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sabato 7 luglio 2018


Terrorismo e legalità
di Patrizia Cecconi

             
 Abituati a leggere di sequestri di persona realizzati da squadre paramilitari in regimi totalitari generalmente fascisti, desta un certo stupore scoprire che anche un paese, abitualmente definito democratico, usa le stesse  tecniche per trarre in arresto i suoi oppositori politici.
Il paese in questione è Israele e ormai da molti anni, grazie a una benevolenza mediatica che si affianca a quella di un buon numero di istituzioni statuali, il suo agire ci ha reso chiara l’idea che il termine “democratico” si è svuotato di tutti quei valori che ne erano il necessario supporto. Basti pensare all’accettazione degli omicidi mirati, derubricati da reato dei peggiori ad azione in qualche modo legalizzata. Basti ancora pensare alle azioni di pirateria marina che vengono spacciate per sicurezza da media conniventi e via dicendo. L’uso di militari in abiti civili per reprimere rivolte o per prevenirle con un notevole uso di violenza non è nuovo ad Israele, tuttavia non è mai stato sufficiente a cambiare, da democratico a canaglia, l’appellativo che si accompagna al suo nome. Tutto questo avviene in quanto l’abile confezionamento delle notizie si serve di un termine in sé sicuramente giusto: legalità. Infatti, seguendo la grammatica, legalità viene da legale e legale viene da legge. Erano quindi legali, seguendo questa logica grammaticale, le leggi razziali del 1937 e del 1938 in Italia così come lo sono molte leggi emanate dal parlamento israeliano, anche se confliggono con la legittimità e col diritto internazionale.
Per estensione viene considerato anche pressoché legale, in quanto non sanzionato seppur passibile di sanzione, il comportamento di soldati e coloni direttamente ispirato a esternazioni,  quando non veri e propri inviti lanciati da ministri e parlamentari, che, visti con la lente della democrazia, possono essere considerati soltanto veri e propri reati. Anche da voci religiose, come il rabbino Shmuel Elyahu vengono aberranti inviti a commettere reati addirittura genocidari senza che ciò scomodi le coscienze mediatiche così sensibili nei casi di vaghe ombre di vero a falso antisemitismo. Il rabbino Elyahu ha dichiarato pubblicamente che è non solo opportuno ma addirittura doveroso uccidere i palestinesi e che se questi fossero stati tutti uccisi non ci sarebbero stati gli aquiloni incendiari. Nessuno si sconvolge a dichiarazioni simili e, soprattutto, nessuno pone l’accento sul perché degli aquiloni: la richiesta di rompere l’assedio illegale e la contemporanea richiesta di applicare la Risoluzione ONU 194 calpestata, al pari di tutte le altre, da Israele.  Tutto questo, ripetutosi nel corso dei decenni e amplificatosi negli ultimi anni, sta portando a vera e propria marcescenza il concetto di democrazia e, al tempo stesso, nasconde azioni di stampo dittatoriale o terroristico dietro i due  termini magici di “sicurezza” e “legalità”.
È di ieri la notizia, pubblicata sul quotidiano palestinese “Al Quds”, del sequestro di un giovane  di 22 anni durante il suo lavoro di cameriere, da parte di una squadra di uomini in borghese fintisi clienti del ristorante. Motivo del sequestro? L’appartenenza del giovane al Fronte Popolare, partico di sinistra palestinese. Israele arresta regolarmente senza un vero capo d’accusa, ma normalmente lo fa con grande dispiegamento di militari in divisa. Questa volta, invece, lo ha fatto utilizzando le tecniche proprie del terrorismo di Stato diffuse in ogni meridiano dall’America Latina all’Asia, all’Africa.
Sappiamo che non è il primo caso e purtroppo non sarà l’ultimo, almeno finché Israele seguiterà a godere della copertura mediatica dei suoi valletti  e della copertura politica dei suoi alleati, padrini e complici.
Il fatto in questione è avvenuto in un ristorante di Beit Jala, cittadina a prevalenza cristiana già famosa per la lunga lotta contro il muro che avrebbe separato gli oliveti e i vigneti della collina Cremisan in cui giovani professionisti palestinesi portano avanti l’antica cantina dei salesiani italiani, producendo da vitigni autoctoni  vini che stanno diventando famosi nel mondo. Il giovane stava lavorando in uno dei tanti ristoranti di Beit Jala quando si è visto aggredire da un gruppo di uomini armati  e quindi trascinare in un’auto con targa palestinese senza che gli altri ospiti del ristorante potessero intervenire. Lì, nelle auto apparentemente palestinesi, c’erano i soldati in divisa pronti a riportarlo nelle prigioni israeliane dove il giovane, proveniente dal campo profughi di Dheisheh (Betlemme), ha già  passato sei anni della sua vita, cioè oltre un terzo e la sua accusa è soltanto quella di far parte di un partito politico di sinistra che, legittimamente, si oppone all’occupazione. Un arresto tra i tanti in Palestina non fa più notizia, non fa notizia neanche il quotidiano stillicidio di vite umane, figuriamoci un arresto, per quanto arbitrario! Ma ciò che crea allarme in chi ha ancora a cuore la democrazia, è la modalità di azione che, come altre pratiche israeliane, sta abituando il mondo ad accettare l’inaccettabile, in primis normalizzando l’occupazione militare e, di conseguenza, ogni pratica repressiva dichiarata legale anche se confligge sia con la legge morale, ma questa è un’altra storia, sia col Diritto internazionale, e questo invece ci riguarda tutti.