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domenica 15 luglio 2018

Taccuino
BACH, SAN SEPOLCRO E IL MOSÈ 
di Angelo Gaccione

Il trio d'archi Il Furibondo

C’è chi nega risolutamente e c’è chi nutre più di un dubbio che a mettere le mani per una trascrizione per strumenti ad archi dal Clavicembalo ben temperato di Bach e dalla Fuga in fa minore del figlio Wilhelm Friedemann, sia stato Mozart. Chi sia stato a noi importa poco, di sicuro chi lo ha fatto nutriva ammirazione per i due musicisti tedeschi, e voleva eseguirli con strumenti diversi. A me questi sei brani (cinque adagi e fughe e un largo e fuga) eseguiti dal Trio D’Archi “Il Furibondo” (Liana Mosca violino, Gianni De Rosa viola, Marcello Scandelli violoncello), nella Chiesa di San Sepolcro mercoledì 11 luglio compresi sotto il titolo “Mozart trascrive Bach, padre e figlio”, hanno deliziato e tanto basta. Il furioso del trio mi è parso Scandelli, la sua esecuzione al violoncello è stata tanto passionale e coinvolgente, quanto quella di Mosca e De Rosa è stata misurata e contenuta. Il posto poi meritava davvero. La chiesa di San Sepolcro nell’omonima piazzetta, alle spalle della Biblioteca Ambrosiana di cui è parte integrante, nel cuore di Milano che più cuore non si può. Addirittura dentro il perimetro delle mura imperiali romane, e dove l’antico foro pullulava della sua vita mercantile. Questo per dire del luogo dove nel 1030, su volere della famiglia Rozo proprietaria dell’area, si darà impulso a quello che quattro anni più tardi diverrà l’edificio sacro. Solo in seguito però la chiesa assumerà il nome attuale, dato che nella parte inferiore (la cripta aperta di recente al pubblico dei visitatori) era stato costruito un sepolcro per ricordare quello di Gerusalemme, un sessantennio più tardi, a ricordo della liberazione del Santo Sepolcro ad opera dei crociati, si decise la nuova dedica. A quanti vogliono conoscerne più dettagliatamente storia e vicende, consiglio il libretto di don Mario Panizza San Sepolcro di Milano, pubblicato dalla DeAgostini. Sono una quarantina di pagine e apprenderete quanto basta. Con il suo ordito medievale e la toponomastica che lo ricorda, questo segmento di città è fra quelli a me più cari, e quando posso, soprattutto alla domenica pomeriggio o in piena estate quando la città si svuota, mi piace in solitudine vagare alla ricerca di quelle che sono ormai divenute le mie memorie. In via Armorari c’è l’edificio dove nel 1918 Ernest Hemingway ferito fu accolto e curato; allora vi aveva sede la Croce Rossa Americana, oggi è una banca. Due passi più il là, in quella che ora è la via Cesare Cantù, c’era la casa del popolano milanese Antonio Sciesa, più noto forse col nome di Amatore; il patriota tappezziere che agli aguzzini austriaci oppose il suo celebre tirrem innanz, al tradimento. Le casupole di allora sono sparite e l’area è occupata dal maestoso edificio della Banca d’Italia che lo occupa su più lati, fino a lambire quello che ora è lo slargo dedicato a Pio XI, e dove ha sede una delle più prestigiose istituzioni milanesi, la Biblioteca Ambrosiana voluta da Federigo Borromeo, con la sua altrettanto celebre Pinacoteca. Finalmente da qualche anno la piazzuola è stata pedonalizzata, e al posto delle macchine che vi parcheggiavano davanti e vi correvano sui due lati in un fluire incessante, ci sono ora delle panchine in legno dove si può sostare con tranquillità. Ho avuto il privilegio molti anni fa, di visitare l’Ambrosiana accompagnato da una guida di eccezione, monsignor Ravasi, allora Prefetto di questo luogo meraviglioso e oggi cardinale in Vaticano. Ho ancora le sue parole risentite negli orecchi: “Ma si rende conto che qui abbiamo il più ricco Codice Atlantico di Leonardo, la Canestra di Caravaggio, il Cortile degli Spiriti Magni, e siamo assediati da tutte queste macchine e dal loro incessante rumore?”. Io ne scrissi su un settimanale milanese e poi in un volume piuttosto robusto. Il Rettore aveva, seppure con ritardo, vinta la sua battaglia e lo sconcio che imbruttiva la creatura di Federigo fu eliminato. Non è così, purtroppo, nella parte posteriore dell’Ambrosiana, dove ci sono la chiesa di San Sepolcro con la sua cripta e l’ingresso della Pinacoteca. Quanto le macchine parcheggiate imbruttiscano questa piazza salta subito all’occhio appena si percorre il breve tratto della via Federigo. E se invece si percorre l’altrettanta breve e stretta via Dell’Ambrosiana, si è costretti ad appiattirsi quasi contro il muro per ripararsi dalle macchine. Basterebbe spostare altrove il Comando di Polizia e obbligare i residenti (qui risiede la Milano danarosa) a cercarsi un parcheggio. Nei paraggi ce n’è più di uno. Per cogliere nella sua interezza torri e facciata, si è costretti ad arretrare fino all’imbocco di via Della Zecca Vecchia. Durante il concerto in San Sepolcro riflettevo su come fosse confortante possedere dei luoghi del silenzio, nell’affannato correre metropolitano dentro un tempo che non controlliamo più; di come fosse prezioso che quel magnifico rito musicale potesse avvenire lontano dal frastuono. 

Milano, chiesa di San Sepolcro

Di domenica pomeriggio queste contrade ritrovano il loro silenzio. È stupefacente come bastano pochi metri per lasciarsi alle spalle il delirio mercantile di via Torino, lo sferragliare dei tram di via Orefici, il viavai incessante di Corso Vittorio Emanuele. Rarissime macchine e quasi nessun passante fra le Cinque Vie, e così posso percorrere indisturbato Via del Bollo, via Santa Marta, via Santa Maria Fulcorina, via Bocchetto, via Santa Maria Podone, e sostare sul cantone dove le lapidi con i nomi dei giovanissimi partigiani massacrati ci ricordano a che prezzo è stata ottenuta la libertà; vedere gli ultimi ruderi ammonitori dei bombardamenti della seconda guerra mondiale che devastarono la città; rendere omaggio al luogo dove Gaetano Crespi, poetta e studios de la lengua meneghina, come recita la targa, l’è vivuu e l’è mort. Non trascuro quasi mai di percorrere il tratto di via Morigi e passare davanti alla casa del caro e compianto Roberto Guiducci e della sua sposa Armanda, per un saluto e un pensiero a questi due colti intellettuali e raffinatissimi poeti, cui Milano deve molto e che ha dimenticati. E quasi sempre attraverso la via privata Maria Teresa dove abitava Carlo Bo, e mi spingo fino alla bella piazza Mentana che meriterebbe di essere meglio curata e liberata dalle auto. Più in giù il Carrobbio, San Lorenzo con il parco delle Basiliche e il suo colonnato corinzio di origine romana, piazza Vetra e la via Gian Giacomo Mora... sono i luoghi che rimandano agli affettuosi ricordi dello scrittore Emilio De Marchi e alle tragiche vicende descritte dal Manzoni nella sua Storia della colonna infame. La via Santa Maria Podone sbuca in quella che è oggi piazza Borromeo. La casa del cardinale è lì, così come quella del cugino Carlo, cardinale a sua volta e poi santo. Di Carlo c’è anche la statua, proprio accanto alla chiesa di Santa Maria Podone. Ad entrambi bastava scendere dalle loro “domus auree” per entrare in un luogo di culto. Ma se volevano recarsi in San Sepolcro o all’Ambrosiana, non avevano che da percorrere i tre minuti di strada, tanti ne ho contati io per fare la prova. Non finiremo mai di biasimare il cardinal Federigo per quello che ha fatto passare allo storico Giuseppe Ripamonti; Manzoni, che al Ripamonti deve molto, gli ha reso giustizia, altrettanto ha fatto Milano dedicandogli quella che è in assoluto la via più lunga della città. Non finiremo tuttavia di lodare abbastanza il cardinale, per aver donato ai milanesi i suoi due gioielli che tutto il mondo ci invidia: la Biblioteca e la Pinacoteca.  
Non è sempre aperta la chiesa di San Sepolcro, e bisogna approfittarne. Il responsabile Giuseppe Frinquelli mi ha lasciato il suo numero di telefono e si è messo a disposizione perché possa vederla in dettaglio fra una decina di giorni, quando rientrerà a Milano dopo una pausa. Voglio sostare più tempo davanti al Cristo ligneo dell’altare, all’affresco del Bellasio, al dipinto del Nuvolone, alla tela di San Giorgio e il drago del Procaccini, al gruppo di statue cinquecentesche in terracotta dipinta in allestimento, e che compongono il Compianto per il Cristo morto, con quella Maddalena che allarga le braccia disperata e la madre svenuta. Indugiare ai piedi delle due absidi laterali dove a sinistra gli apostoli scolpiti a dimensione naturale sono disposti lungo la tavolata dell’ultima cena, e in primo piano c’è il Cristo intento a lavare i piedi a san Pietro. A destra, invece, c’è il gruppo in cui il Cristo è condotto davanti ad un Caifa che si straccia le vesti e a un san Pietro che lo rinnega. Le scene delle due rappresentazioni sono realizzate da statue gigantesche di forte impatto. Raffigurano un Cristo, chissà perché, piuttosto in là con gli anni, e così per una parte degli apostoli. Certo un Cristo biondo e con gli occhi azzurri di certa iconografia suona alquanto improbabile per un palestinese, ma anche qui si è esagerato con le fattezze, in fondo si trattava di un giovane di trentatré anni.

M. Buonarroti Il Mosè (part.)

La cripta invece resterà aperta tutta l’estate e dovete proprio visitarla, lo dico anche a quei lettori non milanesi, nel caso si trovassero in città. Fino al 15 settembre si potrà vedere anche il cortometraggio sul Mosè, realizzato da Antonioni nel 2004 dal titolo Lo sguardo di Michelangelo. Io ci sono andato ieri pomeriggio proprio per vedere questo documentario e vi assicuro che ne vale la pena. Il regista ferrarese aveva 92 anni quando lo realizzò, morirà a Roma tre anni più tardi nel 2007. È molte cose insieme questo cortometraggio di 15 minuti: è un omaggio alla potenza creativa del Buonarroti, al senso di umanità a cui l’arte ci richiama con la sua bellezza e il suo mistero, alla sua perennità, ma è anche una riflessione attonita sulla caducità della vita, un interrogativo silenzioso sull’esistere e la sua parabola transeunte. Non ci sono parole in questo video realizzato rigidamente in bianco e nero. Il bianco della pellicola rispetta il bianco del marmo e ne indaga minuziosamente ogni piega, ogni dettaglio. La cinepresa scandaglia, si insinua, indugia, fissa su un particolare, dilata un primo piano, sfuma in dissolvenza come un sogno... La tomba di Giulio II ed il gruppo marmoreo che lo adorna, sono colti nella fissità gelata della morte, nel silenzio eterno che si è solidificato, pietrificato. Ed è solo con il silenzio che ci si può accostare. I passi affaticati di un Antonioni anziano e sofferente (la mano destra sempre in tasca, forse rimasta offesa dopo l’ictus), seguono la striscia di luce che il portale semichiuso e avvolto nella penombra di San Pietro in Vicoli, proietta sull’impiantito. Sono il solo rumore registrato costeggiando la fila di colonne per arrivare davanti alla tomba col Mosè. Nessuna concessione all’orpello, alla magnificenza, nessun elemento dell’esterno, né la facciata, né la lunga scalinata di san Francesco di Paola che ho tante volte salito per venire qui. La chiesa è vuota e la cinepresa si concentra solo su quel riquadro ben delimitato. Ad Antonioni è concesso il privilegio di superare la balaustra e di avvicinarsi al Mosè come a nessun altro è stato forse permesso negli ultimi anni. Egli può persino accarezzare la statua che enormemente lo sovrasta e nei cui confronti appare minuscolo, commosso e intimidito. Da questo momento in poi inizia un vero e proprio dialogo silenzioso fatto solo di sguardi. Sono gli sguardi e i silenzi di due artisti che portano lo stesso nome, e che si incontrano dopo cinquecento anni: l’uno in carne ed ossa, l’altro attraverso il capolavoro ricavato dall’inerzia informe di un minerale che si è fatto anch’esso carne ai nostri occhi. Non sapremo mai quali pensieri hanno attraversato in quei quindici minuti la mente di Antonioni. A noi restano i gesti delle sue mani, il silenzio, gli occhi attenti dietro le lenti, le pieghe delle sue labbra, le espressioni assorte, il cenno di saluto alla statua, lo sfrigolio della fede che porta al dito mentre la mano scivola dolcemente su un ginocchio del Mosè, che la cinepresa di Andrea Boni, suo aiuto regista, segue passo passo. La fine del filmato, è scandita dai passi del regista che ora, in senso inverso, seguono la stessa striscia di luce disegnata sul pavimento, mentre il Magnificat IV toni di Giovanni Pierluigi da Palestrina eseguito dal Vocal Ensemble Camerata Nova, ne accompagna l’uscita dalla chiesa.