POVERTÀ: LA DITTATURA DEGLI USA
di Franco Astengo
Il numero 5/2017 di Micromega
dedicato a “Europa/USA : democrazia a rischio” ospita un importante saggio di
Elisabetta Grande dedicato all’analisi della povertà negli Stati Uniti e
pubblicato sotto il titolo: “ Togliere ai poveri per dare ai ricchi: la lezione
americana da rifiutare”. Se può essere consentito un commento rivolto al titolo
(redazionale?) si può affermare che non rispecchia, almeno nella seconda parte,
il testo: altro che “da rifiutare”. La lezione americana deve essere
completamente ribaltata almeno stando alle valutazioni di chi scrive e di chi
legge. Il passaggio più importante di questo testo (il vero punto d’indicazione
politica) è contenuto infatti all’inizio, in un passaggio che è proprio il caso
di riportare per intero: “..Innanzitutto com’è possibile che una povertà così
pervasiva e lacerante caratterizzi il paese più ricco del mondo, in cui la
disoccupazione è, inoltre, in notevole discesa dal 2011 e oggi al di sotto del
5 per cento? Chi porta il peso di tale contraddizione? In secondo luogo per
quale ragione l’imbarazzante arredo urbano di quei scintillanti paradisi dei
consumi che sono le città americane, costituito da senzatetto buttati in ogni
dove con il loro seguito di carrelli della spesa ricolmi di miseri averi, non
produce un’immediata ribellione della gente? Com’è possibile, insomma, che
l’ingiustizia visibile di una società, testimoniata dal crescente numero di “visible poor”non scuota le
coscienze?”. Aggiungiamo noi: non vale proprio più l’antico “Ribellarsi è
giusto?”
Elisabetta
Grande fornisce anche dati molto eloquenti a sostegno della sua analisi: ne
riportiamo soltanto una piccola parte, la più significativa almeno a nostro
giudizio: “ ..Nel 2014 (ultimo anno per il quale tutti i dati comparabili sono
disponibili) la ricchezza negli USA
ammonta a 83 trilioni di dollari, aumentata a partire dal 2008 (quindi
in un periodo che è stato anche di recessione) di ben 31,5 trilioni di dollari;
il patrimonio pro capite degli americani, ossia ciò che ciascun adulto avrebbe
se la ricchezza fosse equamente distribuita, è, sempre al 2014, di ben 350.000 dollari,
mentre il pil dell’Unione raggiunge per quell’anno la notevolissima cifra di 17 trilioni di
dollari. Ebbene, in tale ricchissimo Paese il numero dei poveri assoluti,
secondo la stima al ribasso dello U.S. Census Bureau è, a quella data, di quasi
47 milioni d’individui, che diventano addirittura 105 milioni, cioè ben un
terzo della popolazione americana, in base ai conti più realistici del Pew
Charitable Trust. Non solo. Quasi 21 milioni di persone vivono al di sotto
della metà della soglia di povertà federale, ossia quella stimata nella maniera
più prudente e sono perciò in povertà estrema..”
Più avanti
l’analisi prosegue così: “ La crescita insomma c’è stata, la torta nel tempo è
diventata più grande, ma dal suo incremento si sono avvantaggiati
esclusivamente i ricchi, quell’1 per cento che si è progressivamente
appropriato di una fetta di ricchezza del Paese sempre più grande (che ha
raggiunto nel 2012 addirittura il 41,8%) a scapito del 90% più povero la cui
parte si è altrettanto progressivamente ridotta fino a rappresentare solo il
22,8% nel 2012, mentre era del 35% alla metà degli anni Ottanta. I ricchi,
cioè, non solo non hanno fatto sgocciolare la loro ricchezza, ma ne hanno
letteralmente portato via una parte agli altri, in particolare l’hanno portata
via ai più miserabili, la cui miseria dal 1973 al 2014 è drammaticamente
peggiorata”.
Quali
possono essere allora le cause alle quali addebitare un’intollerabile
situazione di questo tipo? La risposta fin qui fornita, se vogliamo, è ancora
riduttiva: infatti le cause di questa enorme crescita della disparità sociale e
della disuguaglianza economica è attribuita alle scelte di politica del
diritto. Il diritto così come praticato negli USA ha un’enorme responsabilità
in relazione tanto alla creazione della povertà quanto alla costruzione del
povero come nemico sociale e alla conseguente assenza di reazione collettiva in
sua difesa. Si può quindi affermare, in prima istanza, che l’esercizio del
diritto negli Stati Uniti dapprima determina le condizioni per uno squilibrio
strutturale fra capitale e lavoro, ossia fra ricchi e poveri, aprendo la via
allo sfruttamento e all’impoverimento dei lavoratori meno qualificati e, in
seguito, toglie addirittura ai più deboli le reti sociali che nel passato ne
avevano impedito la caduta nell’abisso della miseria. È necessario però andare ancora più a fondo nell’analisi politica,
proprio perché la configurazione del sistema americano (sostanzialmente
bipolare, con le eventuali “terze forze”
comunque marginalizzate) tiene alla larga dal diritto di voto proprio le
grandi masse povere, in una dimensione ben più ampia di quella compresa negli
indici di povertà appena sopra indicati. Le stesse istanze neo (post)
socialdemocratiche di Sanders non trovano sufficiente possibilità di
espressione dal punto di vista della dinamica sociale e della conseguente
traduzione elettorale proprio per il motivo della condizione praticamente sub
umana di grandi masse. In pratica, ed è questa l’affermazione centrale che si
intende sostenere in questa sede, quella degli USA è una “dittatura della
ricchezza”, la peggior dittatura che si possa incontrare in un sistema politico
i cui corifei, in più, pretenderebbero di esportarla sulla punta delle
baionette com’è accaduto più volte negli ultimi 20 anni. L’americanizzazione
della politica cui si è ispirata buona parte della progettualità di cambiamento
istituzionale anche dalle nostre parti (personalizzazione,
spettacolarizzazione, bipolarismo, maggioritario) si è via via accentuata nella
sua caratteristica -appunto- di tipo dittatoriale, ed è questa la lezione che
sarebbe necessario diffondere per evitare il pericolo di un’ulteriore
trasmigrazione all’interno del nostro già tanto disastrato sistema sociale e
politico. Una ragione in più, infine, per tenerci stretta la nostra
Costituzione e reclamarne l’applicazione continua dei principi fondamentali
contenuti nella sua prima parte.