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martedì 2 ottobre 2018


DA LONGOBARDI AI LONGOBARDI
di Elio Veltri
Una veduta dei tetti di Longobardi

Longobardi è il paese in cui sono nato, in una casa in affitto fuori dal paese di proprietà di emigranti in America. Da bambino ho giocato per strada e in campagna con i miei coetanei, ricordo in particolare due giochi: “u ruotru”, una sorta di forma di formaggio rotondo in legno per i bambini e di formaggio vero per i grandi che si tirava con un laccio percorrendo una determinata distanza lungo la strada in discesa che collegava il paese al mare e “u strummulu”, la trottola. Poi però a cinque anni mi hanno mandato a scuola e a 10 sono partito con mio padre per Orvieto dove ho frequentato medie, ginnasio e liceo classico. In collegio, nel palazzo del 1500 di Lorenzo Maitani, vicino al duomo, dai frati mercedari, ordine spagnolo, di cui ricordo il freddo e la fame. Per fortuna si andava alla scuola pubblica accompagnati dai monaci. Ma erano ore di libertà. Longobardi si trova circa a metà della costa tirrenica calabrese tra Praia a Mare e Reggio Calabria. In quattro chilometri la strada collega la marina con il paese che è una terrazza sul mare a 350 metri di altezza, attraversato da una strada, via Indipendenza, che si inerpica fino a 500 metri di altezza, accompagnata da case, oggi vuote, e dopo la guerra abitate da famiglie ricche di bambini. Il parroco di allora, Don Ciccio Miceli, uomo di potere ma soprattutto clericale e fondamentalista, erede di luigi Miceli anticlericale, garibaldino e ministro della sinistra storica, la descriveva così: “poche case abbarbicate come gramigna, su di un contrafforte di Monte Cocuzzo, con la strada principale, via Indipendenza, di vecchio sapore carbonaro, posta a tale dislivello per cui quando nevica “ai cavi” il  quartiere più alto, spesso fa buon tempo ai “pioppi” il quartiere più basso. Un paesaggio fantastico che ti cambia ad ogni svolta lungo le viuzze collinari o le piste montane; il tutto sullo sfondo delle isolette dello Stromboli   tra la dolce sagoma di Capo Vaticano e le evanescenze del Palinuro o della mole immensa del lontano Mongibello brillante di nevi nella sua cima alta e fumosa…”. Nel centro, dopo la guerra, vivevano circa 2000 persone e nel territorio comunale   oltre 4000. Lungo la strada che collega la marina al paese e in tutte le frazioni le terre erano coltivate: viti, ulivi, fichi, ma anche granturco e grano. Tutto ciò che era necessario per sostentare famiglie numerose. La storia del paese è stata scritta da don Silvio Celaschi proveniente dall’Emilia: in brevi note di “Storia civica e religiosa” del 1975 il sacerdote pubblica i dati ricavati da un registro del 1884 conservato nell’archivio dell’abbazia di Subiaco, della grancia (abbazia) di S. Maria di Turriano, con i nomi delle località di campagna, dei coltivatori e possidenti. Molte delle famiglie che negli anni del dopoguerra hanno continuato ad abitare con i loro successori la tenuta monastica erano gli stessi di cinque secoli prima e sono rimasti proprietari di case e terreni. I poderi erano tutti di piccole dimensioni, poche tomolate, (il  tomolo è circa un terzo di ettaro) e anche le coltivazioni erano le stesse: viti, ulivi, fichi soprattutto. Nel registro, scrive Don Silvio, era indicato per ogni fondo, orto, o vigna, la superficie e il canone annuo che si doveva pagare, come anche l’affitto delle abitazioni, poste nel casale di Longobardi. Il nome, anche se non è documentato, glielo avevano dato alcuni secoli prima i Longobardi, se non da Pavia, certamente del ducato di Benevento. E veniamo all’oggi e cioè dagli anni 50 in poi. 
Le acque limpidissime di Longobardi marina

Presto a Longobardi, come in tanti altri paesi  della Calabria, che avrebbero potuto vivere di turismo e di trasformazione dei prodotti della terra, è iniziato l’esodo negli Stati Uniti, in Brasile, Argentina, Venezuela, Australia e nei paesi europei come Svizzera e Germania. Ma soprattutto a Roma. Oggi il paese con tutte le frazioni conta circa 1300 abitanti dei quali 30-40 abitano nel centro storico: un paese fantasma. Le case sono vuote e solo da poco tempo gruppi di giovani, nei paesi confinanti come Belmonte e Fiumefreddo, si sono attivati e hanno inventato iniziative per favorirne la conoscenza e avviarne il ripopolamento.
A Longobardi mia madre ha insegnato 40 anni e per altrettanto tempo mio padre ha fatto il medico, fino alla morte causata da una terribile emorragia cerebrale. Agamennone, questo il suo nome, è stato un medico straordinario e amatissimo. Ma anche ostacolato e perseguitato per le sue idee politiche, pur non avendo mai ricoperto cariche pubbliche. Nel 1944 con i contadini di Longobardi aveva fondato il Partito d’Azione e quando fu sciolto era confluito nel partito socialista. Le persecuzioni le ho raccontate nel libro “Non è un paese per onesti”. Per anni insieme ai miei cinque fratelli abbiamo cercato di convincerlo ad andarsene altrove; i paesani emigrati a Roma hanno fatto di tutto perché lo facesse ma lui è stato irremovibile. Il clima è cambiato quando con una lista civica-socialista abbiamo vinto per la prima volta le elezioni amministrative.
Quando Agamennone improvvisamente morì, nell’obitorio dell’ospedale di Cosenza dove era stato portato nel tentativo disperato di salvarlo, don Ciccio Miceli arrivò per primo, senza nemmeno salutarci, in piedi recitò una breve preghiera a bassa voce e a conclusione, a voce più alta, in modo che potessimo sentire disse: “era un uomo giusto” e se ne andò. Successivamente il Consiglio comunale gli ha intitolato una strada. Nonostante tutto, il legame con Longobardi è stato sempre molto forte. In estate, ma anche a Natale e a Pasqua siamo sempre andati. Il paese è vuoto e le terre sono abbandonate. Ma noi per scendere a mare attraversiamo una striscia di terra che una volta era di mio nonno e ora è degli eredi e siamo già sulla spiaggia grandissima e quasi solitaria, dopo avere mangiato i primi fichi della stagione.