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martedì 1 gennaio 2019

SALONICCO
di Gabriele Scaramuzza

In occasione dell'80° anniversario delle leggi razziali.


Gilda Nahmias e Marco Samuel

La famiglia Samuel (Gilda Nahmias e Marco) è originaria di Salonicco; i nomi propri sono stati italianizzati: in epoca antecedente Marco era Mordecai (ma non è certo), Gilda era Rahilda.  A Salonicco (Tessalonica in greco) risiedeva fin dal I secolo dell’e.v. una fiorente comunità ebraica; per questo era detta la Gerusalemme dei Balcani. Significativamente Paolo di Tarso ai Tessalonicesi inviò due tra le sue principali lettere. La storia della città, e degli ebrei in essa, ebbe vicende diverse e contrastanti; gli ebrei erano nella stragrande maggioranza sefardita, di lingua ebreo-spagnola. La comunità era composta per lo più da commercianti, attivi in particolare nel ramo tessile. Fu pressoché totalmente annientata ad Auschwitz o, ma meno, in altri campi di sterminio*. Non a caso vi si riferisce anche Primo Levi in Se questo è un uomo**.  


Nelly e Sami

I Samuel emigrarono presto nella vicina Sofia, capitale della Bulgaria, dove nacquero nel 1912 la figlia Nelly e quattro anni dopo, nel 1916, il figlio Sami. Marco Samuel commerciava in tessuti italiani; questo motiva il fatto che alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, si trasferirono a Milano, data la vicinanza di questa città alla zona ricca di industrie tessili del Nord. A Milano vissero poi sempre, come cittadini greci; qui i figli studiarono, trovarono un ambiente a loro propizio e intrecciarono affetti e amicizie che durarono tutta la vita. Sami Samuel frequentò il liceo classico Beccaria, allora in piazza Missori. Sempre a Milano si iscrisse nel 1935 (dunque, fortunatamente, prima delle leggi razziali) alla Facoltà di Medicina, dove poté laurearsi il 16 giugno del 1941.*** Il diploma di laurea (che qui di seguito riproduciamo) reca la scritta “di razza ebraica”; a motivo di questa appartenenza gli fu negata la lode; poco dopo ha sostenuto l’esame di stato, e dunque ha ottenuto l’abilitazione alla professione, a Modena. Allorché Mussolini decise, nell’ottobre del 1940, di “spezzare le reni alla Grecia”, il padre Marco, dopo una detenzione a San Vittore che lo segnò drammaticamente, fu mandato al confino nelle Marche, in quanto cittadino greco; e là morì nel 1941. Quel che restava della famiglia visse durante la guerra a Milano, sotto falso nome. La madre e la sorella si dedicarono (come poi sempre) a lavori femminili, anche di pregio; Sami operò come medico e in quanto tale lavorò persino all’ospedale di Salò (ho appurato la sua presenza quanto meno all’inizio del ’43, testimoniata da una sua paziente). Qui per un certo tempo furono sfollati, insieme a loro c’era la famiglia della futura moglie, Rina, non ebrea, con cui Sami già si era fidanzato. Poi tornarono a Milano. La vita a Milano durante la guerra fu di lavoro, di ansia, e insieme di attesa: attesa che gli alleati risalissero la penisola e li liberassero. Ascoltavano, ovvio, Radio Londra: lì appresero il nome del luogo da cui sembrava gli Alleati non si potessero scollare mai: Vinchiaturo, che divenne per loro il simbolo dell’angoscia legata alla stentata avanzata degli Alleati. Ci fu un tentativo difficilmente databile di Sami di riparare in Svizzera****: andò male, dovette tornare a Milano, ma per fortuna non c’era ad aspettarlo sul confine la polizia fascista: il fallimento del tentativo non sfociò nell’arresto e nella deportazione ad Auschwitz, come accadde purtroppo, tra i tanti, a Liliana Segre e alla sua famiglia*****. Una cosa ancora, e non secondaria, non è da tacere: la portiera dello stabile in cui i Samuel abitavano conosceva il loro cognome, e dunque le loro origini; ma lo tenne per sé negli anni della guerra. Solo appena passato il 25 Aprile, a Liberazione avvenuta, lo rivelò, chiamando Gilda e Nelly con il loro vero cognome: “signore Samuel” - con loro riconoscente sorpresa. La portiera non si era dunque associata ai delatori, che non mancavano tra gli italiani di allora, e  che per pochi soldi denunciavano gli ebrei******.



Il diploma di laurea con la dicitura
"di razza ebraica"

Aggiungo ancora alcune notizie relative agli anni della guerra, che ho raccolto dalla viva voce di Nelly. Arrivò a Milano una famiglia di ebrei di cui era molto amica; questa giovane coppia, con due bambine, sperava di essere solo di passaggio, e di potersi presto rifugiare in Svizzera. Il marito incautamente si recò nella Sinagoga per richiedere dei documenti; lì fu arrestato, e deportato. La moglie Caroline, molto bella (come risulta dalle foto conservate da Nelly), con le due graziosissime piccole, furono pure arrestate nei locali in cui si erano rifugiate; finirono in un campo di sterminio, da cui nessuno di loro ritornò - Nelly ne rimase scossa per sempre. Un altro racconto: Nelly e Rina (la futura cognata dunque) si recarono a trovare alcuni conoscenti ebrei; la portiera dello stabile le avvertì, con un cenno inequivocabile, di non salire nell’appartamento, in cui poco prima avevano fatto irruzione i nazifascisti; e questa fu una fortuna per loro. Un’ulteriore notizia (è stata sempre Nelly a riportarmela): un loro amico, o conoscente, ebreo, torna a casa, la portiera fa il possibile per avvertirlo di non salire nella sua abitazione, dov’era arrivata la polizia; il conoscente non capisce, o finge di non capire, e sale; è arrestato insieme alla sua famiglia - la fine è immaginabile. E ora due ricordi di Fulvio Papi*******, utili a rievocare il clima di quegli anni; era nato nel 1930, da madre triestina. Questa viveva in un clima favorevolmente disposto verso gli ebrei della città, che conosceva, e fu dunque inorridita poi dalle leggi razziali. Nell’autunno del ’38 Fulvio Papi, alle elementari, vide scomparire un suo compagno di classe, Levi (non ricorda il nome: allora ci si chiamava per cognome, lo so bene); decenni dopo, a una riunione di ex-alunni, apprende che era stato assassinato ad Auschwitz. Un altro ricordo: accanto all’appartamento del nonno di Papi, in piazza Maria Adelaide, abitava una famiglia ebrea, che aveva giustamente deciso di emigrare in America, e riuscì a farlo; doveva naturalmente disfarsi di alcuni averi: mobili e suppellettili varie; al nonno offrì alcune ceramiche di Faenza, che volentieri egli acquistò a un prezzo superiore a quello (fatalmente stracciato) a cui gli venne offerto. Queste ceramiche sono poi state ereditate da Fulvio Papi, che tuttora le conserva nel suo appartamento. Dopo la liberazione la vita riprese non senza difficoltà ma normalmente: le nozze, una figlia, i progressi nel lavoro, le relazioni sociali. Il carattere espansivo di Sami, la professionalità e l’umanità verso i pazienti, con cui svolse la sua missione, gli crearono un ambiente intorno in cui si sentiva finalmente riconosciuto. Era restio a parlare del suo passato, sembrava voler sminuire la sua appartenenza al mondo ebraico. Eppure c’erano tratti del suo modo di vivere, del suo carattere, della sua vita, che veniva spontaneo ricondurre alla sua esistenza in un periodo storico tra i più tragici della storia dell’ebraismo - storia che non fu mai facile del resto, e che non è possibile non l’avesse profondamente segnato. Era intonato, sapeva cantare con espressione, amava la musica classica, soprattutto quella di epoca romantica (non la musica operistica tuttavia). Sapeva scrivere, con gusto - come testimoniano i racconti che ci ha lasciato, raccolti poi in un volumetto che gli abbiamo donato per il suo ottantesimo compleanno. Il suo titolo, Insieme, rifletteva la sua voglia di socializzare, di vivere sentendosi in consonanza con altri, di partecipare e di venir accolto. L’immagine di copertina (di Sami bambino all’asilo) richiama, e non a caso, un’analoga immagine di Kafka bambino, che avevo utilizzato per la copertina di Walter Benjamin lettore di Kafka - in un gioco di specchi voluto. A quest’ultimo ritratto infatti Benjamin dedica a sua volta il secondo paragrafo, “Un ritratto d’infanzia”, appunto, del suo noto saggio del ’34: Franz Kafka. Nel decimo anniversario della morte.

Note
*Si veda, di Mark Mazower, Salonicco, città di fantasmi. Cristiani, musulmani ed ebrei tra il 1430 e il 1950, trad. di R. Merlini, Milano, Garzanti, 2007. Da vedere in questo contesto è anche, di Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1963.
**Tengo presente qui l’edizione Einaudi del 1960.
***Lo stesso anno dunque di Primo Levi, che nel 1941 si laureò in chimica all’Università di Torino “summa cum laude” (vigevano evidentemente costumi diversi nelle diverse sedi universitarie), come egli stesso dichiara in Se questo è un uomo, nel capitolo “Esame di chimica”, dove racconta dell’interrogatorio subito per accertare le sue competenze chimiche. È noto che l’esame andò bene, Primo Levi fu assunto come chimico (pur non cessando di esser trattato da Untermensch), e questo fu il motivo principale della sua sopravvivenza. Quanto al fatto che due ebrei abbiano potuto frequentare l’Università e laurearsi anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, la cosa più probabile è che a chi (italiano o no) si era iscritto all’Università prima del ’38 è stata data la possibilità di concludere gli studi.
****Come egli stesso ricorda verso la fine del racconto che dà il titolo al libro di Sami Samuel, Insieme, Milano, Edizioni dell’Arco, 1996, pp. 83-85.5
*****Di Liliana Segre ricordo l’intervista riportata da Daniela Padoan in Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopavvissute ad Auschwitz, presentazione di Furio Colombo, Milano, Bompiani, 2004, pp. 9- 62. Ma si veda anche Enrico Mentana-Liliana Segre, La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah, Milano, Rizzoli, 2015.    
******In diverso contesto, ma sempre a Milano, fu arrestata per una delazione e con un inganno Elisa Springer: cfr. E. Springer, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Venezia, Marsilio, 1997. 
*******Col mondo ebraico Papi c’entra solo da lontano; anche lui però ha sicuramente avuto ascendenti ebraici: lo testimonia il cognome Nahmias (lo steso cognome di Gilda) di taluni suoi parenti; lo spesso cognome Papi si ipotizza venisse da “ebrei dei Papi” (von Papen in tedesco) - poi dispersi in mille rivoli e di fatto cancellati in una storia di assimilazioni, matrimoni misti, conversioni per motivi pratici databili verso la metà del 1600. Tanto che ora coloro che recano a cognome Papi non sono considerati ebrei.