Pagine

venerdì 1 febbraio 2019

DICIANNOVISMO E AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE
di Franco Astengo


In un paese socialmente lacerato, privo di credibili riferimenti politici , dove oltre il 60% desidererebbe l’uomo forte “che mette le cose a posto” ricorrono i 100 anni dalla fondazione dei Fasci di Combattimento e c’è chi, nell’occasione, richiama il “diciannovismo”.
Sulle colonne del “Manifesto” (30 gennaio) il sociologo De Masi, un pentito tra i molti che hanno tirato - in certi casi per pura vanagloria - la volata al M5S, si sofferma sul tema del ritorno al fascismo e dichiara: “...Umberto Eco elenca 14 elementi per riconoscere la propensione all’autoritarismo, all’Ur- fascismo, al fascismo eterno”. Salvini li ha tutti. E così gli elementi che Adorno individua nella personalità autoritaria. E quelli di Talcott Parsons..”
“...Il decreto sicurezza vieta gli assembramenti e punisce i mendicanti: altri fascismi lo hanno fatto dopo la presa del potere. Qui prima”.
Tornando al centenario dei fasci di combattimento e al “diciannovismo” è interessante, proprio nella situazione di oggi, rievocare un passaggio assolutamente fondamentale per comprendere come si arrivò, da quel momento di fondazione nel giro di tre anni all’avvento del fascismo(la fondazione dei Fasci avvenne mentre era già in atto il biennio rosso e in Germania erano stati appena stroncati i moti spartachisti).
Decisivo  dunque sotto quest’aspetto fu il passaggio dall’interventismo al fascismo.
Un passaggio che avvenne lungo tre direttrici:


1)La critica al sistema giolittiano che si trasformò in critica alla democrazia rappresentativa tout court;
2)Alla democrazia come mediazione venne contrapposto il ruolo rivoluzionario della violenza;
3)La contrapposizione di classe sul piano interno di radicali di sinistra confluì nella contrapposizione indiscriminatamente frontale portata avanti dai radicali di destra sul piano europeo.

Antidemocrazia più nazionalismo e imperialismo di ritorno furono le convergenti premesse culturali di un processo politico ed anche partitico che determinò l’esito di quella fase.
In precedenza alla guerra mondiale l’alternativa nazionalista era priva di veri e propri canali di partito che la portassero avanti: le giuste intuizioni del fatto che si era entrati nell’età delle masse e che si potevano conquistare le masse anche da destra non erano sorrette, in quel momento, da un’adeguata strumentazione organizzativa in termini di partito.
Infatti grande industria, Chiesa,, esercito servono a inquadrare le masse in uno stato autoritario, dopo l’eventuale conquista del potere da parte di una forza politica omogenea.
Il fascismo rappresentò appunto il “partito nazionale” capace di inquadrare le masse, dopo averne distrutto i partiti tradizionali con la violenza delle squadre.
Nacque così il “diciannovismo”.
Allo scopo di rammentare al meglio quel tragico passaggio storico e, nello stesso tempo, lanciare un segnale d’allarme per l’oggi, si è pensato di ripubblicare di seguito la prima parte del  celebre articolo scritto da Piero Gobetti sul “Fascismo autobiografia della Nazionale” e comparso sulla rivista “Rivoluzione Liberale” del 23 novembre 1922, meno di un mese dopo la Marcia su Roma.

Per non dimenticare e per riflettere.
Tratto da “Il Fascismo come autobiografia della nazione” di Piero Gobetti

Il fascismo vuole guarire gli Italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l'appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell'anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun migliore panegirista della pratica.
L'attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l'inguaribile fiducia ottimistica dell'infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure.
La nostra polemica contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il nostro antifascismo prima che un'ideologia, è un istinto.
Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo letterario dei cristiani delusione di ottimisti. La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio.
Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi.
C'è un valore incrollabile al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti. Temiamo che pochi siano così coraggiosamente radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa incontrare nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso un insolente realismo obbiettivo. Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una paura dell'imprevisto che seguiteremo a indicare come provinciale per non ricorrere a più allarmanti definizioni. Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo "nipote" di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia è un'indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione.