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sabato 10 marzo 2018

Una pagina di meditazioni di Gerardo Sangiorgio
Piacenza 2 giugno 1943

Gerardo Sangiorgio

Queste riflessioni sono state mandate al nostro collaboratore Gabriele Scaramuzza dal figlio di Gerardo Sangiorgio, accompagnate dalla lettera che qui riproduciamo. Ci sono parse interessanti per proporle ai lettori e alle lettrici di “Odissea”.

Chiar.mo Professore,
Le sono sinceramente grato per la disponibilità che vorrà dedicarmi: mi permetto di sottoporre al Suo parere le note che seguono. Si tratta di un dattiloscritto di Gerardo Sangiorgio (22 anni di formazione cattolica e critico verso il fascismo), mio padre, del giugno 1943, circa tre mesi prima della sua deportazione per mano nazista. Non so se a un genere, a una scuola, a un'eco è possibile associare queste note e se rientrano in qualche riflessione diffusa in quegli anni. Mio padre, allora, era uno studente di Lettere classiche all'Università di Catania, chiamato a forza a svolgere il servizio militare. Si trovava al momento a Piacenza, perché non congedato, dopo aver contratto di una malattia cardiaca sul fronte greco.
Sinceramente e con gratitudine,
[Placido Sangiorgio]

Gerardo Sangiorgio

1) La soddisfazione di un attimo vale bene il tormento di un’ora.
(Se intensa, la più effimera delle soddisfazioni per un ideale conseguito ripaga ad usura il più lungo dei travagli per il suo conseguimento).

2) Facciamo un esame obiettivo dell’uomo e vediamo come esso si renda da se stesso infelice e, ad un tempo, vi è come fatalmente trascinato: egli è attivo, perché vuole conseguire qualche cosa sempre maggiore di quella che possiede, pensando di arrestarsi poi a godersela. Ma il suo animo ostinatamente inappagabile non gli lascia requie: la cosa grande e bella che bramava, conseguitala, la sfiora appena, in questa sua corsa, perché la trova infinitamente più piccola di come la sognava o di come doveva essere per dargli la felicità o di come è un’altra più in alto, che il suo spirito inappagato gli prospetta, nell’anelito a quella felicità che lo fa attivo. – Ma la corsa è pazza ed affannosa, e la felicità rimane solo nel miraggio, che fugge vanamente inseguito. – Così, arriva al termine ansimando, abbracciando (1) ombre…

Gli si potrebbe dire di appagarsi del poco, goderlo quasi covandolo. Forse lo comprende, ma all’amor proprio non si ragiona. Infatti, è appunto questo che ci sprona, tra una conquista e l’altra, mostrandoci la conquista maggiore di un altro; perché ci vorrebbe tra i primi (se non i primi), mirando più che alla nostra reale felicità all’appagamento ed al soddisfacimento di se stesso. Tante volte tendenza alla felicità ed amor proprio vanno di pari passo, ma tante altre volte è l’amor proprio che uccide la felicità; perché o ci svia e ci perde, accecandoci con fittizi bagliori della pompa e della preminenza. – con nostra incoscienza o con coscienza parziale e, solo eccezionalmente, totale – od anche se talvolta, alla fine, ci fa conseguire ciò che è per il nostro meglio e che, alle volte, tende anche ad accostarsi alla felicità, questo perde molto, soprattutto perché viene a trovarsi fuori del tempo in cui il desiderio di esso fu concepito e, dimostrandosi così cosa contingente, ci soddisfa molto di meno. Infatti, più bello della conquista è il desiderio di essa, che a lungo andare, perde molto del suo primitivo fascino, perché la conquista c’è costata il sacrificio di buona parte della nostra esistenza e non è più bella come un dono sospirata solo per poco, sia pure intensamente, e frutto solo di un piccolo sacrificio: noi sentiamo allora il vuoto tra ciò che abbiamo perduto (giovinezza) e ciò che abbiamo conseguito, che troviamo rimpicciolito di fronte alla perdita di quel grande tesoro. – Intanto è trascorso il meglio della vita.

Se quello stesso non si consegue, ci troviamo con una vita che ci sembra sempre più inutilmente spesa e già al declino, l’ideale tramontato per sempre, e noi ci accorgiamo allora di essere degli infelici disperati.

3) La felicità e l’infelicità, il più delle volte, germogliano da se stesse nell’intimo dell’animo per particolari (2) disposizioni di questo, momentanea, acquisita per sempre od innata, mentre gli uomini si ostinano a crederle frutto della sorte. -

 4) Colui che teme molto per sé, prevede tutte le cose peggiori. -

 5) La speranza è un sogno che ci trasporta fuori dal reale. Essa nasce nella miseria e crede alla volubilità casuale – dato che ignoriamo le leggi o la volontà di un ordine superiore che le governa – delle vicende umane. – Da ciò deriva che anche gli uomini fatalmente infelici sperano, non sapendo che la loro infelicità è fatale, cioè ad essi immanente per tutta la vita, come prestabilita da una legge suprema e perciò irremovibile. Non conoscendo però questa loro predestinazione di infelicità, sperano, nel buio in cui si trovano, che anche la loro sorte vari, come l’hanno vista variare negli altri: non sanno che il loro destino è tutto particolare. – Ma, ad un certo momento, escono dal sonno e rientrano nella realtà: si son voltati indietro ed hanno vista la lunga serie dei loro grami anni; han guardato davanti ed hanno visto l’oscuro vano di una bara. Al tempo stesso, è cessata l’illusione di un domani migliore (cioè la speranza), ed è sottentrata la disperazione.

6) Un uomo che si presenta diverso da tutto un complesso di altri uomini – specie se ha dello strano – è oggetto o del massimo biasimo (il più delle volte perché non lo si comprende) o della massima esaltazione (il più delle volte perché lo si giudica di più di quanto in sostanza non valga) per quell’aria di mistero (3) che lo circonda, la quale ci fa presumere che la potenza del suo talento, che noi pensiamo di non potere arrivare a comprendere, (dal momento che lo crediamo un essere eccezionale e riteniamo mediocre di fronte ad un tale uomo la nostra intelligenza) si spinga molto più in là di quel tantino che in lui c’è stato dato riscontrare. (4) – E non pensiamo invece che possa arrestarsi lì, come capita tante volte. E ciò anche perché tutti lo hanno esaltato e ci riesce ben difficile il tenerlo più piccolo della sua stima, corroborata spesso da persone di valore. Quindi, al di là di ciò che in lui scopriamo da noi stessi, stendiamo un velo nero, misterioso ed impenetrabile nei tesori che cela, ai quali però noi crediamo ciecamente, fidando oltre modo nella intelligenza di coloro che presupponiamo li abbiano scoperti e di cui, ancora una volta, stimiamo al sommo il giudizio, solo perché al sommo lo abbiamo stimato. –

 7) I genitori amano di più i figli che più soffrono, specie se soffrono per affrontare la lotta della vita. (5) Anche se in questa lotta quel figlio soccombe per improba fortuna, lo prediligono ugualmente. – Essi sono quindi più giusti del mondo, che guarda gli uomini come un dipinto statico ed unilaterale, li apprezza così come li vede, senza dar valore al peso che ha nella bilancia delle vicende degli uomini la fortuna e li giudica quindi tutti su uno stesso piano. – I genitori invece ti apprezzano con indulgenza: il poco è molto per loro: perché ti conoscono di più e ti amano e perché sanno, più di ogni altro, quali sacrifici t’è costata quella strada che ti sei scavata colle unghia nel mondo. Ti ammirano, anche se non conoscono a fondo il tuo merito e non ti possono apprezzare, a differenza del pubblico, come un sacro prodigio, piuttosto che come un corpo da anatomizzare. – Tu per loro diventi come il fiore più bello della loro pianta, su cui si piegano per coprirlo con le loro foglie, con cura gelosa. – Ti vedono ingrandito ed anche tu credi di essere più grande, ma ti si può giustificare perché godi di alimentare in loro questa sensazione e di renderli così felici, anche se in fondo senti di non meritare tanta stima. Però ci tieni e ti senti spinto di più verso di essi, anche per farti animo e per avere più forza di proseguire. Ti sembra che il loro giudizio sia il più esatto, anche per giustificarti di fronte a te stesso di non avere fatto tanto quanto le tue possibilità ti permettevano. Dopo un successo pubblico, tu li cerchi, perché non sei pago che la gioia sia solo tua e non sia invece anche di loro. È allora che tu ti senti più soddisfatto e credi di avere avuto dai genitori il più esatto dei giudizi, quello che ti concilia con te stesso, che ti incita e ti fa guardare con indifferenza chi ti disprezza. – Il pubblico se ne esalta ed approva anche ciò che è indegno e meschino, solo perché lo allieta. – Tu che lo sai, vai allora dai genitori per vedere se sei come ti hanno sognato, se meriti stima anche per rettitudine: essi sono come il primo tribunale, il più esatto, quasi patriarcale, sacro. Solo allora ti senti pienamente felice del tuo successo.

Gerardo Sangiorgio

 Note
1 Nel dattiloscritto “abbranciando”.
2 Nel dattiloscritto “particolare”.
3 Nel dattiloscritto “mostero”.
4 Nel dattiloscritto c'è una parentesi a chiusura della parola “intelligenza”, ma manca quella di apertura. Dal senso generale del discorso ritengo che questa vada posta a “dal momento che”, che riprende, sintetizzandolo, il pensiero precedente. Una parentesi si chiude al verbo “riscontrare”, ma trattasi chiaramente di un errore.
5 Nel dattiloscritto sono presenti altre parole, cancellate col bianchetto. Si riesce a stento a leggere “per aprirsi un varco al fine di in-”.
[Trascrizione e note di Salvatore Borzì]