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lunedì 10 dicembre 2018

IL CARCERE
di  Suha Jbara
Giovane madre palestinese arrestata a Gerico
  
Il carcere per molti è un passaggio obbligato, come in un romanzo di formazione, l'ingresso in una società occupata e resistente. Il laissez-paisser al mondo della politica attiva, al rispetto degli altri, al riconoscimento del ruolo di leader. Perché nelle prigioni la vita politica non muore. Al contrario, si radica: dal 1967 il movimento dei prigionieri palestinesi è il perno del pensiero politico, della formazione dei nuovi leader e dell'educazione della base.
1974, 1976, 1984, 1992, 2004: sono solo alcuni degli scioperi di massa che hanno segnato la storia del movimento dei prigionieri politici palestinesi.
Gli accordi Oslo ci privarono della nostra causa, la liberazione della Palestina storica, provocando un collasso del movimento dei prigionieri
“Dall'inizio dell'occupazione militare ad oggi si possono individuare una serie di fasi. Dopo il 1967 è stato necessario del tempo prima che i prigionieri si organizzassero dentro le carceri israeliane - spiega Jadallah - All'inizio l'obiettivo immediato fu quello di combattere le condizioni di semi-schiavitù, il lavoro nelle prigioni per comprarsi beni di prima necessità.
“Dentro le prigioni ci si inizia a organizzare sulla base dell'appartenenza politica e partitica. E arrivano i primi scioperi della fame, all'inizio degli anni Settanta: è la prima fase del movimento, caratterizzata da decessi dovuti all'alimentazione forzata” imposta dai carcerieri”. Il primo prigioniero a morire dopo essere stato nutrito con la forza è Abdul-Qader Abu al-Fahem, nel 1970 nel carcere di Ashkelon.
“Martirio o libertà”, è lo slogan che accompagna - silenzioso o gridato - le battaglie nelle carceri. In altre parole, gli scioperi della fame sono uno spazio fuori dal raggio di potere dello Stato di Israele.
I prigionieri ribaltano la relazione oggettiva e soggettiva con la violenza fondendoli in un unico corpo, il corpo del detenuto in sciopero. Riaffermano il loro status di prigionieri politici, rifiutano la riduzione a “ prigioniero per motivi di sicurezza” e reclamano i loro diritti e la loro esistenza”.
La seconda fase - continua Jadallah - e quella che va dal 1972 ai primi anni Ottanta. Aumentano ancora i prigionieri provenienti dai territori occupati e il movimento diventa sempre più efficace, sia dentro che fuori.
E poi c'è la terza fase, quella corrispondente alla prima Intifada: le carceri israeliane “ospitavano” dieci-quindicimila prigionieri in detenzione amministrativa” e compaiono i primi detenuti di Hamas
La quarta fase coincide con la firma degli accordi di Oslo, agli occhi dei prigionieri l'istituzionalizzazione del tradimento 'da parte della leadership in esilio all'estero.
E con l'apparizione dell'Anp i rapporti tra A detenuti politici e società cambiano: il governo di Ramallah crea un nuovo meccanismo attraverso la nascita del Ministero dei prigionieri. Che invece di lottare per il rilascio, si limita a mantenere i detenuti e le loro famiglie con una sorta di stipendio. Comprarono il silenzio, sostituirono la lotta con il welfare”. Passano diversi anni prima di raggiungere la quinta fase, quella della seconda Intifada
Nel 2004 Israele reagisce a un nuovo sciopero della fame modificando il meccanismo di detenzione: i prigionieri vengono portati esclusivamente nelle carceri dentro lo Stato di Israele, rendendo nella pratica quasi impossibile ricevere visite dei familiari,16 e si intensifica la pratica delle punizioni collettive. Un sistema identico a quello dei checkpoint: qualsiasi atto individuale viene fatto ricadere sulla massa, sui compagni di cella o le persone in fila allo stesso confine.
Passo verso le proteste individuali è breve: spuntano i primi scioperi della fame in solitaria.
Nell'ultimo anno la sollevazione dei giovani palestinesi ha riaperto alla possibilità di un collegamento strutturale tra le carceri e la società: agli occhi delle nuove generazioni i veri leader della lotta di liberazione sono dietro le sbarre e non dentro gli uffici governativi di Ramallah.
Mentre Khaled segnava il suo diciottesimo anno di prigionia, Habed ci entrava. Gli mancavano due anni per tagliare il traguardo della maggiore età. 
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Hanno buttato giù la porta di casa all'1:30 di notte. Mi hanno bendato e ammanettato … Durante il tragitto, è iniziato il pestaggio”. Lì parte il balletto dei trasferimenti, prima alla base militare nella colonia di Gush Etzion, poi nel carcere di Moscobiyya, … a Ofer, poi Hasharon, Nafah, Ashkelon, infine Negev e Deman.
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“Ad Hasharon ho vissuto l'esperienza peggiore: ero lì da due settimane quando i soldati hanno lanciato dentro le celle gas lacrimogeni e ci hanno chiuso dentro. Non riuscivamo a respirare e allora hanno aperto le celle. Ma ci aspettavano fuori. Erano più di cento soldati, disposti in due colonne nello stretto corridoio che conduceva allo spazio comune. Ognuno di noi è stato costretto a passare in mezzo a loro e, mentre camminavamo, ci picchiavano sulla testa e sulla schiena con i manganelli. A me hanno rotto una gamba. Sono caduto a terra e si sono lanciati su di me: mi hanno colpito non so quante volte. Ho perso conoscenza per circa sette ore per le botte alla testa. Mi sono risvegliato all'ospedale militare di Ramle, dove il medico mi ha detto che la mia gamba stava benissimo, avrei solo dovuto bere un po' d'acqua per sentirmi meglio”.
“Ho abbandonato la scuola, ormai avevo perso tre anni. Vorrei studiare una lingua, magari andare all'estero per un periodo. Continuo a sentirmi un alieno. Vorrei solo tornare alla vita di prima, ma non riesco a cancellare la prigione. Chiudo gli occhi e sono di nuovo dietro le sbarre”.