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lunedì 11 settembre 2017

PREGIUDIZI DURI A MORIRE
di Emanuele Procacci

Ma che bei denti bianchi...

Ecco cosa è successo, la settimana scorsa: una persona è andata a mangiare in un ristorante di Cortina d'Ampezzo, e, in seguito, ha lasciato una recensione su Tripadvisor, in cui, tra le altre cose, ha scritto: "Sinceramente non ho apprezzato una persona di colore a servire con costume parzialmente ampezzano. Se fossimo in un ristorante internazionale a Milano sarebbe diverso, ma sarebbe come andare in Marocco in un ristorante tipico e invece di trovare un marocchino che serve in tavola in abito tradizionale, ci trovassi un tedesco biondo vestito da marocchino. Assurdo!"
La ragazza, ovviamente, ci è rimasta parecchio male; dopo il putiferio sui giornali, Tripadvisor ha rimosso la recensione; qualcuno ha perfino difeso l'avventore. Avventore che nel frattempo è uscito dall'anonimato: si tratta di un politico ligure che si dice stupito e indignato dal polverone che è stato sollevato: mai avrebbe pensato di essere additato come razzista solo per un parere liberamente espresso su un ristorante. Grazie alle strane associazioni che la mente umana è in grado di produrre, tutto ciò mi ha ricordato un passo de "L'urlo e il furore" di William Faulkner. Nel secondo delirante capitolo, Quentin, aspirante suicida e incestuoso, vede su un mezzo pubblico un nero vestito di tutto punto, bombetta scarpe lucide e sigaro (abbigliato "da bianco", per l'appunto). Proprio perché mi ha colpito (e inorridito), mi sono appuntato la frase che Faulkner mette in bocca a Quentin: "...un negro non è tanto una persona quanto una forma di comportamento; una specie di immagine riflessa, rovesciata, dei bianchi tra cui vive".

Mandela

Nella mia personale e senz'altro opinabile traduzione del brano, anche in relazione alla recensione incriminata, quindi, i "bianchi" sono sempre al centro, padroni del mondo, soprattutto del "loro" mondo, e i "negri" (siano essi vestiti con la bombetta e le scarpe lucide nel romanzo di Faulkner, siano altresì cameriere vestite con un corpetto ampezzano), anche se possono essere magnanimamente "accettati" e "tollerati" dai "bianchi", disturbano con la loro presenza "diversa", non sono "coerenti" con il luogo che si vorrebbe di razza pura e incontaminata, "stonano" con l'ambiente circostante, fatto tutto di facce bianche e rosa così familiari e rassicuranti, di dialetto locale, di tradizioni secolari. L'"estraneo" rovina il pittoresco, quasi lo "corrompe", anche e soprattutto quando cerca di integrarsi, di inserirsi, di passare - in qualche modo - inosservato. A tradirlo, in ogni caso, è il colore della sua pelle.
Dilsey, la serva protagonista del romanzo di Faulkner, continua a chiamare "negro" suo nipote, il quattordicenne Lester, per sgridarlo, come per ricordargli quale sia il suo ruolo in una casa di "bianchi". Sembra quasi che gli voglia intimare: "Stai al tuo posto, negro!"
Un'espressione del genere mi suona orribile, seppure pronunciata dalla vecchia governante nera, figura salvifica e iconica del difficilissimo racconto scritto dall'autore americano, e mi risulta ancora più orribile quando a profferirla è un "bianco" (in posizione di maggioranza, quindi di superiorità). Ed è per me ancora più inaccettabile se questo "bianco", nel pronunciarla, mascherasse il proprio razzismo sotto una patina dorata quanto falsa di un eroico e coraggioso "politicamente scorretto", libero e solitario baluardo contro la dittatura del cattivo e illiberale "pensiero unico" mondialista e antirazzista.
Ci sono tanti modi per dire "stai al tuo posto, negro": uno di questi, ho scoperto, può essere anche una stupida recensione su Tripadvisor.

Luther-King

Oggi, nel 2017, in Italia, capita che a qualcuno dia fastidio che una signorina dalla pelle nera serva in un ristorante ampezzano, perché ritenuta non degna di indossare abiti (magari anche solo vagamente) tipici del luogo in cui lei ha deciso, di comune accordo con i titolari, di lavorare. Forse, per questo qualcuno, se la cameriera non volesse essere "una specie di immagine riflessa, rovesciata, dei bianchi tra cui vive", dovrebbe lavorare, invece, in un ristorante "etnico" della Guinea-Bissau, indossando abiti tipici della Guinea-Bissau. Magari in Guinea-Bissau e non qui, in Italia. Perché me la prendo tanto, per una recensione su Tripadvisor? Me la prendo perché quest'episodio, ultima goccia, arriva alla fine di un'estate in cui, tra i tanti grandi e piccoli atti di razzismo, abbiamo visto addirittura ragazzi vedersi rifiutare un lavoro con l'esplicita, odiosa ragione del colore della pelle. Non solo se non mi indignassi, ma se anche soltanto tacessi di fronte a questo (malcelato) razzismo - un razzismo accartocciato unicamente sulla propria, di libertà: la libertà di irrispettosamente parlare, di rozzamente esprimersi, di orribilmente agire - tanto basterebbe per sentirmi complice di questo schifo.
E se oggi tacessi, domani nulla potrò dire di fronte a un razzismo conclamato e privo di vergogna (anzi, orgogliosamente rivendicato), per il quale la stessa ragazza del ristorante di Cortina, o qualsiasi altra persona identificata e bollata come "straniero", "estraneo", "negro", "immigrato", "terrone", "invasore", darà fastidio perché serve in un ristorante, che sia vestita da tirolese o da africana. E poi, in seguito, nulla potrò dire se ci sarà qualcuno a cui darà fastidio se un "diverso" farà qualsivoglia mestiere, qui in Italia.
Ho deciso di scrivere questo lungo, scombinato e disarticolato post, proprio perché la parola è una delle poche armi che si possono opporre ai pregiudizi e alle violenze di stampo razzista.
E io non ho alcuna intenzione di tacere.