LA RIVOLUZIONE ALGERINA
di Franco Astengo
“Il
Manifesto” del 14 dicembre 2017 ospita un articolo di Neelam Srivastava nel
quale si recensisce il volume La
rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa, pubblicato da “Ombre
Corte” a cura di Gabriele Proglio, tradotto dal francese da lui stesso e
Antonella Mauri.
Il volume
raccoglie una serie di scritti politici inediti di Frantz Fanon, che
costituiscono una sezione di un testo più ampio di inediti dell’autore
martinicano già uscito nel 2015 con La Découverte, Intitolato Ecrits sur l’aliénation et la liberté
edito da Jean Khalfa e Robert Young.
L’opera
pubblicata restituisce la dimensione del celebre autore de I dannati della Terra immerso nel vivo della lotta per
l’indipendenza algerina: gli scritti raccolti in quest’occasione sono articoli
non firmati che Fanon scrisse per l’organo del Fronte di Liberazione Nazionale
Algerino “El moudjahid” e quindi destinati a diffondere la linea ufficiale
dell’FLN a livello internazionale. Lungi dall’essere pezzi d’autore questi
testi rivoluzionari si celano dunque dietro all’anonimato richiesto dal lavoro
editoriale e si può ben immaginare come fossero, alla fine, frutto di intense
discussioni motivate – come scrive Proglio nell’introduzione – dall’esigenza e
dall’urgenza di rendere comprensibili e diffondibili la posizioni ufficiali del
Fronte sui vari movimenti nazionali e internazionali.
Questo
intervento però non è stato scritto per aggiungere un qualcosa alla recensione
pubblicata da “Il Manifesto”: piuttosto si intende restituire un’idea del clima
dell’epoca.
Di quanto,
cioè, l’intero processo di decolonizzazione dell’Africa e la lotta per la
liberazione dell’Algeria avessero influito nella costruzione di un’idea diversa
dell’internazionalismo, rispetto a quanto si era sviluppato da questo punto di
vista negli anni più duri della contrapposizione tra i blocchi. Può essere
ancora utile ricordare come un’intera generazione leggesse con grande
partecipazione la “Jeune Afrique” e le cronache dei quotidiani dedicate alla
lotta di liberazione algerina. Quanto entusiasmo si raccogliesse nell’assistere
al cinema al capolavoro di Gillo Pontecorvo La
battaglia d’Algeri. Una cultura nuova ci appariva all’orizzonte e per un
periodo ce ne facemmo pervadere intensamente.
Nel dopoguerra
si avviò un processo di decolonizzazione che si estese dall'Asia all'Africa,
dove nel 1960 ben sedici stati ottennero l'indipendenza, in alcune occasioni fu
indolore, in altri casi costò numerose vittime.
Nel 1939,
allo scoppio della guerra, ben un terzo della popolazione mondiale era
sottomesso alle potenze coloniali e solo tre stati in Africa e tre in Asia
erano indipendenti. La politica adottata nel governare questi paesi da parte
delle grandi nazioni, era di tipo assolutistico con l'unico intento di
depredare le terre di queste povere popolazioni senza riconoscere loro nessun
diritto. Nell'Africa del nord e nel Medio Oriente, nel 1944, nasce la Lega
araba, il cui obiettivo primario era l'indipendenza. In Algeria la lotta per
l'indipendenza comportò le maggiori difficoltà, sia perché la Francia, memore
dell'esperienza in Vietnam, adottò metodi di lotta anti - guerriglia più
"efficaci", ricorrendo a rastrellamenti, trasferimenti di intere
popolazioni e sistemi repressivi che non esclusero la tortura; sia perché il
Fronte di liberazione nazionale non esitò a ricorrere a metodi cruenti di
guerriglia urbana e al terrorismo. Nel resto dell'Africa la conquista
dell'indipendenza è avvenuta più tardi e senza apparenti traumi immediati:
circa quaranta stati lo ottennero tra il 1957 e il 1967; le regioni soggette al
Portogallo vi giunsero dopo il 1974 in seguito alla "rivoluzione dei
garofani" che ristabilì in quel paese la democrazia.
Ma nell'Africa nera,
a causa dell'assenza di una lingua e di una religione comune, il dominio
occidentale era risultato più devastante che altrove, perché aveva esasperato
le lotte tribali e aveva creato stati non corrispondenti alle realtà etniche e
sociali. La fragilità delle istituzioni sorte dopo l'indipendenza e la corruzione
dei governanti hanno perpetuato forme neocoloniali di subordinazione e
sfruttamento che sono tuttora causa di guerra e miseria. Caso a sé è la
decolonizzazione dei "regimi bianchi" in Rhodesia e Sudafrica, dove
la politica antirazziale dell'Onu ha lentamente impegnato i bianchi a
riconoscere i diritti civili alle popolazioni 'nere'. Artefice della lotta
politica in Sudafrica fu l'African National Congress, il cui leader, Nelson
Mandela, agli inizi degli anni novanta è stato eletto presidente dello stato. Questo
il riassunto cronologico di quel processo storico di cui i giovani d’oggi
dovrebbero possedere gli elementi di riflessione sufficienti per considerarne
la fondamentale importanza, proprio nel momento in cui dall’Africa arrivano
segnali di tragedie incombenti delle quali, in Occidente, viviamo soltanto
riscontri marginali come quello relativo al flusso dei migranti. All’epoca in
cui Fanon scrive i suoi testi per conto dell’FLN algerino quella vicenda
epocale contribuì a rimettere in moto un movimento che prese coscienza della
necessità di un internazionalismo di tipo nuovo: ciò avvenne anche e
soprattutto “contro” le posizioni della sinistra europea, in particolare di
quella francese, che non sostenne la causa dell’FLN ma piuttosto difese il
diritto coloniale della Francia sul territorio algerino perché – scrive Fanon -
“perché di sinistra e antifascisti a casa loro, alcuni francesi si ritengono in
diritto di guidare gli altri popoli, di dare lezione di democrazia anche a
colpi di bombe” (un fenomeno quest’ultimo dell’esportazione della democrazia a
bordo dei carri armati che abbiamo visto ripetersi nei decenni più recenti).
In altre
situazioni, meno coinvolte direttamente rispetto a quella francese, non si
uscì, da parte della sinistra ufficiale, dalla gabbia del considerare il
processo allora in corso in Africa (e in Asia) all’interno del quadro dato
dalle relazioni internazionali poggiate sulla “guerra fredda” e quindi
strumentalmente utili per una delle due parti che proclamava per sé la
vocazione antimperialista, ancorché nel momento specifico fosse stata avviata
una prima fase di cosiddetta “distensione”.
Si
considerava, invece, da parte di chi sosteneva nella sinistra una posizione
diversa come la “Rivoluzione Africana” fosse da intendersi come anti –
imperialista al di là della provenienza dal punto di vista dei blocchi della
logica imperialista e colonialista.
Alo stesso
modo fu intesa la guerra del Viet Nam e lo schierarsi dalla parte dei vietcong
e ancora così fu intesa la tensione antifascista rispetto ai colpi di stato
militari che, in quel periodo, portarono a dittature di stampo fascista prima
in Grecia (1967), poi in Cile (1973) e il prosieguo della lotta anti-franchista
e antisalazarista.
E’ proprio
questo il punto che s’intendeva ricordare nell’occasione, quello di intendere
la “Rivoluzione Africana” e lo sviluppo del movimento anticoloniale come
espressione di un nuovo tipo d’internazionalismo che metteva assieme quello
proletario con quello della liberazione dei popoli. Si trovavano già, fin dagli
ultimi anni ’50, prodromi importanti di quello che sarebbe stato il ’68 a
livello internazionale (ne scrive Fabrizio Floris, proprio in calce
all’articolo fin qui citato) raccontando anche la storia dei sessantottini
italiani che si recarono in Africa per portare il loro impegno allo sviluppo di
una diversa prospettiva di politica e di vita. In seguito le repliche della
storia sono state durissime e stanno drammaticamente sotto i nostri occhi: ma
rileggere quelle pagine e ricordare quella stagione ha ancora un senso non
soltanto per la storia del ciò che è stato.