle sue sale e dai suoi tavolini, la vita politica e culturale della città, e ospiti di una certa levatura. Fa tristezza vederlo chiuso e solo un paio di immagini in bianco e nero ne rimandano, agli innamorati come me, l’atmosfera. A questi magici luoghi e alla loro precaria esistenza, ho dedicato molti anni fa un racconto dal titolo “Un caffè accanto al sigaro”, compreso ne La striscia di cuoio, libro più volte premiato. Come fa tristezza vedere lungo i muri di Palazzo Farnese, degli orribili pluviali di lamiera. 


Il punto non è quello che ci è stato lasciato in eredità dalla storia e dalle epoche passate, il punto è come lo custodiamo, come ce ne prendiamo cura. E soprattutto come e con quale coerenza a questi manufatti accoppiamo, facciamo innesti, accordiamo ciò che è moderno perché non stridi, non offenda, non gridi vendetta. Turba, altresì, e angoscia, il silenzio mortale e l’abbandono a cui parte del centro storico pare condannato. Vendesi e affittasi ad ogni passo. Le porte in rovina, i muri sbrecciati, l’acciottolato divelto, le crepe, se non riparati per tempo, finiscono fatalmente per deperire. Lo spostamento di parte della popolazione al di là della cinta muraria, nella parte nuova della città sicuramente più comoda e ricca di servizi, potrà creare problemi al nucleo antico. La città dovrebbe interrogarsi su tutto questo ed aprire una discussione pubblica collettiva. Il rischio è che una grossa parte del centro storico diventi un museo all’aperto degradato, muto e privo di vita.