DA LONGOBARDI
AI LONGOBARDI
di Elio
Veltri
Una veduta dei tetti di Longobardi |
Longobardi è il paese in
cui sono nato, in una casa in affitto fuori dal paese di proprietà di emigranti
in America. Da bambino ho giocato per strada e in campagna con i miei coetanei,
ricordo in particolare due giochi: “u ruotru”, una sorta di forma di formaggio
rotondo in legno per i bambini e di formaggio vero per i grandi che si tirava
con un laccio percorrendo una determinata distanza lungo la strada in discesa
che collegava il paese al mare e “u strummulu”, la trottola. Poi però a cinque
anni mi hanno mandato a scuola e a 10 sono partito con mio padre per Orvieto
dove ho frequentato medie, ginnasio e liceo classico. In collegio, nel palazzo
del 1500 di Lorenzo Maitani, vicino al duomo, dai frati mercedari, ordine
spagnolo, di cui ricordo il freddo e la fame. Per fortuna si andava alla scuola
pubblica accompagnati dai monaci. Ma erano ore di libertà. Longobardi si trova
circa a metà della costa tirrenica calabrese tra Praia a Mare e Reggio
Calabria. In quattro chilometri la strada collega la marina con il paese che è
una terrazza sul mare a 350 metri di altezza, attraversato da una strada, via
Indipendenza, che si inerpica fino a 500 metri di altezza, accompagnata da case,
oggi vuote, e dopo la guerra abitate da famiglie ricche di bambini. Il parroco
di allora, Don Ciccio Miceli, uomo di potere ma soprattutto clericale e
fondamentalista, erede di luigi Miceli anticlericale, garibaldino e ministro
della sinistra storica, la descriveva così: “poche case abbarbicate come
gramigna, su di un contrafforte di Monte Cocuzzo, con la strada principale, via
Indipendenza, di vecchio sapore carbonaro, posta a tale dislivello per cui quando
nevica “ai cavi” il quartiere più alto,
spesso fa buon tempo ai “pioppi” il quartiere più basso. Un paesaggio
fantastico che ti cambia ad ogni svolta lungo le viuzze collinari o le piste
montane; il tutto sullo sfondo delle isolette dello Stromboli tra la
dolce sagoma di Capo Vaticano e le evanescenze del Palinuro o della mole
immensa del lontano Mongibello brillante di nevi nella sua cima alta e fumosa…”.
Nel centro, dopo la guerra, vivevano circa 2000 persone e nel territorio
comunale oltre 4000. Lungo la strada che collega la
marina al paese e in tutte le frazioni le terre erano coltivate: viti, ulivi,
fichi, ma anche granturco e grano. Tutto ciò che era necessario per sostentare famiglie
numerose. La storia del paese è stata scritta da don Silvio Celaschi proveniente
dall’Emilia: in brevi note di “Storia civica e religiosa” del 1975 il sacerdote
pubblica i dati ricavati da un registro del 1884 conservato nell’archivio
dell’abbazia di Subiaco, della grancia (abbazia) di S. Maria di Turriano, con i
nomi delle località di campagna, dei coltivatori e possidenti. Molte delle
famiglie che negli anni del dopoguerra hanno continuato ad abitare con i loro
successori la tenuta monastica erano gli stessi di cinque secoli prima e sono
rimasti proprietari di case e terreni. I poderi erano tutti di piccole
dimensioni, poche tomolate, (il tomolo è
circa un terzo di ettaro) e anche le coltivazioni erano le stesse: viti, ulivi,
fichi soprattutto. Nel registro, scrive Don Silvio, era indicato per ogni
fondo, orto, o vigna, la superficie e il canone annuo che si doveva pagare,
come anche l’affitto delle abitazioni, poste nel casale di Longobardi. Il nome,
anche se non è documentato, glielo avevano dato alcuni secoli prima i
Longobardi, se non da Pavia, certamente del ducato di Benevento. E veniamo
all’oggi e cioè dagli anni 50 in poi.
Le acque limpidissime di Longobardi marina |
Presto
a Longobardi, come in tanti altri paesi della
Calabria, che avrebbero potuto vivere di turismo e di trasformazione dei
prodotti della terra, è iniziato l’esodo negli Stati Uniti, in Brasile,
Argentina, Venezuela, Australia e nei paesi europei come Svizzera e Germania.
Ma soprattutto a Roma. Oggi il paese con tutte le frazioni conta circa 1300
abitanti dei quali 30-40 abitano nel centro storico: un paese fantasma. Le case
sono vuote e solo da poco tempo gruppi di giovani, nei paesi confinanti come
Belmonte e Fiumefreddo, si sono attivati e hanno inventato iniziative per
favorirne la conoscenza e avviarne il ripopolamento.
A
Longobardi mia madre ha insegnato 40 anni e per altrettanto tempo mio padre ha fatto
il medico, fino alla morte causata da una terribile emorragia cerebrale.
Agamennone, questo il suo nome, è stato un medico straordinario e amatissimo.
Ma anche ostacolato e perseguitato per le sue idee politiche, pur non avendo
mai ricoperto cariche pubbliche. Nel 1944 con i contadini di Longobardi aveva
fondato il Partito d’Azione e quando fu sciolto era confluito nel partito
socialista. Le persecuzioni le ho raccontate nel libro “Non è un paese per onesti”. Per anni insieme ai miei cinque
fratelli abbiamo cercato di convincerlo ad andarsene altrove; i paesani
emigrati a Roma hanno fatto di tutto perché lo facesse ma lui è stato
irremovibile. Il clima è cambiato quando con una lista civica-socialista
abbiamo vinto per la prima volta le elezioni amministrative.
Quando
Agamennone improvvisamente morì, nell’obitorio dell’ospedale di Cosenza dove
era stato portato nel tentativo disperato di salvarlo, don Ciccio Miceli arrivò
per primo, senza nemmeno salutarci, in piedi recitò una breve preghiera a bassa
voce e a conclusione, a voce più alta, in modo che potessimo sentire disse: “era
un uomo giusto” e se ne andò. Successivamente il Consiglio comunale gli ha
intitolato una strada. Nonostante tutto, il legame con Longobardi è stato
sempre molto forte. In estate, ma anche a Natale e a Pasqua siamo sempre
andati. Il paese è vuoto e le terre sono abbandonate. Ma noi per scendere a
mare attraversiamo una striscia di terra che una volta era di mio nonno e ora è
degli eredi e siamo già sulla spiaggia grandissima e quasi solitaria, dopo
avere mangiato i primi fichi della stagione.