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domenica 18 marzo 2018


Grossman, la libertà… e “Odissea”
di Gabriele Scaramuzza

In occasione dell’incontro sui 15 anni di vita di “Odissea” tenuto alla Biblioteca Vigentina di Milano il 5 marzo scorso, il filosofo Gabriele Scaramuzza ha letto questo intervento.

V. Grossman

Mi sto occupando di Vita e destino di Vasilij Grossman (nella traduzione di Claudia Zonghetti, Milano, Adelphi, 2008; alle pagine di questa edizione si riferiscono i numeri messi tra parentesi). La lettura di questo romanzo ha ampie risonanze in me, risonanze che giungono fino a “Odissea”. In Vita e destino, e in generale nelle opere tutte di Grossman, assume grande rilievo la tremenda vita sotto i totalitarismi (e al totalitarismo, come ad altri temi qui affrontati. “Odissea” ha dato grande rilievo, fin dalla sua vita cartacea): l’orrore dell’invasione nazista di territori sovietici, a partire dall’Ucraina (col sistematico eccidio degli ebrei), innanzitutto. Ma anche assume un enorme rilievo la terribile vita quotidiana sotto Stalin, fatta di delazioni, sospetti, diffidenze reciproche, accuse immotivate, confessioni estorte, condanne insensate, paure, il timore assillante di essere arrestati e condannati, a morte o ai gulag; oltre a ciò, è purtroppo vivo sotto Stalin un serpeggiante e sempre ritornante antisemitismo. E in tutto questo si rafforza la negazione della libertà dell’uomo, e della libertà di parola e di stampa, un privilegio di cui malgrado tutto ancora godiamo (e “Odissea” lo testimonia), spesso senza quasi rendercene conto.     
Era soffocato del tutto in Unione Sovietica, nello stato che si presentava come la realizzazione del comunismo, ciò che al socialismo è essenziale: come sostiene Strum, il protagonista del romanzo: “abbiamo parlato troppo presto di socialismo, che non è solo metallurgia. Il socialismo è innanzitutto il diritto ad avere una coscienza. E quando te lo tolgono, quel diritto, è un disastro. Se, invece, troviamo la forza di agire secondo coscienza, la gioia che si prova è tale …” (667). Ci siamo abituati a questa “gioia” (anche se non è affatto detto che abbiamo vissuto “secondo coscienza”) e alla sottostante felicità di sentirci liberi, tanto che essa viene oltraggiata con noncuranza, senza che nessuno ne paghi il fio.


Così a Krymov come individuo, uno dei protagonisti (comunista convinto, presto arrestato, torturato e condannato nella famigerata Lubjanka, come molti altri comunisti della prima ora) è messo in bocca (e non lo sospetteremmo proprio) uno dei passi più stupendi del romanzo: “Il colore del cielo e delle nuvole di Stalingrado, i bagliori del sole sull’acqua erano sensazioni fortissime. Lo riportavano alla sua infanzia, quando la prima neve, il ticchettio della pioggia estiva o l’arcobaleno lo colmavano di felicità. Con gli anni quello stupore sparisce in quasi tutti gli esseri umani, che si abituano al prodigio della vita su questa Terra” (212). Tener desto stupore (e le domande, metafisiche – perché no? - ad esso connesse) è tra le cose cui i totalitarismi sono più avversi. Ci si assuefà al prodigio della vita, come alla libertà di cui si gode; solo quando ci sono tolti ne riacquisiamo il senso, insostituibile. Ciò accade nelle sofferenze fisiche e psichiche diffuse ovunque, ma che i regimi oppressivi non mancano di provocare, nel violento attentato alla libertà su tutti i piani che operano, e di cui siamo vittima.
Noi abbiamo del tutto perso anche lo stupore, felice, per il libero scambio di idee, per la libertà di stampa, l’abbiamo deturpato quasi fosse scontato, ce ne siamo abituati; talvolta ha subito gravi attentati da noi per fortuna finora rientrati, e abbiamo perso il sapore che solo chi ha vissuto in epoche di negazione della libertà reca dentro di sé. Questo sapore pervade tutte le opere di Grossman. Ci siamo dimenticati di quanto preziosa sia la libertà di parola di cui godiamo, malgrado risorgenti difficoltà e attacchi - di essa “Odissea” resta una testimonianza preziosa. È per noi ovvio, qualcosa cui guardiamo come a una banalità “superata” chissà come, troppo scontata e risaputa; laddove è stata una dura conquista, soffocata negli anni di totalitarismi che anche noi abbiamo attraversato, e che restano in agguato. Non lo si deve dimenticare.       
Grossman è convinto che la liberà non può mai tramontare del tutto, che torna sempre a farsi viva qualunque cosa accada, persino in casi estremi. E cita ad esempio le resistenze, anche se per lo più solo interiori, allo stalinismo; ma anche le aperte ribellioni del ghetto di Varsavia o a Treblinka e Sobibor, nei gulag, a Berlino nel ’53 o nel ’56 in Ungheria (VD 195-198). La logica della verità: è “potente”, e torna sempre far capolino: “ascoltando Mad’jarov si aveva l’impressione che prima o poi sarebbe venuto il tempo di un’altra logica, una logica ancor più potente, la logica della verità” (259); una libertà che trova un suo spazio eminente nella libertà di stampa (di cui si parla a p. 261). Evidente anche nel sollievo e nel sapore liberatorio della franchezza, della parola libera tra individui, anch’essa conculcata in regimi oppressivi: “la felicità di parlare, di discutere senza cautele e senza paura di ciò che lo tormentava e che, proprio perché lo tormentava, non osava confessare a nessuno”. “Fu allora che accadde una cosa semplice, naturale, necessaria e ambita, ma anche e soprattutto inimmaginabile: una conversazione a cuore aperto tra due esseri umani” (371). 


Certo Darenskij, uno dei due interlocutori (l’altro è Bova), “sentiva di non aver toccato il nocciolo della questione, ciò che avrebbe messo tutto in una luce chiara e semplice. Ma avrebbe comunque pensato e detto ciò che di solito non pensava e non diceva, ed era una gioia. ‘Sa cosa le dico?’ concluse, ‘Mai nella vita, qualunque cosa mi dovesse succedere, rimpiangerò questa nostra conversazione notturna’” (372). Nelle parole di Čepyžin, amico fidato di Strum e mai delatore: “E credo anche che la vita possa essere data come libertà. La vita è libertà. E la libertà è il primo principio vitale”. “L’Universo si animerà e tutto al mondo sarà vivo, dunque libero. La libertà, la vita, sconfiggerà la schiavitù” (658, 659) – quella libertà che, non occorre ripeterlo, i regimi totalitari tentano di annegare. 
Queste sono le utopie che reggono la scrittura di Grossman, e le danno respiro, la giustificano. Al fondo, e lo si vedrà benissimo nelle ultime opere, sta una fede che non esiterei a chiamare (come altri fanno) di radici ebraiche, cui non mi tratterrei tuttavia di aggiungere anche autenticamente cristiane (sia pur non nell’adesione a una qualsiasi religione positiva): la bontà verso tutti, la pietà anche per i vinti, il rifiuto dell’ingiustizia imperante (di cui testimoniano anche gli altri libri di Grossman), malgrado una vita passata anche nell’adesione alla visione del mondo della rivoluzione, della cui disumanità tuttavia presto si rese conto. Malgrado Grossman sia consapevole della disperante “legge di conservazione della violenza” che domina la storia, egli serba la fede nell’“inevitabilità della libertà”, e la “fiducia nella bontà come forza irrazionale, istintiva, immotivata, capace però di riscattare la violenza e alleviare il male” (come scrive Vittorio Strada in un bel saggio dedicato, contenuto in Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman tra i classici del XX secolo). Oltre a quello alla libertà, il richiamo alla bontà - così spesso devastata nei fatti e annegata oggi in un “buonismo”, già di pessimo gusto come termine, e infaustamente derisorio - è  da tenere nella più seria considerazione.