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martedì 2 ottobre 2018
I MITI DEL NOSTRO TEMPO
La bancarotta dello spirito e l’etica della responsabilità
di Franco Toscani
I
n Italia e in Europa i ponti stanno crollando e sono in pericolo, sia materialmente sia metaforicamente. I ponti che, in tutti i sensi, cadono, rinviano alla crisi profonda della società e delle istituzioni, ai legami umani che si spezzano, all'affievolirsi dell'intersoggettività e della socialità, al venir meno o all'indebolirsi del senso di umanità e di reciprocità, della responsabilità e dei doveri verso gli altri.
Rimangono quindi molta amarezza, mestizia, desolazione, frustrazione, senso d’impotenza di fronte ai tanti mali esistenti e all'immenso dolore del mondo.
In questa situazione viene spontaneo e naturale fare appello alle risorse umane, economiche e materiali tuttora disponibili, all'esigenza di una sana reazione, di un riscatto morale e politico, di una prassi vigorosa ed efficace, di un'opera tenace e profonda di trasformazione, ma una rinascita dello spirito sembra ancora lontana, immersi come siamo nelle paludi e nei miasmi della nostra epoca.
La vera bancarotta odierna non è economico-finanziaria, ma è una bancarotta civile e morale, spirituale e culturale. Solo il gretto economicismo capitalistico oggi dominante può privilegiare/assolutizzare la dimensione economica e sottovalutare le altre dimensioni dell’esistenza.
Dalle crisi e dalle bancarotte economico-finanziarie ci si può sempre o più facilmente - date certe condizioni - in qualche modo riprendere e risollevare; ben più arduo è invece riprendersi e risollevarsi dalle crisi e dalle bancarotte spirituali e culturali. Queste ultime sono di ben più ampia portata, mettono in gioco il senso stesso dell'esistenza umana e rischiano di compromettere il destino stesso della nostra civiltà. Il dominio della ratio strumentale-calcolante, del consumismo e dello spreco, della mercificazione totale, della mentalità "usa e getta", dell'indifferenza e dell'insensibilità a ciò che è integro e autenticamente umano sembra assoluto. Si avvicinano l'inaridimento della terra e dell'umanità la desertificazione del senso, il compimento del destino nichilistico della nostra civiltà, a cui sembra di non poter sfuggire nonostante o proprio in forza di tutti gli stimoli (rispetto al cui eccesso già Nietzsche aveva messo in guardia nella seconda metà del XIX secolo), le luci, le eccitazioni, gli abbagli della società sirenico-spettacolare. Il tesoro della serenità interiore, il fascino e la bellezza di una ricca vita di pensiero e di relazione ci stanno diventando sempre più estranei. Noi rischiamo così di perdere l'essenza umana più preziosa.
Uscirne fuori non sarà facile e breve. Occorrerebbe una coscienza civile o qualcosa di simile, che invece è ancora troppo carente.
Perché risulta così difficile fare appello a quel senso della responsabilità, del limite e della misura che sarebbe oggi estremamente necessario?
Perché l'etica della responsabilità proposta già negli anni Settanta da Hans Jonas per affrontare i problemi della civiltà tecnologica rischia di rimanere minoritaria e sostanzialmente inascoltata? Perché l'umanità - come aveva già sostenuto nel 1953 Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace - sta perdendo sempre più la capacità di prevedere e di prevenire, correndo così verso la distruzione della Terra?
Le voci precorritrici e profetiche - come quella di Ernesto Balducci - rimangono per lo più inascoltate, nonostante l'aumento dell'inquinamento e del "riscaldamento globale", delle diseguaglianze economico-sociali e delle ingiustizie, della violenza e del terrorismo, dei pericoli di guerra, della desertificazione della terra, della minaccia pendente sull'ambiente e su tutto ciò che vive. Non solo prevalgono enormi interessi economico-finanziari rivolti a sfruttare illimitatamente e senza scrupoli - in nome del primato della logica del profitto - tutte le risorse disponibili (quelle umane comprese), ma sembra pure che l'attuale ciclo di produzione e di consumo, il mito della "crescita" e del successo a tutti i costi, il culto del denaro e della merce, della tecnica e del capitale, insomma il "normale" andamento delle cose sia sostanzialmente accettato.
La mutazione antropologica ad opera del capitalismo consumistico ed edonistico intravista sin dagli anni Sessanta-Settanta del XX secolo da Pier Paolo Pasolini si è compiuta. Gli uomini sono ridotti a consumatori/produttori e divoratori di risorse, per lo più interamente assorbiti dai loro piaceri e interessi immediati, senza più alcun vero sguardo lungimirante.
L’orizzonte degli uomini si rivela così ristretto e miope, la sfera del "mondo-della-vita" e delle attività umane si restringe nel puro ambito della "globalizzazione" capitalistica, incapace di scorgere altre forme possibili della globalizzazione stessa e di proporre in tal modo alternative praticabili nella direzione di una civiltà più ecologica e solidale, più conviviale e giusta. Programmazione, pianificazione e prevenzione costano e disturbano, sono d'ostacolo al perseguimento degli scopi di profitto immediato e non sono previste da un progetto politico finalmente serio e saggio.
Nella miope società del "libero mercato", i soldi spesi pensando agli altri, al prossimo, ai deboli e ai poveri, alle nuove generazioni, alla salvaguardia dell'ambiente, al futuro non sono previsti. In questo modo e con questo corto respiro si afferma un peculiare cinismo dell'uomo produttore/consumatore della nostra epoca, tutto preso dalla sua corsa spensierata e incosciente verso l'abisso, in nome di uno sbandierato e malinteso progresso.
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