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venerdì 28 dicembre 2018

MANDORLE AMARE
di Fulvio Papi



Che cosa succede quando leggiamo nelle pagine del giovane Nietzsche questa proposizione: “Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà”? Credo venga subito in mente la cultura tedesca che corre tra 800 e primo Novecento, interpretata in un celebre e criticato libro di Lukács come preludio simbolico dell’etos nazista. All’opposto vi è il costume democratico (quanto in crisi lo sanno tutti) che, per l’estensione del potere capitalistico, è diventato il costume di vita americano, come mitologia. Il primo caso è costato una guerra con sessanta milioni di morti. Il secondo con la trasformazione di ogni forma di civiltà e di sapere in un mercato, dove non si misura solo lo scambio mercantile ma anche il successo dell’ “eroe”. La prima realizzazione del mito – lo stile nazista – è stata vinta, anche se non annullata, poiché la vita sociale e storica è piena di somiglianze e di ritorni. La seconda realizzazione del mito ha agito progressivamente sul mondo come utilizzazione infinita delle risorse naturali (che i “francofortesi” avevano compreso molto tempo fa), la riproduzione sociale dominata dall’allargamento del denaro, la vita sociale come spettacolo prigioniera degli effetti di queste condizioni. Lo sviluppo storico, dove la forza dell’intelligenza è purtroppo dominata dall’estensione dei poteri, ci ha condotto sulla soglia della catastrofe. Ancorché attenuata dalle forme di comunicazione, è nota la conclusione degli studi degli scienziati che lavorano per l’ONU i quali affermano che allo stato attuale del riscaldamento del pianeta abbiamo davanti a noi 12 anni prima che i guasti della terra che noi oggi qui conosciamo, diventino irreversibili e conducano a una situazione che richiederà l’emigrazione di mezzo miliardo di persone poiché le loro terre saranno invase dalle acque. 



Noi, filosofi o storici, non abbiamo nessun potere sul futuro e pochissimo sull’educazione sociale. Siamo in un margine irrilevante, a nostro modo siamo i “copisti” (ricordate i monaci che salvano i testi classici), più o meno abili, dell’orizzonte del declino definitivo della nostra civiltà. Non sto ripetendo le categorie di Splenger di cento anni fa, e tanto meno, la giustificazione della comunità di violenti che nella crisi leggevano la loro legittimità.
Naturalmente ci sono copisti e copisti. I più validi sono quelli che analizzano la realtà di oggi e ci mettono di fronte alla catastrofe delle concezioni acquisite sessant’anni fa invitandoci a nuove forme di pensiero. Molto meno interessanti sono i “copisti” che non sanno di esserlo, e propongono scelte per il futuro che ripetono proprio i valori che sono in crisi: un’ironia tautologica. Il rischio è quello di tentare di pensare il presente con categorie che vengono dal passato. In questo cerchio catastrofico avremmo almeno però, almeno nella teoria, gli strumenti per evitare il peggio, ma non c’è il soggetto che possa renderli attivi. Chi dirige (e anche le popolazioni) resuscita lo Stato ottocentesco quando Ricardo non voleva l’esportazione della moneta inglese. Che a costoro tocchi l’egemonia è un’ironia storica che deriva da molti motivi ma anche dall’invecchiamento delle istituzioni, che vuol dire la loro prevalenza formale. Ora dovrei parlare del “popolo” alla Rousseau, o all’opposto, di Nietzsche. Ma non sono le dottrine che contano e, ovviamente anche i loro ripetitori, spesso chiusi in queste gabbie vanamente “elevate”. I valori “teologici” del mercato elaborati dalla cultura del capitalismo informatico, hanno occupato la scena attuale nell’euforia e, oggi, nella paura e nella depressione. Potevamo essere di ostacolo a questo processo. Ciascuno cerchi di rispondere onestamente. Quello che ho scritto non mi piace anche se voleva essere solo un tentativo (alla Lessing) di avvicinamento alla “verità”. Alla fine ha un sapore di mandorle amare.