di Renato Seregni
Renato Seregni |
Ogni paese rappresenta la sua storia, e questa, tra
le molte, è la mia. Storia di un venditore di buone intenzioni smarrito tra gli
scaffali di una biblioteca a Cinisello Balsamo, un paese, ora città forbice e
colla dell’hinterland milanese. Alle ammucchiate presenze di una crescita
febbrile, ora mi affido al riscatto possibile dopo aver esplorato e sfidato la
vita sulla pagina, raffigurandomi nel suo contrario. Spasmodico, seppur
taciuto, un bisogno di sicurezza e
prosperità, in un paradiso intimo tra fondali stitici e silenzi acuminati.
Trovarsi nel luogo dove il facile è piacevole, il tempo riposa e lo sperato
alle volte torna, l’imprevedibile pensabile s’avverò. In scansione giacobina,
la serratura mi isolò dal mio mondo. Attimi sospesi tra inimmaginabili
conseguenze: buio, odore di polvere e ricordi di passi. Come in un teatro: muto
il dire e le spente fisicità si fanno storia. Eppure qualcosa ancora aleggia e
vagamente dice. Buio! Non l’idea del buio. Qui, ora, nel cono di immaginabili
presenze, l’eco di brusii si raggela in tagliente dire. Con una mano zittisco
labbra colme di paura, l’altra scarabocchia affannosamente il nero. Sfioro
concretezze, libri, smarrimenti. Intuisco che Borges ne sarebbe stato felice.
Folletto tra gli inchiostri, accarezzo pagine colme di paradossi, indicando
conquiste godibili e luoghi possibili, nondimeno improbabili. La gola si
asciuga deglutendo spasmi accarezzando tomi golosi di sapere e snelle saggezze.
Geometrie instabili e sghembi pensieri, come il mio procedere navigando senza
meta. La mano esitante accarezzò una ghiaccia forma, e subito la ritrassi. Dopo
alcuni indugi, me ne riappropriai. Una presenza umana si concretizzò, mi fu di
conforto persino il freddo mortale della materia con cui, uno Zeus di maniera,
assunse parvenza di figura amica. Il tempo e il buio, paura e incanto si impastarono
di sublime. Nelle mani avevo presenze, negli occhi i fatti. Mi assopii nell’ora
in cui la razionalità di Apollo si abbandona nella passionalità di Dioniso.
Cronaca di uno smarrito venditore di buone intenzioni. Scrivere è ignobile,
quel che conta... non lo so. Efferata biblioteca all’ombra di un campanile
sazio e case di bocciofili in eccesso di ragionevolezza, tra politici sordi
alle metafore e bancari in cravatta. Blindato avere, puntualizzato sapere,
speculativo agire: ogni cosa all’estremo. Labirinti di una notte in cui l’ansia
di conoscere il proprio destino pone la propria vita come tributo ad un
processo credibile, alla lenta creazione di una realtà possibile, non esaurita
né esauribile.
Municipio |
Il
destino di un uomo è legato al suo carattere. Il destino degli uomini è legato
pure al loro paese. Un paese tutto. Totalità in due righe. Come ebbe a dire
Testori: Quando ho detto che sono nato
nel 1923, a
Novate, cioè a dire alla periferia di Milano, dove da allora ho sempre vissuto
e dove spero di poter vivere sino alla fine, ho detto tutto. Una vita
appiccicata ad una casualità geografica
in cui si riverberano impeti, delusioni e passioni. Dove si riassumono
tutti i luoghi e l’inutilità di visitarli. Proprio lì, tra simboli nascosti nel
quotidiano. Si scavano storie, si assorbono umori, accenti, bestemmie che anche
Dio condivide, perché Cinisello è un punto, come Novate, Brugherio, Lissone, come
altri vivissimi punti nella sconfinata Palestina: Nazareth di Lombardia. E un
figlio, nel privilegio di ogni figlio da Lui nato, può bestemmiarlo per
inabissarsi nel peccato, per accedere alla sua misericordia e goderne la sua
gloria. Un figlio di dolore nello scherno dei dolori. Festival del riflusso, o
vissuta esperienza religiosa? Turpe cultura astratta che allontana dal Padre, o
gioia di un Destino? Caccole in casualità topografica infittiscono schiribizzi
da caffè in piazza, festival di clacson, melanconie di siepi per amori
notturni. In un hinterland di gerani volano canzoni in suburra di accenti, tra
palazzi smunti, gonfiando bucati. Ci si cura con le creme e telefoni squillano
tra i ballatoi in jazz di sciacquoni sordi ai diòscuri che vendono accendini.
Un paese tutto. Si balla al parco, si muore in curva, si ride per dovere, si
sciopera compatti, si fiondano lampadine, s’inghiotte la tivù, si crescono
figli. Precisissimo indefinibile luogo, in legame indissolubile con ciò che si
è vissuto, diventandone addirittura prigionieri. Su balconi sporgono silenzi di
vecchi che pregano al piovere di carognose disgrazie. Un paese dove tutto è
avvenuto e tutto già è stato detto. Un paese di focose ferialità e additati
eventi. Cambiali sventolano sgommando asfalti e cravatte reggono orgogli
inamidati. Un paese di flaccide moquette, come tanti paesi in oleosa
contiguità. Un paese in cui ogni dato è dato, e anche così vivere è un buon
affare.
Provo un bisogno incessante di dialogare con la parola scritta, e
scrivendo traggo spunti da qualsiasi argomentazione, come da un periodo tronco
o da un manifesto stracciato, come da una vocabolo randagio pittato su un muro.
La sento pigiare dentro, interrogante. Sfacciata provocazione nell’attesa di un
rimando. Il mio pensiero non attende altro. Sfida subitamente raccolta,
impastando passione e ragione producendo una ragione appassionata.
Sant'Ambrogio |
Siamo
orfani della grande onda che ci ha abbandonato sulla spiaggia. Le vacanze Club
sono un tentativo inconscio di ritorno alle origini. L’uomo ha costruito il
cielo a imitazione degli strumenti che servono per osservarlo. Per l’oltre: o
crede o non è attrezzato. Però niente è poco, veramente. Ho il coraggio delle
decisioni altrui in lindore domestico. Mi sento sovrano della parola che
influenza le azioni degli altri. Confido siano buone, diversamente spero siano
buoni gli altri. Scegliere è un atto critico. Chi non sa, critica le scelte
critiche. Dove fuggire, dove trovare scampo dalla pazzia? Bum! Edifichiamo
nuove disponibilità, prospettive, innocenze. Splasch! Svelare, stupirsi,
ritorsioni, recessioni, secessioni. Gong! La tratta delle banche si fa per la
spartizione delle spoglie? Quando i pensieri sono buchi neri. Operai di sogni:
unitevi. L’arroganza dei poveri, fieri del loro niente, liberi; ci sono dei
momenti che li invidio. Mai parole più belle sono state trovate per cantare il
loro privilegio. Impareggiabile cantico su carta da pacco. Salomone, re in via
della Spiga, canta l’accadere dei “fatti”. Metafisica e Teologia sono fantasmi
che svaniscono con l’aurora della scienza, oppure sono il sapere con il senno
di poi? Meglio di niente, o meglio niente? C’è una intuizione riflessa che
arriva prima della comprensione.
Esiste
un luogo di gerani e pozzanghere di mare. Posseduto dal demone barocco della
curiosità insaziabile, ho attraversato cortili. Sconfinando mondi in balbuzie
di dire. Correndo perfuse memorie. Là, dove inchiostri fieri di vento spandono,
ho levigato eccellenze. Pallide scrosciano le risate. Esiste un luogo di gerani
e pozzanghere di mare e ripetuti eventi. Un concilio d’odori e polvere che si
perde oltre il rosso dei tetti. Esiste un teatro di ringhiere al canto di
voglie, un’isola con vele tra i gelsi, e caverne dove scoprire l’immenso
infantile. Nella ghiaccia luna flussi di neve corrono gli usci. E si sale
abbracciando caldi mattoni. Domani spannocchieremo. Morirà una vecchia. Faremo
a pugni. Sguazzeranno animali. Partiremo militare. Sposeremo. Esiste un luogo
dove sarebbe bello tornare.
Villa Ghirlanda |
Dualismo.
Partiti e cultura. L’uno contro l’altro, sguaiati. E noi, incattiviti di parte,
come cani dietro una siepe, impulsivamente, corriamo abbaiando contro tutto.
Non incontreremo mai due volti assolutamente identici. Non importa la bellezza
o la bruttezza. Ciascun volto è il simbolo della vita. La vita merita.
Specularità nel teatro-vita. Bassezza e sacralità: l’uno fatto di gonfiori
tecnologici e rumori, di nasi posticci, culi gonfi per suscitare desideri, dove
istinti e impulsi suonano la grancassa, l’altro, è dato vedere sulla scenamondo
il volto dell’invisibile, il soffio della poesia, in cui la verità e la
complessità dei vissuti, dei sentimenti, sembra fondersi, confondersi e
inesorabilmente contrapporsi. Oggi mi va cosi! Io, eremita metropolitano tra le
cose, frequento il possibile inciampando l’evitabile. L’importante è andare tra
sempre nuove contraddizioni.
Se
fossi un pittore, oppure un musicista, utilizzerei le mie presunte qualità sul
registro delle competenze: colori, note. Sono solo un impastoiatore di parole,
pendolare con loro, e loro si affidano su pagine vuote. Pensiero inciso,
energia visionaria quasi sempre incompresa, che prende voce tra gravide
consapevolezze ed enigmatiche incertezze facendosi vita.
Dio
unico e solitario che ha fatto questo mondo, io mi dono... e sia fatta la Tua
volontà di rivelarti e agire dentro tutte le cose e precipitare sopra e addosso
alle mie parole, scarne e astratte, ostili alla grammatica, al franar degli
aggettivi. Lustrini di costrutti decaduti, gravati nel periodare, incapaci di
vibrare al precipitare di sillabe in jazz di punteggiature. Musicando
consonanze. Soffia o Dio. Allora i verbi comanderanno le frasi, la realtà
approderà dove il senso conduce, ed io diverrò l’imperante soggetto del tuo
volere. Al mio risveglio, fisserò un pugno di versi al filo e alto voleranno.
Visibilmente, come gli uccelli del cielo, come la gassosa pancia della
Goodyear, in tua supplenza contribuirò a penetrare l’enigma dell’amore. Io ti
dono.
Nel
tentativo di decodificare una sapienza, scavo la rugosa scorza della parola.
Voglio strappare l’involucro ornamentale che la fa bella, il rimando iconico
che ingabbia il senso e scagliarla, urlante e beffarda, in faccia alla
millenaria conoscenza. Caino è morto. Caino vive. Mi è sempre piaciuto
contraffarmi e mentire. Mi informo della realtà e tutto ciò che contiene
un’ipocrisia mi seduce. Da smascherare, da mordere. Solo, mentre il fischiar
dei treni pettinano pensieri. Adolescenza senza sosta, furia di sussurri. Solo,
bambino su una ligure spiaggia, al ritmo di vagoni carichi di misteri. Immobile
stupore, contabilizzo filastrocche auspicando eventi. L’uscio sempre aperto,
casello abitato da fantasie, tutto correva: luoghi, mete, senso. Esitazioni al
franare del transitorio, cancellando impronte. Caino è morto nel tracimato
tempo che ingoia pulci e balene.
L’inferno
sono gli altri, lessi morsicando sartreiani labirinti. Notizie su un quotidiano
di provincia, quando la settimana è avara di disgrazie, incidenti, lutti e il
vulcano mondo sbadiglia apocalittiche eruzioni. Lo strepitio della notizia deve
essere incessante e turbare il sonno nella città di Babele. La morbosità
spugnosa pretende la dose, e l’orrido trabocca. “Catherine Deshayes sposata
Mauvoidin, detta la Voisin, nata nel 1640 a Parigi da famiglia poverissima.
Chiaroveggente di fama, fin dai nove anni leggeva la mano per strada anche alle
grandi dame. Preparava filtri d’amore, pozioni contro l’impotenza, veleni.
Organizzava messe nere sacrificando bambini che poi seppelliva nel prato di
casa. Arrestata il 4 gennaio 1679 mentre faceva l’amore con i figli, convinta
che la chiaroveggenza si trasmettesse per incesto. Bruciata viva il 22 febbraio
1680” . L’inferno sono gli altri. L’inferno
siamo noi, prigionieri del mondo, dopo aver attraversato il deserto del sapere.
Perduta la spontaneità e l’innocenza, tra male e bene, nella specularità
dell’incanto, l’uomo disperatamente tende alla grazia, questuando nei
sottoscala della morale.
Centro Culturale "S. Pertini" |
Supponiamo
un contesto. Quattro strade nel caldo sospeso di silenzio, una voglia di vivere
pigiata nella pelle, voglia di cocomero, di musica, di odori femminili e Milano
lontana. Prospettive aperte ma invalicabili, limiti irraggiungibili. Ti pesti
le unghie contando i giorni, calciando un pallone, pensando a cose che
significano tutto e niente, fingendo di capire. L’orizzonte è l’occhio della
mente nelle sue teorie ardite. Il confine è l’impossibilità di compiere un
passo. Dal gioco dei cinque sassi all’atlante geografico. Ho conosciuto parole
che aprivano avventurosi significati, nuovi stupori. Il chewinggum, le scuole
serali, i sedili ribaltabili, i film di Bergman, la musica in cuffia, miss
Universo e l’ombrello a scatto. Parole e ancora parole. Le parole possiedono
potere: si incarnano, si realizzano, producendo delitti e rivoluzioni. Ogni
giorno assistiamo ai loro trionfi, ma anche ai loro disastri. Ho scritto prime
parole, vagiti di sapere. L’America, bella l’America; mi sembrava l’Africa che
ha vinto la lotteria, e ride sempre. La giustizia la sentii prorompere a pugni,
come Tom Mix in 8 mm .
Come lui, senza cavallo. Poi fui Gordon con donne luna, e via.
Insomma,
sono un autoritratto camuffato, immedesimandomi oltre ogni limite in caricature
sarcastiche, gioiose o dolorose. Sono Musset, che si ritrae nei panni di
Fantasio; Flaubert che proclama: “Alle radici della mia natura, si può dire
quel che si vuole, ma c’è il saltimbanco”; Jarry che, in punto di morte,
s’identifica con la sua stessa creatura parodistica: “Il padre Ubu cercherà di
dormire un po’”; Joyce che dichiara: “Io sono soltanto un clown irlandese”;
Rouaut che moltiplica il proprio autoritratto dietro il trucco di Pierrot;
Picasso circondato dalla sua inesauribile riserva di abiti e di maschere; Henry
Miller che medita “su quel clown che è, che è sempre stato”. Galleria di
deformazioni: Io, in “versione Starobinski”. Io: centro mobile di un ordine in
movimento. Metafora di una verità destinata utopicamente a rincorrersi, a non
coincidere mai con se stessa, reinventandosi. Gas di scarico di una conoscenza
da semaforo, ostinatamente in totale ammorbamento. Il gioco ironico possiede di
per sé il valore di un’interpretazione, rappresenta una derisoria epifania
dell’arte e dell’artista.
Avanzare
indietreggiando. Rido girando le spalle, per evitare che il futuro mi riempia
la bocca di affermazioni, subito smentite dall’incombente presente. Ginnico
affronto il passato avviluppato nel quotidiano. Il riso è più effimero del
gioco e più efficace se involontario. La tragica comicità degli avvenimenti,
dopo. Sono onnipotente pur non potendo. Posso far sì che il vero sia falso e il
brutto sia bello. Posso mentire per alleviare un dolore, significare una
testimonianza per una redenzione a venire. Ho letto slogan, ricette di cucina,
autori russi, topolino, pagine gialle, le strisce nei cioccolatini, la capanna
dello zio Tom, l’enciclopedia britannica. Ho detto cose per apparire. Ho
affermato verità promiscue, congiunzioni amorose, oroscopi nei salotti. Ho
urlato la gioia di un set, sputato sentenze
Monumento alla migrazione |
In
questo paese strano, in questi tempi strani, dove nulla incomincia e nulla
finisce davvero, non è facile orientarsi tra visione di pagine e parole che
vorticano pulviscoli di idee tra eventi e attori dissociati in contesti
diversi, vittime degli azzardi di uno stralunato autore. Famoso come l’anonimo
scrittore di Gilgamesh. Odisseo da villaggio turistico agognando un tripudio da
stadio a cui, onori e gesta, tutto si attribuisce. Ritualità tra chiassosi
matti sognatori, anarchici fedeli e il dire omelico di intellettuali spremuti.
Strabico naufrago di sogni sull’orlo del saliscendi. Uomo da sala corse fissa
lo sfumato ammontare di una tris tra rimbalzi di parole. Pezzi intercambiabili,
ingranaggi raschianti, memorie scisse s’accalcano e respirano al mutevole
ansare del tempo. E ci si incurva come un giorno colmo, come un giornale
sottoascella, come la vita compatta e infeltrita. E si continua, nell’aria
satura di molto dire che va, va in tutte le direzioni. Qui sono nato. Poi ho
camminato il mondo: città, rumori, odori, tra uomini come noi. Combatterci o
vivere insieme, ecco il destino dei nostri figli. Ma qui sempre torno.